Mistica della cultura
Non può certo essere il Foglio, che ha fatto campagna contro i tagli previsti dalla Finanziaria al comparto culturale, a sbertucciare il direttore Daniel Barenboim, che ha letto l'articolo 9 della Costituzione davanti al presidente della Repubblica e al pubblico convenuto per la prima della “Walkürie” di Wagner alla Scala. Ma appare almeno stravagante, quella messa in scena di un mini Sessantotto, con tanto di baruffe e lacrimogeni (fuori dal teatro), ibridato con un “Viva Verdi!” da “Piccolo mondo antico”.
di Nicoletta Tiliacos e Marina Valensise
Non può certo essere il Foglio, che ha fatto campagna contro i tagli previsti dalla Finanziaria al comparto culturale, a sbertucciare il direttore Daniel Barenboim, che ha letto l'articolo 9 della Costituzione davanti al presidente della Repubblica e al pubblico convenuto per la prima della “Walkürie” di Wagner alla Scala. Ma appare almeno stravagante, quella messa in scena di un mini Sessantotto, con tanto di baruffe e lacrimogeni (fuori dal teatro), ibridato con un “Viva Verdi!” da “Piccolo mondo antico”, l'assente Sandro Bondi nella parte del generale Radetzky e l'élite milanese riunita in abito lungo e cravatta nera, solidale coi manifestanti (dentro il teatro). In scena, con vari cumenda e i centri sociali uniti nella lotta, è andata anche l'eterna idea della cultura come cuore della militanza politica di sinistra. Accreditare una mistica della cultura, attribuendole la capacità di renderci umani, che è un complesso di biologia spirito e civilizzazione, significa riproporre l'eterna idea guida della militanza culturale, una versione comoda e fanatizzata della conquista gramsciana di egemonia nella società.
La mistica della cultura in Italia si è nutrita anche di quel “lavoro culturale” al quale Luciano Bianciardi dedicò uno dei suoi racconti più famosi, nel quale si descrivevano i tentativi di alfabetizzazione politica di un piccolo mondo provinciale alla fine degli anni Cinquanta, affidata a volenterosi intellettuali locali guidati da verbosi “compagni responsabili” spediti dalla città tra le masse. I cicli di film russi e cecoslovacchi (ma anche la serata a soggetto “sugli indiani d'America, un argomento che piace a tutti, di sicuro successo”), oppure la biblioteca aperta agli incontri a tema (“su iniziativa del presidente Mao Tzetung”, spiega al pubblico il compagno responsabile, “si celebra quest'anno in tutto il mondo, voglio dire in tutto il mondo degli uomini onesti e progressivi, il centocinquantenario della nascita di Victor Hugo, grande scrittore francese”) facevano da ponte ideale tra i popoli in lotta per il socialismo e quelli che l'avevano, beati loro, già realizzato. Da Leonardo da Vinci “libero pensatore” ad Avicenna, “scienziato moderno e progressivo”, passando per “Gorki, scrittore progressivo e amico dell'Italia”, nulla sfuggiva alla furia militante del lavoro culturale, raccontata con tenerezza e sarcasmo da Bianciardi.
Un po' quello che succede con i vari festival da ceto medio riflessivo sparsi per l'Italia, surrogati e sostitutivi di altre e più sanguigne militanze, oltre che epigoni istituzionalizzati delle effimere estati romane, figlie del Settantasette e del desiderio al potere. Ora, come allora, conta soprattutto l'esserci, l'estasi dell'evento in sé salvifico, perché denso di cultura molto partecipata. Da assessore capitolino alla cultura, alla fine degli anni Settanta, Renato Nicolini invitava i romani al festival psichedelico dei poeti a Castelporziano o proiettava lodevolmente le cinque ore e mezza di “Napoléon” di Abel Gance al Colosseo. Oggi Nicolini, inventore della rassegna del Cinema a Massenzio, grande madre dell'effimero culturale, dice al Foglio di non credere che “la cultura sia sempre qualcosa che rende migliori, anche se nella cultura tutto si lega e tutto è importante, non si può scegliere tra la Scala e la tutela dei beni archeologici. L'idealismo è sempre negativo, ma non posso accettare che il ministro Bondi passi dall'assistenzialismo all'assenteismo. Ha disertato Cannes, poi Venezia, ora la prima della Scala…”. Per il voto della Finanziaria, ha detto: “Ma sì, anche il ministro Giovanna Melandri alla prima della Scala non si vide, ma almeno era andata alla cena del Gambero Rosso. Sempre di cultura si tratta”.
