Irresistibile Barenboim, la cavalcata di tuba e corni da vergognarsi

Redazione

Anche stavolta il Teatro alla Scala deve accendere ceri a San Daniele. E non cercatelo sul calendario, perché sto parlando del maestro scaligero (quale strazio per la lingua italiana, questa carica) Daniel Barenboim. Insomma, la stagione si è aperta con “La valchiria” di Richard Wagner, ma se non era per il folletto nato sul Rio de la Plata sarebbe finita a catafascio. Decisamente la Tetralogia non porta fortuna alla Scala.

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di Jacopo Pellegrini

    Anche stavolta il Teatro alla Scala deve accendere ceri a San Daniele. E non cercatelo sul calendario, perché sto parlando del maestro scaligero (quale strazio per la lingua italiana, questa carica) Daniel Barenboim. Insomma, la stagione si è aperta con “La valchiria” di Richard Wagner, ma se non era per il folletto nato sul Rio de la Plata sarebbe finita a catafascio. Decisamente la Tetralogia non porta fortuna alla Scala. Negli anni Novanta, Muti imperante, venne (invano) mutato il regista in corso d'opera e uno dei quattro titoli si dette addirittura in forma di concerto. Quanto agli esiti musicali, fatta eccezione proprio per alcune parti della Valchiria, furono poco allettanti. Oggi, invece, abbiamo ben due Dramaturgen (per intenderci, consulenti storico-musicologici del regista Guy Cassiers, anche scenografo insieme a Enrico Bagnoli), che sul poderoso e ponderoso programma di sala, nel quale spicca un'ammirevole traduzione del libretto a firma di Franco Serpa, discettano di Valchiria alla Foucalt, asserendo che questa prima Giornata dell'Anello del Nibelungo “può e deve essere letta come un'allegoria critica dei valori patriarcali della borghesia ottocentesca, che Wagner riteneva responsabile della stagnazione fatale della società europea”, e così via per pagine quattordici (sette cadauno).

    Tutte cose molto belle, fors'anche,
    anzi sicuramente vere (benché già esplorate, oltre trent'anni fa, da Ronconi e Chéreau, e da molti altri dopo di loro). Ma sulla scena non accade nulla o quasi per tre ore e cinquanta; e quando accade…
    Uno scheletro di lampadario sferico Ikea, pardon un emblema del nostro cieco mondo, gira gira gira vorticosamente per due atti, dapprima piccino, poi bello grosso, salvo fermarsi di colpo quando Wotan esclama “das Ende”, la fine. Eloquente allegoria, non c'è che dire! C'era chi aveva magnificato le luci e le proiezioni digitali, ma rispetto al pur discutibile e superficiale allestimento curato dalla Fura dels Baus (Firenze-Valencia) non siamo neppure all'abc.

    E va bene che nella casa “bidimensionale” di Hunding “non c'è letteralmente nessun interno, nessuna interiorità (emotiva)”, ma almeno una cadreghina la potevano mettere, invece di tenere la gente all'inpiedi per delle mezzore o di farla stendere sul piancito. E quella foresta di pali bianchi appuntiti, che sembra una pubblicità occulta di stuzzicadenti; e quei costumi (Tim Van Steenbergen) indecisi tra primitivo e Ottocento, fino a sfiorare il ridicolo nel giubbino-zainetto di pelo per Siegmund, nel retrogonna che trasforma la vergine guerriera Brünnhilde in un tacchino. Uno spettacolo peggio che brutto, inconsistente e barboso.
    La compagnia di canto svaria dal discreto al buono. La sola Meier è al lumicino (e spento per giunta); O'Neill, Siegmund, ha poca forza ma linea apprezzabile, Kowaljow, Wotan, è molto professionale (estremi acuti a parte), e la Stemme, Brünnhilde, sebbene non lasci intendere una parola, sa abbastanza il fatto suo. Di personalità vera, però, non ne ho trovata che nella Gubanova, una Fricka severa, anche aspra quando occorra, eppure nel profondo macerata.

    E difatti Barenboim non trascura, nelle pieghe del suo monologo, le inflessioni scopertamente liederistiche. Giacché egli di Valchiria persegue una visione intimistica trasparente sommessa (talora, per non coprire le voci, fin troppo), basata su quella che Wagner, attribuendole un valore centrale, chiamava “arte della transizione”: in un contesto fatto di tempi larghi e di fraseggio a vaste campiture (retaggi dell'amato Furtwängler), i piani sonori vengono esposti con una chiarezza stupefacente, il trapasso da un motivo conduttore all'altro si compie con una gradualità e delicatezza fantastiche: è come se sbocciassero da un silenzio primordiale, per poi reimmergersi in esso. Per questo, forse, l'unico momento veramente brutto s'incontra nella Cavalcata delle valchirie, sgangheratissima (tuba e corni si vergognino, gli altri arrossiscano). Dove, invece, l'orchestra segue docile e concentrata la bacchetta (tutto l'atto II e il III dall'uscita delle valchirie) la cura minuziosa dei particolari è tutt'uno con un'onda lirica d'irresistibile eloquenza.

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    di Jacopo Pellegrini