Processo alle intenzioni
Il giorno del voto sul federalismo è stato screziato dai tentativi di far sbilanciare Gianfranco Fini sul cosiddetto “caso Ruby”. Il presidente della Camera, infatti, ha per le mani la delicatissima lettera con cui i capigruppo della maggioranza chiedono che si sollevi un conflitto d'attribuzione del procedimento con i giudici di Milano. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, si è premurato di far sapere che “non ho scritto né ho contribuito” alla richiesta, che invece Umberto Bossi ha accolto con approvazione (“ma sarebbe meglio se l'opposizione la smettesse di fare casino”).
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Il giorno del voto sul federalismo è stato screziato dai tentativi di far sbilanciare Gianfranco Fini sul cosiddetto “caso Ruby”. Il presidente della Camera, infatti, ha per le mani la delicatissima lettera con cui i capigruppo della maggioranza chiedono che si sollevi un conflitto d'attribuzione del procedimento con i giudici di Milano.
Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, si è premurato di far sapere che “non ho scritto né ho contribuito” alla richiesta, che invece Umberto Bossi ha accolto con approvazione (“ma sarebbe meglio se l'opposizione la smettesse di fare casino”). Luciano Violante, nel ruolo di Fini durante il primo governo Prodi, ha rischiato la tautologia (“Il presidente della Camera è imparziale se applica le regole in modo imparziale”), allineandosi su un rispetto della procedura vicino a quello in cui ha detto di confidare il presidente Napolitano, in un'intervista al quotidiano tedesco Welt am Sonntag: “Penso che il presidente del Consiglio abbia le sue ragioni e buoni mezzi giuridici per difendersi contro le accuse. Sia la nostra Costituzione sia le nostre leggi garantiscono che un procedimento come questo, in cui si sollevano gravi accuse che il presidente del Consiglio respinge, si svolgerà e concluderà secondo giustizia”.
Chi volesse farsi un'idea della solidità delle premesse in cui confida il capo dello stato, può scorrere le centinaia di pagine di intercettazioni sul caso, facilmente reperibili su Internet. Nelle carte c'è tutto, a partire dalla disgraziata mattina in cui la giovane Ruby, smentendo il principio del nomen omen (Karima vuol dire “generosa”), avrebbe rubato tremila euro alla coinquilina Caterina Pasquino, che le aveva aperto le porte di casa dopo averla conosciuta in discoteca, al “The Club”. Dalle carte, però, nascono alcune perplessità:
1) I legali del presidente del Consiglio sostengono che, se c'è stato un abuso, è stato nell'esercizio delle funzioni di ministro: sciogliendo il più in fretta possibile i guai di quella che credeva essere la nipote del presidente egiziano, ha evitato possibili frizioni diplomatiche con il governo del Cairo.
La tesi del gip milanese, sposata ieri anche da Luciano Violante in un'intervista, è semplicemente l'opposto: Silvio Berlusconi ha agito per convenienza personale, “per assicurarsi l'impunità e occultare la prostituzione minorile”. Stando al comportamento del premier, che non ha attivato “alcun contatto con le autorità egiziane”, né ha affidato Ruby “a una qualsivoglia delegazione diplomatica”, la procura conclude che l'interesse del presidente del Consiglio “riguardava ‘la ragazza' e non le sue parentele extracomunitarie”.
Ritenendo che il Cav. abbia agito per scopi privati, estranei alle sue funzioni, la procura si sente legittimata a procedere senza dover richiedere quell'autorizzazione della Camera che è prevista dall'articolo 96 della Costituzione. Ma chi decide se un reato è ministeriale? L'articolo 6 della legge costituzionale del 16 gennaio dell'89 non si concede troppo all'interpretazione: se si incappa in una notizia di reato che è interessato dall'articolo 96 della Costituzione, si devono trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri, “omessa ogni indagine” – pena l'inutilizzabilità in giudizio degli atti eventualmente assunti (come impone l'articolo 191 del codice di procedura penale). Il Parlamento, poi, può “negare l'autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l'inquisito abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Alle prese con una situazione simile nei confronti di Altero Matteoli (per un reato commesso quando era ministro dell'Ambiente in quota Alleanza nazionale), la Corte costituzionale aveva confortato i confusi: “All'organo parlamentare non può essere sottratta una propria, autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria”.
