Banali tentativi di inculcare, nobili dialoghi politici e la scoraggiante pappa dell'egualitarismo

Redazione

Al direttore - Ho avuto l'occasione di frequentare sia la scuola pubblica che la scuola privata: elementari, liceo, università pubblici; medie private (suore). Che dire… La diversità è evidente, non solo in fatto di indottrinamento, ma soprattutto in termini di qualità. Le mie insegnanti delle elementari ci hanno inculcato le informazioni che era previsto ci inculcassero, ma in quanto a educazione e attenzione nei confronti dei bambini erano pressoché assenti. […]

    Al direttore - Ho avuto l'occasione di frequentare sia la scuola pubblica che la scuola privata: elementari, liceo, università pubblici; medie private (suore). Che dire… La diversità è evidente, non solo in fatto di indottrinamento, ma soprattutto in termini di qualità. Le mie insegnanti delle elementari ci hanno inculcato le informazioni che era previsto ci inculcassero, ma in quanto a educazione e attenzione nei confronti dei bambini erano pressoché assenti. Alle medie tutto è cambiato: insegnanti e suore ci controllavano di più. C'era una serietà nella conduzione della professione di insegnante che non ho mai più visto. Ringrazio in particolare modo la mia insegnante di italiano, la migliore in Italia (ne sono convintissima). Forse per il fatto di essere una scuola di confessione, il che porta inevitabilmente ad avere (a mio parere) un'etica e un comportamento molto serio e diligente, in questa scuola mi hanno trasmesso molti valori: l'onestà, la coerenza, la diligenza e il rispetto per il prossimo. Nella mia classe la maggior parte dei ragazzi si sforzava di migliorare e questo non era considerato “da sfigati”. Alle elementari ero molto svogliata, alle medie conquistai la voglia di studiare. Al liceo è stato brutto. Bruttissimo. Assenteismo, menefreghismo, poca educazione, propaganda di sinistra, chi più ne ha, ne metta. Le insegnanti erano più occupate delle faide tra di loro, che dell'insegnamento. Per non parlare dell'indottrinamento: ricordo benissimo quando espressi in un tema argomentativo la mia opinione contraria all'aborto e di come l'insegnante alla riconsegna venne a cercare di farmi cambiare idea (visto che in preparazione al tema aveva cercato di lavarci il cervello). Le mie idee vennero definite in un commento scritto “tranchants”. Almeno era onesta, non mi abbassava i voti. Invettive contro la chiesa, il Papa, Berlusconi, di come fosse necessaria una legge sull'eutanasia in Italia, ecc. A me prendeva un nervoso che mi faceva quasi star male; tuttavia questa esperienza mi ha fortificato, mi sono resa conto che quello che penso l'ho ragionato e che se sono riuscita a non farmi lavare la testa a 16 anni dagli insegnanti, allora non sono un burattino come quel ragazzino di 13 anni al raduno antiberlusconiano. Ricordo l'omertà totale di insegnanti e studenti nei confronti di altri professori che svolgevano una sola lezione a quadrimestre oppure nei confronti di quelli che non erano assolutamente in grado di insegnare la loro materia (vedi latino o storia dell'arte).
    Linda Maria Migliore, via Web

