Scontro tra elite
La sintesi un po' brutale dello scontro politico per il midterm dice che la contingenza elettorale è soltanto un episodio dell'eterna lotta fra la cravatta e la camicia a quadrettoni. Da una parte i bolsi professionisti della politica educati ad Harvard e svezzati nei salotti, dall'altra l'esercito degli americani medi vestiti di flanella con fiaccole e forconi. Questi fieri oppositori dell'ancien régime non è la Bastiglia che vogliono prendere, ma il Congresso, e poi magari anche la Casa Bianca.
La sintesi un po' brutale dello scontro politico per il midterm dice che la contingenza elettorale è soltanto un episodio dell'eterna lotta fra la cravatta e la camicia a quadrettoni. Da una parte i bolsi professionisti della politica educati ad Harvard e svezzati nei salotti, dall'altra l'esercito degli americani medi vestiti di flanella con fiaccole e forconi. Questi fieri oppositori dell'ancien régime non è la Bastiglia che vogliono prendere, ma il Congresso, e poi magari anche la Casa Bianca per riformarli alla radice e creare una nuova disciplina di governo, ché lo stato è marcio, corrotto nel midollo e così assuefatto ai suoi modi che non si rende conto di aver eretto la perversione a regola. Secondo gli inflanellati, Washington sta alla gestione del potere come Sodoma sta al rapporto carnale.
Lo sforzo supremo dei repubblicani – e ancora di più, del Tea Party – consiste nel costruire un palcoscenico in cui vanno in scena soltanto due attori: gli oppressori e gli oppressi; meglio: i socialisti oppressori della libertà individuale – sorgente dell'esperimento che ha stravolto la modernità, l'America – e la gente normale falcidiata dalla crisi e minacciata dall'invadenza dello stato concepita dall'Amministrazione Obama. La differenza rispetto ad altre narrative analoghe è che gli oppressi non coincidono con gli ultimi; i sentimenti populisti che circolano per il paese non sono una teologia della liberazione che aspira al rovesciamento dello schema della società. Non è una rivolta dei pezzenti. La guerra politica in atto è uno scontro fra élite; si tratta di gruppi di aristoi in cerca di affermazione politica in uno spazio dove le famiglie storiche del potere americano hanno perso la loro influenza. La saga dei Bush si è chiusa con lanci di pomodori – anche se è già in atto il processo di riabilitazione – quella dei Clinton è viva ma molti dei suoi protetti hanno lasciato l'Amministrazione Obama a meno di due anni dall'insediamento. La morte di Ted Kennedy è stata la sanzione definitiva dell'irrilevanza della grande famiglia democratica.
Nella torta della politica americana si sono aperte fette di consenso potenziale, territori ancora non rivendicati da nessun potentato precedente; la crisi finanziaria, il dramma del debito pubblico e una guerra da cui il governo vuole sottrarsi a tutti i costi – anche pagando il prezzo altissimo del patto d'acciaio con i talebani – hanno aggravato soltanto una situazione già difficilmente controllabile. E allora è iniziata la corsa delle élite per accaparrarsi gli elettori rimasti senza ombrello politico. Sul Washington Post il grande notista Dana Milbank ha fatto l'affondo definitivo sugli “impostori populisti” del Tea Party. La tesi è esposta con chiarezza e sostenuta dalla magniloquenza dei numeri: gli uomini del Tea Party sono l'esatto contrario di una forza popolare, sono vecchi con un alto livello d'istruzione ben oliati da network affaristici che fruttano loro stipendi oltre la media, dice Milbank. La diretta conseguenza dell'osservazione è che la campagna elettorale dei repubblicani in generale e del Tea Party in particolare è dominata da un fiume in piena di soldi che scorre come latte e miele, in stile terra promessa, con la differenza che attorno a quei fiumi la terra è arida e non ci sono molte promesse.
