Rahmon resiste a Dushanbe

Luigi De Biase

Nessun analista era pronto a scommettere sul futuro del leader del Tagikistan. Nella valle di Rasht si sono fusi tutti gli elementi che lo hanno reso un paese instabile negli ultimi vent’anni

All’inizio di ottobre, un elicottero dell’esercito tagico è caduto nella valle di Rasht, a duecento chilometri dalla capitale Dushanbe. L’incidente è costato la vita a ventotto soldati e la lista delle vittime comprende un colonnello, un deputato del Consiglio per la sicurezza nazionale e tredici soldati delle Squadre Alfa, i gruppi speciali che combattono i terroristi. La polizia ha impiegato venti giorni per ritrovare i corpi: le montagne della zona non sono fatte per le scampagnate. La ricostruzione del governo assomiglia all’ora di catechismo. Il pilota ha perso il controllo dell’elicottero – è una cosa che metti in conto se comandi un MI8 messo insieme ai tempi dell’Unione sovietica – la carcassa ha cominciato a scendere ed è crollata con un botto spaventoso. Fine delle trasmissioni.

  

Molti pensano che le cose non stiano esattamente in questo modo.
Rasht è un corridoio che divide il paese in due, a nord tocca il bordo kirghiso, a sud sfiora quello con l’Afghanistan. E’ il posto ideale per allevare capre e trasportare droga: di qui passano ogni anno tonnellate di eroina e gli scontri con i trafficanti sono sempre stati regolari. Il problema è che ora stanno aumentando. Il tre settembre un uomo si è fatto esplodere di fronte a una caserma di Khujand, uccidendo due persone. I giornali del posto hanno scritto che mai un kamikaze aveva colpito il Tagikistan. Pochi giorni prima che l’elicottero delle squadre Alfa cadesse a terra, venticinque reclute sono morte in un’imboscata nella gola di Kamarob. E’ stato un attacco secondo le regole della guerriglia, un colpo rapido contro una colonna militare su una strada deserta: chi si è mosso contro il convoglio aveva a disposizione granate, armi automatiche e un rifugio sicuro fra le montagne tagiche. “Ci sono codardi che cercano di mettere in pericolo la stabilità della nostra nazione”, ha detto il ministro della Difesa, Faridun Mahmadaliev, rispondendo alle critiche di quanti chiedevano le sue dimissioni. Negli Stati Uniti sono convinti che al Qaida abbia scelto il Rasht come punto d’appoggio per la guerra santa nell’Asia centrale. La Cia avrebbe evitato volentieri la notizia: questa terra è strategica e il governo di Dushanbe ha perso il controllo della regione.

  

Secondo James Kirchick e Frangis Najibullah, due reporter di Radio Liberty che trasmettono dal Tagikistan, sessantacinque soldati sono morti per Rasht negli ultimi tre mesi. Il presidente della Repubblica, Emomalii Rahmon, parla di islamisti e dice che la sua nazione non diventerà mai come l’Afghanistan, ma evita termini pericolosi come “al Qaida” e “talebani”. Soprattutto, non spiega come risolverà il problema. In estate ha chiesto all’esercito di sigillare il Rasht: le strade sono chiuse, le linee del telefono sono interrotte e i cellulari sono schermati, chi è dentro non può uscire e chi sta fuori non sa dire che cosa succede. “Se le comunicazioni sono ancora ferme è perché i nostri soldati non hanno finito il lavoro – dice un portavoce dell’Interno, Mahmadullo Asadullozoda – Una cosa si deve sapere: l’esercito è in grado di affrontare la minaccia dei terroristi sia a Rasht, sia nelle altre altre parti del paese”.

