Federalismo all'italiana
Dove sta andando la Spagna
Due sono gli aspetti interessanti che emergono dal voto catalano. La prima è che in Spagna ogni singolo risultato a vantaggio di partiti autonomisti, compreso quello in Catalogna, ha degli effetti impercettibili, imprevedibili, ma certi, in termini di evoluzione di un federalismo giovane e confusionario. La seconda è che per confusione e istituzioni recenti, il sistema spagnolo ha non poche analogie con il processo che vede avanzare il nostro federalismo “all'italiana”.
Il successo dei nazionalisti moderati della Ciu in Catalogna nelle elezioni della scorsa settimana è certamente un brutto presagio per Zapatero, che ha davanti a sé le elezioni municipali nel 2011 e le legislative nel 2012, ma non significa che la Spagna rischi la secessione. “Interpretare i risultati di queste elezioni in senso separatista sarebbe un errore, perché la Ciu è un partito democristiano a forte caratterizzazione catalanista, ma non è indipendentista”, osserva Sergio Soave. La prova di ciò è che per ventitré anni, fino al 2003, la Ciu ha avuto la maggioranza nel parlamento catalano, e come partito più forte della regione più ricca della Spagna ha sempre preferito appoggiare i partiti nazionali al governo.
Due sono gli aspetti interessanti che emergono dal voto catalano. La prima è che in Spagna ogni singolo risultato a vantaggio di partiti autonomisti, compreso quello in Catalogna, ha degli effetti impercettibili, imprevedibili, ma certi in termini di evoluzione di un federalismo giovane e confusionario. La seconda è che proprio per la confusione e le istituzioni recenti il sistema spagnolo ha non poche analogie con il processo che vede avanzare il nostro federalismo “all'italiana”: sono entrambi stati che i costituzionalisti rabbrividiscono a definire federali, e che invece preferiscono classificare come “neo-policentrici”. In altre parole, si tratta di paesi con forti differenze regionali e culturali interne, a cui si è risposto con un lungo periodo di centralizzazione, e poi, dal Dopoguerra in Italia e dal dopo Franco in Spagna, con la previsione di un fortissimo decentramento formale di competenze legislative e amministrative.
In tutti e due i casi però la Costituzione ha concesso una forte autonomia formale, senza prevedere concrete procedure di coordinamento. Risultato: Senati deboli e poco rappresentativi delle autonomie e generale, estrema confusione, con un principio unitario sostanzialmente ignorato. Anche per questa ragione, è soprattutto grazie a successi elettorali di partiti autonomisti e all'informalità di intese e accordi extra-parlamentari che i due regionalismi sono avanzati. In particolare, dice al Foglio il costituzionalista Stefano Ceccanti, “la maggiore attribuzione di competenze alle autonomie dipende dalla situazione del governo nazionale: se ha la maggioranza assoluta in Parlamento, il governo le competenze non le cede, se la maggioranza non ce l'ha, di competenze ne cede anche troppe”.
Nonostante origini simili il percorso dei due federalismi è stato diverso: in Spagna le comunità autonome più forti sono riuscite, fin dal varo della costituzione del 1978, a imporre un regionalismo “à la carte”, cioè rapporti bilaterali con il centro, pretendendo ognuno propri determinati spazi di autonomia. La Catalogna non ha nessuna intenzione di andare in un equivalente della nostra conferenza stato-regioni, perché sa di ottenere di più contrattando da sola; i Paesi Baschi hanno più di una volta disertato all'ultimo le riunioni comuni. Non è che il sistema in assoluto funzioni bene, le conferenze sono decine a seconda della materia trattata, per non parlare degli incontri bilaterali. Le regioni, poi, tra di loro non si incontrano mai. Teniamoci strette le nostre relazioni centro-periferia, verrebbe da dire. Alla fine le regioni fanno spesso fronte compatto, si accordano prima di andare a trattare con il governo, hanno nel tempo difeso interessi territoriali e non partitici, sfruttando la forte legittimità del presidente regionale eletto direttamente (cosa che in Spagna tra l'altro non c'è).
Eppure gli spagnoli hanno capito una cosa: differenziare da subito le diciassette Comunità Autonome, cioè attribuire loro competenze decentrate diverse a seconda delle rivendicazioni politiche e delle differenti amministrazioni locali. Da noi, a parte la divisione in regioni speciali e ordinarie, le regioni sono sempre state considerate uniformemente, anche perché il timore di tutti i governi è stato quello che il decentramento “differenziato” mettesse a rischio l'unità, che incentivasse movimenti centrifughi. Ora è invece urgente, e non c'è certo bisogno di condividere una visione leghista per dire questo, permettere che le regioni che vogliono fare qualche passo federalista prima delle altre lo facciano.
La Lombardia e il Veneto si preparano da qualche anno, Formigoni l'ha ribadito la scorsa settimana: bisogna differenziare le regioni. “I trend delle regioni sono diversi”, continua Ceccanti, “per cui trattarle differentemente non è insensato. L'importante è che le competenze cedute vengano concepite come specialità a livello sperimentale, cioè che tramite meccanismi di valutazione le regioni possano dimostrare che le hanno usate bene. In caso contrario, le competenze devono poter tornare al centro”.
Differenziare non significa voler premiare i “bravi” e abbandonare “i meno bravi”. In Spagna l'iniziale trattamento differenziato delle comunità autonome, che ha fatto sì che per vari anni Catalogna e i Paesi Baschi fossero di gran lunga le regioni più federali del paese, ha portato anche tutte le altre, per quanto non spinte da forti ragioni etnico-culturali, a rivendicare e ottenere le stesse competenze. Nemmeno in Italia si tratterebbe di una differenziazione ad oltranza. E' piuttosto un processo che può iniziare decentrando competenze a favore di alcune regioni e che mira, ad un certo punto, ad uniformarle tutte e venti, ma a un livello superiore, di “federalizzazione” più efficiente. L'idea è che è comunque meglio che qualcuno, piuttosto che nessuno, inizi ad attivare e testare maniere efficienti per gestire amministrazioni e competenze di nuova acquisizione. In maniera che chi arriva dopo possa partire da esperienze già sperimentate e competere a rialzo in un circolo uniforme, virtuoso (e terribilmente utopistico) di “bravi tutti”.


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