    Al direttore - Luca frequenta la terza classe del liceo scientifico. E' un ragazzo sveglio, intelligentemente diffidente, con un discreto amor proprio e – cosa non consueta tra gli adolescenti di oggi, checché ne scrivano alcuni quotidiani, nostalgici delle epopee del bel tempo che fu – interessato al tema della politica e del ruolo che essa deve avere nel processo di crescita degli adolescenti. Giorni or sono Luca ha scritto un articolo sul giornalino online della sua scuola in cui ha dato forma a questa sua esigenza. L'ha fatto in modo garbato e dialogante, interpellando la sensibilità dei suoi professori e sostenendo che “fosse sua ferma convinzione che, oltre a contribuire alla nostra formazione culturale, durante il quinquennio dei nostri studi, gli insegnanti dovrebbero offrirci qualcosa in più e, in particolare, aiutarci ad avere almeno una visione d'insieme sull'attuale realtà sociale, dando vita a dibattiti sulla politica, un argomento che pochi docenti si preoccupano di trattare con gli alunni”. Non ha mancato di sottolineare che i suoi docenti spesso sgusciano via rispetto a questi bisogni degli studenti oppure si mostrano preoccupati di sopire o soffocare spunti di dibattito che potessero collegarsi a questioni troppo scottanti dell'attualità. Infine, con un candore prezioso, pari solo alla sua naturale ingenuità, ha scritto: “Cari professori, siete una delle poche fonti rimaste oggi in Italia che ci possono mostrare una visione quanto più veritiera della reale situazione politica in cui versa oggi il nostro amato paese, perché ormai, nella situazione di totale anarchia in cui si trovano le nostre istituzioni, la libertà di parola è stata bandita e i principali mezzi di comunicazione (un esempio più vicino alla nostra quotidianità è la televisione) sono stati corrotti e mostrano delle realtà falsate che pongono le persone che le seguono in uno stato che avrebbe definito Eraclito, è quello ‘dei dormienti', che si lasciano convincere dalle apparenze che gli vengono sottoposte e che vengono accettate in maniera acritica”.
    Ecco, quando un ragazzo interpella in questo preziosissimo modo la coscienza di un adulto, di un insegnante o di un educatore, costoro non possono e non debbono tacere. E io non l'ho fatto. Gli ho risposto sullo stesso giornale. Ho sottolineato che, per me, il modo più appropriato di fare politica da parte di ogni cittadino, è quello di svolgere nel modo più scrupoloso possibile il proprio lavoro, di farlo con passione, sollecitudine e perseveranza, offrendo con spirito di servizio alla propria polis un contributo proficuo e competente, nella consapevolezza che esso avrà, in modo mediato o immediato, un impatto sulla collettività. Questo discorso, che vale per ogni professione, riceve una sottolineatura ancora più spiccata per il lavoro dell'insegnante, le cui finalità sono quelle di contribuire attraverso il sapere e la conoscenza e attraverso la proposta di un nucleo di valori che alla cultura è inestricabilmente connesso, alla formazione più ricca possibile delle nuove generazioni, cioè di quegli uomini e di quelle donne che dovranno nel futuro essere la spina dorsale della nazione. L'insegnamento, se svolto con entusiasmo, competenza e con amore, cioè con interesse per gli studenti, e lontano perciò da ogni declinazione burocratica, asettica o gelidamente impersonale di esso, è un mestiere intrinsecamente “politico”, cioè un lavoro che ha nella sua costituzione intima una finalizzazione intersoggettiva e quindi come tale comunitaria. Insegnare, cioè, è per sua stessa essenza “fare politica”, in un senso, naturalmente, molto largo di questa parola. Solo in questo, gli ho detto, sinceramente e senza indulgere in paternalismi stucchevoli, consiste la “politicità” dell'insegnare, cioè nel contributo che in questo modo si fornisce alla crescita morale e intellettuale dei ragazzi. Altre interpretazioni del ruolo dell'insegnamento sarebbero improprie, in quanto una cattedra non è una tribuna da cui aizzare le folle né un pulpito dal quale catechizzare i fedeli. Una cattedra è una frontiera mobile che ha il compito di mettere in relazione, attraverso il sapere, passato e presente per determinare le condizioni di una piena consapevolezza civile e culturale dei ragazzi. L'altro giorno ho incrociato Luca nel corridoio. Mi ha salutato con un'espressione orgogliosa e compiaciuta. Un po' di quella sua originaria diffidenza comincia a stemperarsi.
    Gennaro Lubrano Di Diego, via Web