  

Il governo tagico usa il termine “terroristi” per descrivere un gran numero di minacce. Ci sono i martiri del Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), un gruppo fuorilegge molto popolare fra le montagne dell’Asia; ci sono i reduci della guerra civile che ha spaccato il paese negli anni Novanta (Rahmon era il capo di una delle fazioni in lotta ed è sopravvissuto a due colpi di stato); ci sono i corrieri della droga diretti in Russia e in Europa; e, infine, i signori della guerra che non hanno mai riconosciuto il potere di Dushanbe e cercano di conservare l’indipendenza. Un uomo rappresenta tutte queste categorie. Il suo nome è Abdullo Rahimov e la gente del Rasht lo conosce come Mullo Abdullo. E’ uno di quelli che hanno sempre trovato buone ragioni per tenere un fucile fra le braccia: a seconda del momento, il governo lo accusa di essere il maggiore trafficante dell’Asia centrale, di sostenere gli islamisti e di avere un piano per rovesciare il presidente, anche se nessuno lo vede da quasi dieci anni. Secondo le fonti ufficiali, Mullo si muove come un fantasma per le montagne al confine con l’Afghanistan. Pensano che sia una specie di bin Laden e gli mettono in conto tutti i fatti di sangue che si verificano nel Tagikistan.

  

Il suo nome è legato alla grande guerra cominciata nel 1992, pochi mesi dopo la fine dell’Unione sovietica, per scegliere la nuova guida del paese. Mullo ha perduto quella guerra, ma la sua popolarità è ancora alta. I primi ad alimentarla sono gli ufficiali di Rahmon con le loro accuse: Mullo pianifica ogni sommossa che scoppia nella capitale, le bande che comprano le guardie di frontiera per far entrare l’oppio nel paese sono ai suoi ordini, così come i ribelli nascosti fra le gole del Rasht. La verità è che Mullo Abdullo è scomparso nel 2002, l’anno in cui i marine americani lo hanno catturato alla periferia di Kabul con un commando di guerriglieri islamici. La Cia dice che ha combattuto a fianco dei talebani nella frontiera con il Pakistan, molti pensano che Rahmon usi la sua ombra per portare la calma fra la popolazione e nascondere il vero problema: ci sono parti del paese sotto il controllo di movimenti che hanno molto in comune con al Qaida, l’esercito non è più in grado di affrontare la minaccia, ma il presidente non vuole chiedere aiuto. Né alla Russia, che ha un’intera divisione a Dushanbe, né agli Stati Uniti, che vorrebbero aprire un centro di addestramento per mostrare ai tagichi come si affrontano i talebani. La base dovrebbe sorgere nel distretto di Quarotogh e Washington ha stanziato dieci milioni di dollari per portare a termine l’operazione, come ha spiegato l’inviato della Casa Bianca nella regione, Robert Blake, durante una visita recente. Rahmon non si è ancora deciso ad approvare il progetto. Eppure, i suoi soldati hanno rimediato una serie di sconfitte dolorose nel Rasht e non se la passano bene neppure in città, dice Andrew McGregor, un esperto della Jamestown Foundation, il centro studi che conosce bene gli affari dell’Asia centrale.

 
Una grande potenza regionale come l’India ha aperto da tempo i canali con il Tajikistan. Alla fine degli anni Novanta, il governo di Nuova Delhi ha aperto una base aerea a Farkhor, vicino al confine con l’Afghanistan. L’ascesa dei talebani sul lato opposto del bordo ha convinto gli indiani ad allargare la partnership, che ora supera i venti miliardi di dollari – il capitolo più significativo negli scambi fra i due paesi è proprio la difesa. Al campo di Farkhor sono stati curati a lungo i combattenti dell’Alleanza del nord, l’esercito che si opponeva agli studenti del Corano. Oggi è una trincea nella lotta ad al Qaida.

  

La prova migliore per dimostrare la tesi della Jamestown Foundation sulla salute della polizia tagica è la fuga organizzata all’Snsc, il carcere di massima sicurezza di Dushanbe. Ad agosto, venti prigionieri hanno rubato le armi delle guardie e sono riusciti a evadere dopo una battaglia lunga quattro ore. L’esercito li ha inseguiti sino al Canyon di Romit, a quaranta chilometri dalla capitale, ma si è dovuto arrendere. Il commando era guidato da Ibrohim Nasriddinov, un ex detenuto di Gantanamo che dovrebbe scontare 23 anni per omicidio e cospirazione. Con lui c’erano quindici tagichi, cinque russi del Daghestan (una Repubblica del Caucaso che confina con la Cecenia) e un paio di uzbeki. Una piccola internazionale del terrorismo islamico. Erano finiti in carcere un anno prima, durante un’operazione antidroga nella valle di Rasht, è lì che sono tornati appena hanno ritrovato la libertà.
  