Milbank è una specie di intoccabile di Washington, un venerabile maestro che s'è guadagnato una reputazione rocciosa in decenni di mestiere dentro e fuori dal Palazzo. Uno del Tea Party potrebbe obiettare che lui stesso – e il giornale per cui lavora – è il prototipo dell'elitarismo di Washington, ma l'invettiva di Milbank colpisce la contraddizione del movimento conservatore: è populista, non popolare. E il racconto parte dalla Chamber of Commerce, il grande network di aziende che per statuto è autorizzata a dare soldi per le campagne elettorali di partiti, gruppi di pressione, fondazioni di varia natura che fanno capo a questo o quel candidato (l'America è molto rigida sul tema dei finanziamenti ai partiti e, per avere più flessibilità, il sistema ha trovato strade alternative per foraggiare la politica senza essere costretto a rivelare i nomi dei donatori). Il 14 ottobre il sito della Chamber of Commerce ha avuto un collasso; all'inizio si pensava a un attacco cibernetico portato da hacker democratici, aizzati dalle invettive di Obama e del vicepresidente, Joe Biden, che insinuano – senza nemmeno troppi infingimenti – che dietro a qui fondi che arrivano ai repubblicani ci siano mani straniere.
In realtà il motivo del crash era il numero enorme di utenti che accedevano al sito per fare una donazione. Il picco è stato propiziato da Glenn Beck, anchorman di Fox News, tribuno radiofonico e cantore del Tea Party, che in uno dei suoi appelli ha detto: “Se avete un dollaro, andate alla Chamber of Commerce e fate una donazione oggi stesso”. Loro, ha detto Beck, “sono i nostri genitori. I nostri nonni. Sono noi stessi”. Endorsement che Milbank ridicolizza ricordando alcune delle aziende non proprio equosolidali che costituiscono l'anima della Chamber of Commerce: Pfizer, ConocoPhillips, Lockheed Martin, JPMorgan Chase, Dow Chemical, Ken Starr's e Rolls Royce; in più, stoccata finale, ricorda ai lettori lo stipendio dell'eroe populista Beck, 32 milioni di dollari l'anno. “Questi non sono contadini con i forconi, ma plutocrati con lunghi libri paga”, conclude. A sostenere i candidati del Tea Party c'è una enorme galassia associativa fra cui spicca FreedomWorks, la sezione messa in piedi da Dick Armey, coautore insieme a Newt Gingrich del “Contract with America” del 1994 che ha portato i repubblicani a travolgere la maggioranza democratica al Congresso.
Prima di scoprire che il Tea Party era un buon traino per tentare una seconda giovinezza politica, Armey faceva il lobbista; il suo secondo, Matt Kibbe, lavorava per la Chamber of Commerce. Il Tea Party Express è il nucleo oltranzista dell'élite teapartyana, l'organo che in un certo senso distribuisce le patenti di ortodossia libertaria a chi vuole entrare nel giro. Il fondatore è uno stratega repubblicano di lungo corso, si chiama Sal Russo e in una e-mail finita chissà come nelle mani del New York Times scrive con toni vagamente giacobini che vuole “dare una scossa al nostro comitato di azione politica per posizionarci come una forza di maggioranza”. Karl Rove, scudo e spada di George W. Bush alla Casa Bianca, ha messo in piedi l'associazione American Crossroads, che raccoglie da anonimi donatori – per lo più miliardari – soldi per la campagna grassroots dei candidati a ritmo di decine di milioni. Persino le banche salvate dallo stato e boicottate senza mezzi termini dalla destra hanno versato più soldi nella casse repubblicane che in quelle democratiche.
Una panoramica della destra libertaria restituisce uno spettacolo molto diverso dall'immagine dei taglialegna in libera uscita che vanno a riprendersi quello che le forze borghesi hanno tolto loro; sotto le camicie fuori moda e i manifesti amatoriali – alcuni sono talmente brutti che è lecito sospettare siano fatti apposta per dare quell'aria home-made – si nascondono tycoon navigati: in Connecticut Linda McMahon gestisce l'impero miliardario del wrestling, Ron Johnson, candidato al Senato nel Wisconsin, ha un'azienda altrettanto miliardaria; Rick Snyder in Michigan può permettersi una campagna elettorale sfarzosa gravando di poco sui risparmi ottennuti dalla sua vecchia corporation, la Gateway Computers. Carl Paladino, impavido oppositore teapartyano al governo blu di New York ha in banca 150 milioni di dollari derivati dalla sua attività di immobiliarista. In California sia il candidato repubblicano al Senato sia quello per il posto di governatore sono ex ceo di corporation da Fortune 500, Hewlett Packard e eBay; in Florida Rick Scott, sultano dell'industria sanitaria, ha in tasca qualcosa come 220 milioni di dollari.