     Al direttore - Io sono di destra, ma non sono ricca: ergo, per i miei figli mi tocca la scuola pubblica e molti rospi da ingoiare. Il quaderno di italiano del mio primogenito viene giustamente corretto dall'insegnante. Da madre diligente lo controllo periodicamente per seguire i suoi progressi. Noto così che qualsiasi lavoro, qualsiasi compito, qualsiasi esercizio fatto e dalla maestra controllato che abbia un errore, o quattro o dieci e indipendentemente dalla loro gravità, è sempre marchiato dallo stesso giudizio “Bene” oppure “Bravo”. Ho provato ad affrontare l'insegnante, instillando il dubbio che una presa di coscienza per un lavoro sbagliato dovrebbe essere sollecitata da una certificazione scritta nero su bianco del grado di errore dello stesso; ad esempio: non si potrebbe usare un “male” o un “malissimo”? Apriti cielo! Pare che io abbia fatto la figura della rozza troglodita, genitrice ottusa e antidiluviana. Ma come, signora mia, non sa che un giudizio negativo umilia il bambino? Lo traumatizza? Certo che lo so! Quello che non so è perché questo sia adesso un problema: il trauma serve a crescere, l'errore a imparare, l'umiliazione (che poi umiliazione per un “malissimo” sul quaderno? al limite un po' di sana vergogna!) a migliorare. Ma no! ma no!, signora mia; un giudizio negativo può bloccare irrimediabilmente lo sviluppo cognitivo dell'allievo e la sua capacità di apprendimento! Ma forse – insisto – diversificare le valutazioni lo potrebbe spronare a fare meglio, stimolare l'impegno per tendere all'eccellenza. Per contro, un giudizio sempre ugualmente positivo potrebbe essere disincentivante. Macché, signora mia! Che dice? Vogliamo tornare alla storia della competizione tra ragazzi? Ragazzi che sono tutti ugualmente bravi, tutti ugualmente dotati purché sia data loro la possibilità di dimostrarlo?
    Letizia Panetti, via Web

    Al direttore - Sono un giovane insegnante torinese di lettere. Ho insegnato già in più tipi di scuole, da quella di formazione professionale regionale al triennio del liceo scientifico, dalla prima media alla quinta superiore: ho un'esperienza breve (corre il mio settimo anno), ma ricca e complessa. Ho insegnato e credo nella scuola cattolica, perché ho trovato nella proposta cristiana la più interessante, vitale, persuasiva e ragionevole esperienza di vita. Non potrei però affermare che la struttura scolastica privata garantisca l'incontro persuasivo con la proposta cristiana, o che viceversa la scuola pubblica la impedisca. La sfida che si pone oggi alla cultura cattolica. La sfida si pone al livello della ragione, quindi è nel contempo profondamente personale-individuale e ecumenica-trasversale. Veritas est adequatio rei et intellectus, diceva Tommaso D'Aquino: io, da cristiano, non mi occupo innanzitutto di portare in classe contenuti della tradizione cristiana (anche se la cultura laicista post-giacobina si è permessa l'esecrabile atto di forza di espungere dal bagaglio culturale collettivo interi secoli dominati dall'influsso del cristianesimo, che andrebbero riscattati). Il luogo può sicuramente favorire o sfavorire la comunicazione della verità, per questo è obbligatorio non precludere la possibilità che esistano e siano rigogliosi tutti i luoghi educativi liberi, non solo quello statale, ma anche quelli privati, che – attenzione – offrono già un enorme servizio pubblico, sgravando anche lo stato di un'ingente spesa. D'altra parte, indipendentemente dalla struttura scolastica, un insegnante che abbia a cuore la ragionevolezza e la verità di ciò che afferma non può che fare del bene ai ragazzi cui insegna, da qualsiasi parte politica, culturale o religiosa provenga. Se la scuola cattolica ha a cuore che i giovani non fumino e quella statale che ci si opponga alla Gelmini, avranno pochi ed estemporanei discepoli…
    Luciano Parlato, Torino