La lavagna è diversa per tutti
Gli universitari impreparati, i genitori che aprono un asilo e le lezioni di satira anti Cav.
Al direttore - Ho studiato, prima della guerra, presso il Liceo Giulio Cesare di Roma. Un liceo prettamente gentiliano. Il mio libro di testo per la storia della letteratura italiana era del gobettiano Natalino Sapegno.
Al direttore - Ho studiato, prima della guerra, presso il Liceo Giulio Cesare di Roma. Un liceo prettamente gentiliano. Il mio libro di testo per la storia della letteratura italiana era del gobettiano Natalino Sapegno.
di Angiolo Bandinelli
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Al direttore - Colgo l'occasione per raccontare la mia esperienza di docente universitario in una facoltà scientifica a Firenze, in merito alla scuola pubblica e privata. Fermo restando che vi sono ancora poche eccellenze in entrambi i campi, è sempre più raro trovare studenti al primo anno di università in grado di sostenere con decoro un esame. Non solo si conferma la mancanza di un vocabolario minimo per comunicare, ma in particolare la totale incapacità a impostare un discorso o colloquio che dir si voglia. Negli anni successivi al primo si assiste o all'abbandono precoce o a una selezione micidiale, pur restando sempre al minimo di una soglia accettabile. Riguardo al liceo di provenienza, quando accertabile, il Classico conferma il suo valore aggiunto rispetto a tutti gli altri indirizzi. Tuttavia, nell'ambito privato, i licei parificati gestiti da religiosi (salesiani, scolopi, ecc.) si rivelano di buona qualità; solo pochi licei pubblici di storica tradizione rimangono a galla, ma con molti cedimenti rispetto al loro glorioso passato che li ha distinti. La sperimentazione liceale inoltre non sembra dare i propri frutti, e concludo dicendo che al 90 per cento la scelta del percorso post terza media inferiore è spesso inquinato da promesse e da propagande fumose (vedi Open Day) che poi si rivelano vere e proprie bufale!
di Riccardo Baldini
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Al direttore - Sono un cittadino italiano abitante in Lombardia. Per esperienza personale fatta come genitore, ho potuto constatare che adesso la scuola privata è meglio della pubblica sotto due aspetti:
EFFICIENZA ORGANIZZATIVA: la scuola privata (elementare), cinque classi, una per anno, era in grado di gestire con solo cinque insegnanti full-time (direttrice compresa) e due part-time (inglese e ginnastica) l'intero tempo scuola, compreso il prescuola dalle 7.30 e il doposcuola fino alle ore 18.
ATTENZIONE ALLO STUDENTE: ecco un po' di esempi, tutti a favore della scuola privata: 1. maggiore attenzione alla salute dei bambini: se il tempo era bello, nell'intervallo dopo pranzo nella scuola privata i bambini venivano portati sempre all'aperto. Nella scuola pubblica quasi mai. 2. Un bambino era a casa ammalato? Le insegnanti si preoccupavano di far avere a casa i compiti attraverso un fratello o un amico. 3. All'uscita scoprivi di aver dimenticato in classe un capo di abbigliamento o un libro? Suonavi e ti veniva aperto. Credo però che anche le scuole pubbliche potrebbero superare queste lacune, perché negli anni Sessanta, a Milano, quando le frequentavo come scolaro, avevano anch'esse una buona efficienza organizzativa e maggiore attenzione allo studente.
di Rinaldo Pinchiroli - Trezzano Rosa (Mi)
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Al direttore - Prendo il diploma in una scuola pubblica di Milano nella quale, ovviamente e come in tutte le scuole pubbliche, si fa indottrinamento. La frequento nel cuore degli anni Novanta, quindi i professori, oltre alle solite pratiche di conversione per i convertiti e per chi ancora non lo è (incitamento alle manifestazioni, a cambiare il sistema, entrare in classe con Rep., “che belli i film di Moretti”, ecc.) sono ancora più sbattuti causa la discesa in campo del Cav. Coi temi di italiano me la cavo bene, il mio 7 lo porto a casa abbastanza di frequente. Un giorno, avrò avuto 16/17 anni, la prof di Italiano che entra in classe con Rep. (e dal quale trae spunti per la conversazione), ci fa fare un tema in classe con argomento “l'immigrazione in Italia”. Faccio il mio bel temino scritto grammaticalmente bene e, siccome si doveva spiegare cosa se ne pensasse degli immigrati in Italia, scrivo che un immigrato deve rispettare la legge e i modi di vivere italiani; in maniera più specifica, spiego che la regola “sono poveri, non trovano lavoro=crimine sempre giustificato” (scuola Rep.), a me non va bene. Passa qualche giorno, consegna i temi e mi appioppa un bel 5. Il 5 non lo capisco, vado alla cattedra e chiedo spiegazioni davanti a tutti i miei compagni di classe: in maniera dolce, mi fa capire che sono stato razzista.