L'elenco dei facoltosi del Tea Party è lungo, ma non è esclusivamente su criteri economici che il movimento libertario basa la sua distinzione con l'élite democratica. La contestazione ribollente della piazza prende di mira la pretesa superiorità morale dei rampolli dell'Ivy League, mostrina che accomuna i democratici cresciuti ad Harvard e i repubblicani educati a Yale. Il primo spot elettorale di Christine O'Donnell, l'ormai famosa strega del Delaware, si apre con una dichiarazione programmatica che piace molto alle frange populiste: “Non ho studiato a Yale”; cioè non provengo da quel mondo salottiero, non ho perso tempo e dignità con gli Skull & Bones, non ho intrallazzi paramassonici, amicizie trasversali, non venderò voti come fanno tutti, non avrò altro Dio all'infuori del popolo americano. Quella frase è lo svolgimento della massima implicita del Tea Party: noi siamo come voi. Il fatto che diversi candidati del Tea Party provengano proprio dal mondo incravattato dell'Ivy League – Joe Miller dell'Alaska ha studiato a Yale, il ruvido oftalmologo Rand Paul ha una laurea alla Duke Medical School, cosa non da tutti – non contraddice la narrativa di O'Donnell, basata sulla costruzione di un'immagine alternativa. Una nuova élite edificata sulle macerie di quella antica; secondo tutt'altri criteri, in un formato inedito, ma pur sempre un'élite potente e facoltosa. Nel parlare del Tea Party si usa spesso l'aggettivo “disorganizzato”, come se le energie della piazza libertaria fossero affidate a uno spontaneismo à la Bakunin, che rifiuta le sovrastrutture e vola libero nel cielo dell'autodeterminazione.
Viaggiando ad altezza umana si percepisce un brulichìo forsennato, contraddittorio, un fare troppo concitato, come una squadra di calcio alla ricerca del pareggio che negli ultimi minuti si butta nell'area avversaria con tutti i giocatori ma senza la lucidità per costruire azioni pericolose; con una telecamera panoramica, che riprende la geografia del formicaio teapartyano dall'alto, si ha la percezione di un'organizzazione strutturata, con un sistema di parcellizzazione del lavoro e diversi gradi e stili interpretativi a seconda del contesto in cui opera (il Tea Party è forza ideologicamente locale che esordisce in una competizione di midterm, cioè locale). Ci sono i grandi investitori che vogliono rimanere nell'ombra (i fratelli Koch), le associazioni grassroots che fanno da collettori del denaro e distribuiscono alle campagne locali secondo i bisogni (Tea Party Express, American Crossroads, FreedomWorks e molte altre), il braccio istituzionale al Congresso, il Tea Party Caucus fondato da Michele Bachmann a luglio al quale hanno aderito 52 parlamentari. Quando è nata l'idea del gruppo parlamentare del Tea Party, il deputato dello Utah Jason Chaffetz si è rifiutato di aderire: “La struttura e le formalità sono l'esatto opposto del Tea Party, e se c'è un tentativo di imbrigliare tutto questo in una struttura, o un tentativo di cooptazione da parte di Washington, è destinato a violare la natura libera del movimento”. Dopo un'estate e un autunno di campagna infuocata, le obiezioni massimaliste di Chaffetz sono il ricordo sbiadito di un'epoca che non c'è più.
Il Tea Party vanta anche le figure tipiche dei vecchi cavalcatori di entusiasmi altrui, per canalizzare l'energia in uno sforzo politico. Newt Gingrich e Mitt Romney non sono Tea Party addicted, si limitano a simpatizzare stando sulla soglia e in queste settimane si sono imbarcati in un tour elettorale per stringere alleanze con i gruppi locali del Tea Party e preparano così la corsa alle presidenziali del 2012. C'è l'ape regina, Sarah Palin, che il New York Magazine rilancia in copertina – tra il serio e il faceto – come prossimo presidente; c'è l'araldo-profeta Glenn Beck; ci sono le attiviste delle pari opportunità, le “mama grizzlies”, le nonne rampanti, gli imprenditori riciclati, gli urlatori di professione. Non mancano faide e lotte di quartiere, ma in fondo la polifonia teapartyana produce un'armonia nascosta che è più potente di quella manifesta, per dirla con Eraclito. Un'organizzazione disorganizzata. Un'élite la cui prima regola è odiare la vecchia élite imbolsita e votata al fallimento, quella del presidente Barack Obama.