L’evasione di massa ha segnato l’inizio degli attacchi contro gli obiettivi militari. Le reclute di Kamarob non sono morte durante un raid per stanare i trafficanti di droga, ma durante un attacco pianificato con cura, ugale a quelli che i ribelli ceceni portavano a termine contro i russi negli anni Novanta. Le parti si sono invertite in Tagikistan: ora sono i ribelli che danno la caccia ai militari. Gli islamisti hanno le armi che servono a colpire obiettivi più grossi, come gli elicotteri che trasportano le squadre speciali dentro alla valle di Rasht, il corridoio lungo e selvaggio in cui si combatte una guerra che la maggior parte della popolazione ignora. “L’esercito può controllare la zona soltanto di giorno”, scrivono i reporter Kirchick e Najibullah. Nessuno ammette che i veri padroni della valle non hanno l’uniforme delle autorità tagiche, ma portano gli stessi abiti dei guerriglieri che combattono qualche chilometro più a sud, nel deserto dell’Afghanistan. Per gli islamisti dell’Imu, Dushanbe è una pedina della guerra santa contro l’occidente. Rahmon non ha ancora permesso agli americani di costruire una base nel proprio paese, ma contribuisce già ai rifornimenti per le truppe di stanza a Kabul.
   
Nei messaggi diffusi via Internet, l’Imu inserisce il governo di Rahmon fra i nemici che devono essere abbattuti. Lo stesso problema riguarda altri regimi dell’Asia centrale, come l’Uzbekistan e il Kazakistan. Anche lì, l’Imu cerca di indebolire i patti con l’America usando le bombe. Questa non è l’unica ragione che spinge gli islamisti sino al Rasht. L’analista della Jamestown dice che il Tagikistan sta diventando un rifugio per i talebani in fuga dall’area tribale che separa l’Afghanistan dal Pakistan. L’esodo è cominciato lo scorso anno, quando la Casa Bianca ha aumentato il numero dei raid sulle terre di confine. Questa strategia ha contribuito a distruggere molti santuari di al Qaida e a decimare la leadership dell’organizzazione. Le guardie di frontiera hanno già fatto i conti con questa migrazione. Nell’estate del 2009, le agenzie di stampa internazionali hanno trasmesso la notizia di una lunga battaglia al bordo fra i cue paesi. Un centinaio di talebani hanno cercato di sfondare la linea di difesa costruita dall’esercito tagico, volevano aprire un varco con l’Afghanistan, ma il loro tentativo è fallito. Non significa che i ribelli abbiano rinunciato ai sentieri di alta montagna che portano verso nord.

  
Nessun analista è pronto a scommettere sul futuro di Rahmon e del paese. Nella valle di Rasht si sono fusi tutti gli elementi che hanno reso il Tagikistan un paese instabile negli ultimi vent’anni. Con gli islamisti dell’Imu ci sono i trafficanti di droga e i ribelli della guerra civile, ogni segno di debolezza mostrato dal governo aumenta il loro potere agli occhi della popolazione. Anche per questo, il presidente ha impegnato la macchina della propaganda per combattere contro un fenomeno sempre più deciso nelle campagne tagiche. Il numero delle donne che indossano il velo sale anno dopo anno, e sale pure il numero dei bambini con un nome scelto fra le pagine del Corano. La tv di stato riprende Rahmon mentre visita i villaggi e insulta i fondamentalisti che affollano le moschee. Il governo sta richiamando tutti i giovani che, negli ultimi anni, hanno lasciato il paese per studiare nelle madrasse pachistane, egiziane, iraniane e saudite – centocinquanta sono tornati in patria proprio questa settimana da Teheran, ma quelli rientrati dall’inizio dell’anno sono almeno seicento. Secondo Radio Liberty, Rahmon dovrebbe ridurre la corruzione e sostenere l’economia per fermare l’avanzata degli islamisti. Nel frattempo, i ribelli rafforzano il loro controllo sulla valle del Rasht e l’esercito combatte senza illusioni, come un pilota alla cloche di un vecchio elicottero MI8.

   

Leggi la versione in lingua russa

Di più su questi argomenti: