Per un pelo la corte civile di NY non assolve lo stragista di al Qaida
Ahmed Khalfan Ghailani, il primo detenuto di Guantanamo processato da una corte civile degli Stati Uniti, è stato riconosciuto imputabile soltanto di uno dei 285 capi d'accusa mossi per gli attentati del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Non dovrà rispondere davanti al giudice né di omicidio né di strage, soltanto “complotto” finalizzato a danneggiare edifici governativi. La mattina di quel 7 agosto due esplosioni simultanee a Nairobi e Dar es Salaam hanno ucciso 297 persone, fra cui 12 americani, e ne hanno ferite circa quattromila.
Ahmed Khalfan Ghailani, il primo detenuto di Guantanamo processato da una corte civile degli Stati Uniti, è stato riconosciuto imputabile soltanto di uno dei 285 capi d'accusa mossi per gli attentati del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Non dovrà rispondere davanti al giudice né di omicidio né di strage, soltanto “complotto” finalizzato a danneggiare edifici governativi. La mattina di quel 7 agosto due esplosioni simultanee a Nairobi e Dar es Salaam hanno ucciso 297 persone, fra cui 12 americani, e ne hanno ferite circa quattromila. E' stata la prima volta in cui l'opinione pubblica ha sentito i nomi di Osama bin Laden e del dottor Ayman al Zawahiri. Dopo l'11 settembre 2001 Ghailani è finito nella lista dei terroristi e le forze speciali americane lo hanno stanato in Pakistan tre anni dopo; è stato trasferito in un “black site”, una prigione segreta della Cia, rinchiuso nel carcere di Guantanamo e infine condotto a Manhattan per essere processato da una corte civile, secondo il volere dell'Amministrazione Obama.
Mercoledì sera il giudice di New York Lewis Kaplan ha accolto la decisione della giuria popolare (formata da sei uomini e sei donne) e ha stabilito che Ghailani non possa essere imputato per le accuse più gravi, quelle che lo inchioderebbero a un ruolo da protagonista negli attentati, ma soltanto per un'accusa minore (benché la pena per questa preveda un minimo obbligatorio di vent'anni di prigione). Il dipartimento di Giustizia di Obama si è ritrovato in un cortocircuito: da una parte, è stato proprio il presidente, nella sua campagna per la chiusura di Guantanamo, a insistere perché il processo di Ghailani fosse celebrato in sede civile e, con una certa enfasi simbolica, proprio a Manhattan; dall'altra, il procedimento doveva essere la dimostrazione che i terroristi possono essere condannati anche senza ricorrere a corti militari e tribunali speciali, retaggio pestilenziale dell'era Bush. La sentenza del giudice Kaplan è un colpo di frusta sulle ambizioni normalizzatrici di Obama e gli stessi dettagli del procedimento rivelano le sue difficoltà nella gestione dei processi ai terroristi.
Il dipartimento di Giustizia puntava tutto su un supertestimone, Hussein Abebe, che era pronto a dire davanti al giudice che aveva venduto a Ghailani la dinamite per l'attentato, la prova schiacciante. Kaplan però ha escluso Abebe dalla lista dei testimoni, perché il governo ha scoperto della sua esistenza proprio da una confessione di Ghailani ottenuta durante la sua permanenza in una località segreta controllata dalla Cia. Il suo avvocato dice che lì è stato torturato e che in seguito gli agenti hanno estorto ad Abebe una confessione troppo poco credibile per essere ammessa fra le testimonianze: conseguenza prevedibile quando si mischiano il campo militare e le leggi speciali della guerra con il garantismo di un processo civile.
Il 25 gennaio Ghailani arriverà al giudizio monocratico dopo che la giuria popolare ha stabilito i capi d'accusa non senza un dettaglio inquietante: uno dei sei giurati donna ha ricevuto minacce dagli altri colleghi, perché nei dialoghi la sua opinione non rispecchiava la linea innocentista prevalente. Se il mondo liberal esulta per questo processo, che dovrebbe fare da modello ad altri simili per i detenuti di Guantanamo, il dipartimento di Giustizia ha dichiarato freddamente che l'Amministrazione “gradisce” il verdetto e il modo in cui è stato condotto il processo. Duro invece il fronte che sostiene la necessità che in tempi di guerra agiscano i tribunali di guerra. L'associazione Keep America Safe di Liz Cheney parla di “conseguenze pericolose” per la lotta al terrorismo e la sicurezza nazionale. C'è anche una terza scuola di pensiero, che bada solo al singolo risultato: “Gli daranno almeno vent'anni – dice al Foglio l'analista di Wired Spencer Ackerman – e forse si beccherà l'ergastolo, mi pare un risultato sufficiente anche dal punto di vista della sicurezza. Non so se potrà fare da modello ad altri processi, ma non capisco perché si interpreti il verdetto come una sconfitta per Obama”.
Questo è uno degli argomenti usati dal dipartimento di Giustizia, ma, come sottolinea Ackerman, non può fare da modello generale per il trattamento dei terroristi rinchiusi a Guantanamo. Che la sovrapposizione dei piani civile e militare sia un gioco pericoloso lo si capisce quando il giudice Kaplan dice che con il suo status di prigioniero di guerra Ghailani potrebbe comunque essere detenuto “fino al cessare delle ostilità fra Stati Uniti e al Qaida e i talebani”. Come succederà alla mente dell'11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed.


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