Le ultime, durissime settimane di campagna elettorale Obama le ha passate a sostenere, ma senza esagerazioni, i candidati democratici nei posti che contano (e anche in quelli che contano meno tipo la corsa per il sindaco di Providence, Rhode Island, dove Obama è andato ad aiutare – a proposito di élite – Patrick Kennedy, figlio di Ted). Lo ha fatto adottando una strategia negativa, senza troppi grilli sull'unità nazionale e appelli trasversali, la sua specialità in campagna elettorale. E' un Obama trasfigurato quello che dice che i repubblicani rimarranno sul “sedile posteriore”, che “sono disonesti con il popolo americano”, che “fanno una campagna fuorviante e negativa”, che “non hanno fiducia nel popolo americano”, che “hanno offerto ricette che hanno quasi distrutto la nostra economia”. Il presidente si è rifiutato in modo sistematico di scendere sul terreno del “ecco cosa abbiamo fatto” e si è trovato molto a suo agio su quello del “ecco cosa loro ci hanno impedito di fare”.
E' andato esclusivamente per formule inverse, elidendo ogni argomento potenzialmente legato alla realtà di due anni di governo democratico: non ha parlato della riforma sanitaria (che pure doveva essere il segno vivente del cambiamento: “This is what change looks like”, aveva detto il presidente nella notte “storica” della firma); non ha parlato nemmeno del ritiro delle truppe dall'Iraq, altro portone democratico chiuso sulle nefandezze del passato. Forse non ne ha parlato perché la riforma sanitaria ha già portato la spesa pubblica fuori controllo senza essere entrata ancora a pieno regime e nei prossimi anni promette lacrime e sangue per le tasche di contribuenti refrattari molto oltre le linee dure dello small government; e forse si è astenuto dalla politica estera perché in Iraq i soldati americani hanno semplicemente cambiato qualche etichetta e di fatto sono rimasti a presidiare l'instabilità diffusa. Senza contare che in tempi di ripiegamento verso l'interno e neoisolazionismo, il ruolo della politica globale in campagna elettorale tende all'irrilevanza.
L'élite obamiana ha scelto una strategia molto snob, da dispotismo illuminato, con punte di paternalismo. Il presidente se ne va in giro a dare – per quel che può – scudisciate agli avversari e omette di ricordare quel bene che il popolo non può in fondo capire; il change di Obama non è una rassegna di fuochi artificiali che tutti ammirano con la bocca aperta e il naso all'in su, ma un impasto di riforme impopolari e controintuitive, un misto di sanità per tutti e droni sul Pakistan, di appeasement cinese e tasse che andranno inevitabilmente alzate. Nella sua Versailles Obama è certo di coltivare il bene del popolo, anche se il popolo non capisce e gli lancia libri ai comizi, anche se i democratici del Rhode Island gli dicono che l'endorsement “se lo può ingoiare” (modo anglofono per indicare altri orifizi in cui metaforicamente inserire le cose sgradite).
Michael Gerson, ex speechwriter di Bush e columnist del Washington Post, parla di “Obama lo snob”, quello che in Massachusetts ha detto a un gruppo di donatori che “i fatti, la scienza e le prove non sembrano riuscire a prendere il sopravvento, perché noi tendiamo a non pensare più con lucidità quando abbiamo paura. E oggi il paese ha paura”. Gerson commenta: “Chiaramente Obama crede che il suo brand politico rappresenti ‘i fatti, la scienza e le prove'. I suoi avversari, in un contrasto fastidioso, usano la parte più primitiva e spaventosa del cervello. Obama si concepisce come il difensore non soltanto del pacchetto di stimolo e della riforma sanitaria ma anche dei processi cognitivi. I suoi critici, invece, si affidano alla ‘lizard brain', l'organo che guida i rituali dei rettili e l'aggressività”. Obama sta sublimando lo schema della superiorità antropologica della sinistra liberal e, dai semplici salotti, la sinistra obamiana è passata a fantozziane sedute in pelle umana; nei comizi rende il suo linguaggio traducibile ai più con attacchi in vecchio stile ai repubblicani, come se l'incedere scientifico dei suoi argomenti più profondi fosse troppo complicato per la gente normale; e quasi come se Obama non sapesse che sotto quelle camicie di flanella che reggono cartelli ingiuriosi non ci sono cartesiani manichini, ma cuori e menti di una élite uguale e contraria a quella a cui lui appartiene.


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