di Alberto Martini
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Al direttore - Vorrei elevare un inno alla scuola statale. Vi sono entrato ateo e ne sono uscito cattolico pieno di ragioni. Ho frequentato le prime tre elementari nel borgo natìo a Viverone, allora provincia di Vercelli: ottima maestra. Poi la quarta e quinta alla scuola di viale Mugello di Milano, dove ho patito la fatica del passaggio alla grande città, ma con un maestro (Grassi) che con il suo entusiasmo “sportivo” (era un ex atleta) mi ha reso lieti quegli anni. Poi la scuola media di piazza Ascoli, con una insegnante di Lettere dolce e melanconica (non aveva figli), che con pazienza raffinò la mia pelle campestre e mi fece persino amare il latino. A proposito di futuro, la prof di Lettere chiese a tutti come avremmo proseguito gli studi: io dissi che avrei voluto iscrivermi alla scuola alberghiera, visto che mio padre era un grande barman. Invece, senza che ne avessimo parlato in casa, mi ritrovai iscritto al Liceo ginnasio Berchet di via Commenda. Non finirò mai di benedire questa piccola e involontaria “violenza” di mio padre, perché in quella scuola statale avvenne l'incontro più importante della mia vita. Infatti, in quella scuola, insieme a professori discutibili, ma di grande spessore culturale (quasi tutti orientati a sinistra), insegnava anche don Luigi Giussani, che aveva lasciato i comodi studi accademici del seminario ambrosiano per immergersi a tempo pieno, anzi pienissimo, nell'agone educativo dentro la scuola statale. Il don “Gius” trentenne era una forza della natura. Entusiasta, impetuoso, intelligente, comprensivo. Le sue lezioni erano appassionanti: molti di noi erano polemici con lui per via della cultura dominante intorno a noi, ma egli ci induceva a ragionare, a non tralasciare le domande fondamentali della notra vita, a confrontarci con la realtà che stavamo vivendo. Proprio sul tema della ragione avvenivano i dibattiti più infuocati. Memorabile fu un dibattito avvenuto, durante il cambio dell'ora alla porta della mia classe. Don Giussani aveva appena finito la sua lezione proprio parlando di ragione. Mentre egli usciva, entrava il professore di Filosofia, al quale il sacerdote chiese: “Ma che concetto di ragione insegnate a questi ragazzi?”. Ne nacque una discussione a cui tutta la classe assistette con interesse e partecipazione. Quella fu la prima volta che la posizione di don Giussani mi convinse: il filosofo diceva che se uno non era stato in America poteva dire che tale continente non esisteva perché lui non l'aveva visto né con i propri occhi né con la propria ragione; il prete, invece, sosteneva che era ragionevole affermare che l'America esiste anche da parte di chi non ci fosse mai stato. L'ascolto delle lezioni di quel grande professore e la frequentazione di coloro che cominciavano a seguirlo fecero in modo che quando uscii dal liceo avevo la certezza che il cristianesimo poteva costituire la più seria ipotesi con cui affrontare tutta (dico tutta) la vita. Così è stato: si tranquillizzino i moralisti, ciò non ha voluto dire non sbagliare. Ma ha voluto dire riprendere instancabilmente e quotidianamente il cammino. Così, quando il mio primo figlio ebbe tre anni e ci fu il problema della scelta scolastica un gruppo di famiglie amiche si pose seri interrogativi. Eravamo nel 1971: la scuola statale ci sembrava immersa in una grande confusione, mentre la scuola c. d. privata ci sembrava troppo formale rispetto alla sostanza che noi avevamo trovato nell'esperienza di don Giussani. Scegliemmo, allora, una terza via e costituimmo una cooperativa di genitori con lo scopo di gestire una scuola che rispettasse le nostre esigenze educative. Cominciammo l'esperienza della materna con sei (sic!) bambini, poi il numero crebbe abbastanza velocemente e ora quell'esperienza si è strutturata in una scuola materna, elementare e media, che solo a Milano ospita più di ottocento allievi. Ma non solo: quel metodo è stato applicato in molte città d'Italia e ha dato vita anche a una elaborazione culturale che ora ha qualcosa di importante da dire in campo pedagogico. Il frutto più significativo è stata la coscienza che il compito educativo è quello più importante per un adulto, ma anche il più affascinante, perché costringe l'adulto a rimettersi continuamente in gioco. Don Giussani, terminando un suo intervento al Meeting di Rimini, ci disse: “Vi auguro una sola cosa, di non stare mai tranquilli”.