Sarà. Ma i tempi, piaccia o no, impongono scelte oculate, controllo delle risorse, disciplina della rendicontazione. Una militanza possibile in nome della cultura è anche quella contro gli sprechi, le spese inutili, i privilegi corporativi che drenano energia, sviano risorse e alimentano l'assistenzialismo. Dei tredici teatri lirici italiani, per esempio, solo il Regio di Torino quest'anno ha registrato un attivo. Tutti gli altri, nonostante la cosmesi della fondazione che permette contratti di diritto privato e nonostante gli sforzi di razionalizzazione, continuano a obbedire a consuetudini discutibili. L'“Elegia” di Hans Werner Henze, nata come atto unico per orchestra, viene divisa in due atti per compiacere gli orchestrali del San Carlo di Napoli. Un certo coro, per ripetere sei volte il nome Oreste nel finale dell'“Elektra” di Strauss, ha preteso l'indennità da lingua straniera. Ma c'è anche un gruppo di strumentisti che ha reclamato “l'indennità da soprarigo”. E in certi teatri lirici pare sia impossibile convocare il coro per un'unica prova costumi, risparmiando tempo e danaro, perché il contratto non prevede alcun obbligo. Il coro del San Carlo d'antan ottenne una speciale indennità per le corde legate alle cinture nella regia di Georges Lavelli del “Vascello Fantasma”, e c'è ancora chi ricorda l'ingegnoso ricatto dei ballerini dell'Arena di Verona che rifiutavano di entrare in scena con le lance, perché avevano deciso che erano troppo pesanti, ma si rifiutavano pure di farne a meno, “perché allora diventa una pantomima”, finché il regista non la spuntò. Fatti che non turbano un esperto di musica “forte” come Quirino Principe: “Non gridiamo allo scandalo se gli orchestrali della Scala hanno l'indennità di frac o i coristi e le comparse l'indennità di lancia: la cosa può fare ridacchiare i cretini, ma rappresenta un'entità irrisoria rispetto agli elevati guadagni di alcuni privilegiati (non privi di talento ma non unici nell'avere grande talento) o dei divi della musica pop o rock, che attira masse diseducate all'ascolto della musica e corrotte da quella sventura cosmica che è la televisione…”.
I pochi soldi disponibili possono essere gestiti meglio. Ma è anche vero che in settori diversi dalla produzione di spettacoli lirici, come la tutela del patrimonio, risparmiare sembra una scommessa impossibile. “Il problema per noi non è il controllo degli sprechi, ma è che qui non c'è più nulla da tagliare”, dice l'archeologo Andrea Carandini, presidente del consiglio nazionale per i Beni culturali, che nei giorni scorsi ha scritto un appello allarmato al presidente della Repubblica: “La situazione è molto grave. Per tutto il patrimonio (archivi, biblioteche, musei, archeologia, beni storico-artistici e architettonici), disponiamo di soli centoventi milioni. Il che significa che i nostri monumenti non vengono più protetti”, insiste Carandini. Ora l'imprenditore Diego Della Valle si dice pronto a mettere sul tavolo venticinque milioni per il restauro del Colosseo, “ed è un fatto molto positivo, che potrebbe servire d'esempio a tutta la classe imprenditoriale italiana”.
Il critico Alfonso Berardinelli pensa che per troppi “la cultura sia diventata semplicemente quella ufficiale. Un intero secolo, il Novecento, è stato intestato alle avanguardie. Pessime o buone, ma comunque animate da mentalità critica nei confronti della cultura. Ora la cultura diventa un feticcio ufficiale, introduzione sistematica alle buone intenzioni dal podio direttoriale, e si salta il problema che ha assillato la più grande intellettualità del secolo passato, vale a dire il problema dei rapporti tra stato e cultura, sempre ambigui e problematici. Chi decide che cosa finanziare e che cosa no? La cultura è un concetto vuoto che si riempie di interessi corporativi. Perciò dire ‘viva la cultura' o anche ‘viva la religione' o la scienza, non ha senso. La cultura non è un valore in sé. Lo è solo nel caso che i suoi prodotti valgano. Chi lo decide? Lo stato, il ministro, gli artisti stessi che dovranno ricevere i soldi? Il libro ha un valore? Dipende dal libro. Non so che dire – aggiunge Berardinelli – perché da un lato di cultura ce ne è poca (abbiamo poche biblioteche pubbliche fornite ed efficienti). Dall'altro ce ne è troppa, si spendono soldi inutilmente. Vorrei che si riflettesse non sul rapporto tra economia e cultura ma su quale tipo di economia sia culturalmente migliore”. Berardinelli ricorda che “quando lo stato sociale in Germania era al suo apice, veniva finanziata un'enorme quantità di scultori, pittori, poeti: non era una gran meraviglia”. Vale lo stesso per l'arte di stato nei paesi del socialismo reale, “e infatti il problema vero è quello dei rapporti tra stato e cultura. Esistono intellettuali ipnotizzati dalle istituzioni culturali, convinti che quelle istituzioni siano la cultura. Altri pensano invece che esistono i singoli, che procedono, magari ignorati e senza aspettare finanziamenti. Questo naturalmente non vale per l'opera lirica. Ma fa uno strano effetto vedere alla Scala lo schieramento dei gran signori che recitano la parte dei rivoltosi all'opposizione”.
di Nicoletta Tiliacos e Marina Valensise


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