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2) La concussione è un reato proprio, cioè che può essere commesso solo da chi ha una determinata qualifica. Solo un militare può fare diserzione, così come, fino alla fine degli anni Settanta, uno scapolo non poteva certo essere accusato di aver commesso adulterio, allora reato. Chiarisce l'ex deputato radicale Mauro Mellini: “Perché l'estorsione diventi concussione si deve essere pubblici ufficiali, e Berlusconi non lo è per nascita, lo è da quando è stato investito della carica di presidente del Consiglio, nominato dal capo dello stato”. Il giudice per le indagini preliminari ammette che l'intervento del Cav. nelle vicende della sedicente “ballerina del ventre” marocchina è stato “sicuramente con abuso delle qualità di presidente del Consiglio, ma, altrettanto certamente al di fuori di qualsivoglia prerogativa istituzionale e funzionale propria del presidente del Consiglio dei ministri”, a cui non competono né l'identificazione dei minori né l'attività della questura di Milano. Ha abusato quindi della sua qualità, ma non nell'esercizio delle sue funzioni. La distinzione è sottile e secondo Mellini, già membro del Consiglio superiore della magistratura, è talmente labile da risultare inesistente: “Mettere in dubbio che Silvio Berlusconi abbia indotto un reato con un'autorità che non sia quella di presidente del Consiglio è assurdo. Se qualcuno ha ascoltato il suo parere in questura è proprio perché la telefonata veniva dal premier. Se ha commesso concussione lo ha fatto grazie alla sua carica, altrimenti stiamo parlando di un altro reato, che ha fatto, che so, come presidente del Milan”. Si può giocare sugli spiragli lasciati dalla carica del presidente del Consiglio, che è anche membro della Camera dei deputati, ma “non è che quando ho più cariche il magistrato può scegliere quella che gli torna più utile per ricamarci sopra un reato”, dice Mellini, che precisa: “Su queste cose la legge è talmente chiara che non oserei nemmeno dire che questo è il mio parere”.
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3) Il presidente del Consiglio sarà giudicato da tre giudici donna. Una di loro, Orsola De Cristofaro, è tra i firmatari dell'appello dell'Associazione nazionale magistrati contro l'allora disegno di legge proposto da Gaetano Pecorella sull'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. C'è anche una fotografia, facilmente rinvenibile, in cui figura con un cartello al collo durante una protesta di magistrati contro il governo di Silvio Berlusconi, il suo prossimo imputato.
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4) Per quanto riguarda le serate di Arcore presenti nell'architettura accusatoria, in quella del 12 luglio c'è un dettaglio rilevante. Gli unici due intercettati sono una ballerina marocchina, Maria Makdoum, e un ex prefetto di Napoli, Carlo Ferrigno, ora in pensione. Nonostante fosse stato nominato commissario antiracket nel 2003 dal dal secondo governo Berlusconi, Ferrigno non lesina le critiche al premier (“un uomo di merda”, “che schifo quell'uomo”). Nelle tre telefonate agli atti, si dilunga in descrizioni dettagliate delle serate del “bunga bunga”, una disinvoltura che ai pm di Milano è risultata decisamente utile. Ma Ferrigno, a Villa San Martino, quella sera non c'era. C'era Maria Makdoum, che dice di aver ballato la danza del ventre al cospetto del premier, per poi raccontare tutto all'ex prefetto, a cui la legava una frequentazione molto stretta. Nelle 389 pagine di intercettazioni telefoniche, di quella sera ci sono solo i tabulati: si vedono le due chiamate di Ferrigno prima della serata (alle 19.45 e alle 20.30), un sms della ballerina all'amico a venti minuti a mezzanotte e tre telefonate, da parte di Ferrigno, attorno alle due di notte. Messo al corrente dell'andamento della serata da quella che lui chiama “la puttanella”, l'ex prefetto pare serbare il resoconto nel profondo del cuore fino al primo pomeriggio del 22 settembre, oltre due mesi dopo, quando accenna alla vicenda nel corso di una telefonata. Pochi giorni dopo, in occasione del compleanno del premier (29 settembre), racconta per bene di cose che “ho saputo adesso recentemente in diretta” da Maria Makdoum, “perché l'avevo fatta mandare lì da Lele Mora”.
Perché per illuminare quella serata ci si affida solo ai tabulati e alle ricostruzioni tardive di Carlo Ferrigno? Perché Ferrigno non era intercettato su ordine di Ilda Boccassini, ma per conto del pm milanese Stefano Civardi, che non stava indagando sulle serate di Arcore ma per altre accuse, molto pesanti, mosse all'ex prefetto di Napoli. Stando alla denuncia presentata dalle associazioni Sos usura e Sos Italia libera, Carlo Ferrigno avrebbe ricattato almeno sette donne, esigendo rapporti sessuali per far sbloccare mutui dal fondo anti usura. E' per verificare queste accuse, che, da febbraio, il pm Stefano Civardi ha fatto intercettare il telefono di Ferrigno. E' quantomeno curioso come i verbali delle sue intercettazioni siano riemersi in un altro faldone, quello dell'inchiesta ai danni del premier, peraltro senza che il contesto, le fonti e le date di tali dichiarazioni rendessero sospetta la loro attendibilità.
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