di Giuseppe Zola
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Al direttore - Vengo dal Liceo classico di stato Andrea Doria di Genova: spartano, molto severo e rinomato. Altri prudentemente preferivano istituti privati gestiti da religiosi, come la Recco (gesuiti) e la Vittorino da Feltre (barnabiti). Tutte scuole eccellenti, per contenuti culturali e qualità didattica. Al Doria veniva attuata una selezione spietata, che garantiva una piena formazione umanistico-letteraria: uscirne con il diploma rappresentava un titolo di vanto per la futura classe dirigente genovese. Per lo più marxista l'orientamento degli insegnanti e dei testi (storia: Saitta, letteratura: Sapegno). I coetanei della Recco e del Vittorino testimoniano di studi altrettanto rigorosi, ma di ambienti meno rigidi. Anche lì c'erano ottimi insegnanti, laici e religiosi: nessuno comunque doveva indottrinare nessuno, non c'erano verità ufficiali e la religione era una materia come le altre. Riflessione. Non so se contrapporre ideologicamente scuola pubblica e privata abbia ancora senso. Il punto è piuttosto la qualità didattica di tutta la scuola. Un tempo il problema era la scolarizzazione. Oggi è l'analfabetismo dei laureati.
Gianluca Caffarena
Al direttore - Vorrei dire, a proposito delle affermazioni di Berlusconi sulla scuola pubblica, che ha perfettamente ragione. Sono una docente della scuola pubblica (insegno Matematica nella Scuola media) e posso confermare che molti colleghi che ho avuto modo di conoscere negli anni approfittano della loro posizione per fare politica di sinistra in classe. Secondo me la politica non dovrebbe mai essere trattata nella scuola perché è troppo facile influenzare delle giovani menti ancora plasmabili. Posso confermare senza tema di smentita, che nel liceo frequentato da mia figlia l'anno scorso c'era un'insegnante che faceva preparare vignette satiriche su Berlusconi durante l'ora di storia. Noi docenti dobbiamo renderci conto che nella nostra posizione abbiamo ancora molto potere sui nostri ragazzi ed è da vigliacchi approfittarne. Il nostro compito è invece quello, molto più formativo, di dare agli alunni tutti gli elementi di riflessione e di ragionamento con i quali poi, una volta cresciuti, potranno fare le loro scelte consapevoli e mature, e non quello di portarli a conclusioni che sono solo le nostre e non le loro. Vorrei aggiungere che nella scuola pubblica non ci sono solo docenti politicizzati, ma alcuni anche ignoranti, lavativi o inadeguati a svolgere un compito così delicato come quello di insegnare. Sono numerosi i casi di colleghi incontrati durante la mia venticinquennale carriera, che a mio parere rubavano letteralmente lo stipendio, assentandosi per finte malattie, nascondendosi dietro scuse, o spesso fuori dall'aula perché impegnati in attività che avrebbero dovuto svolgere alla fine della propria lezione e per le quali venivano anche pagati. Tutto questo senza contare i ritardatari cronici, i polemici, quelli con disturbi della personalità ecc. Costoro non solo non portano avanti con serietà il proprio lavoro, ma contribuiscono a creare un clima negativo a scuola, nel quale restano coinvolti anche i ragazzi e che disturba la giusta serenità con cui si dovrebbe operare. Inoltre danneggiano l'immagine dei docenti, la maggior parte dei quali fa in silenzio il proprio dovere. Il nostro è un lavoro bellissimo che ci mette a contatto con i ragazzi, i giovani che saranno il futuro della nostra società e abbiamo nei loro confronti il dovere di comportarci al meglio delle nostre possibilità con entusiasmo e serietà.
di Clotilde D'Ambrosio


Il Foglio sportivo - in corpore sano
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