Perché i banchieri devono esaudire attese e richieste delle fondazioni
La legge Amato-Carli del 1990 e il Testo unico bancario del 1993 hanno riformato in misura ampia e significativa l'attività bancaria in Italia, con il passaggio da un sistema sostanzialmente basato su istituti di credito pubblici a uno basato su imprese bancarie private. Tali provvedimenti normativi hanno dato un grande contributo allo sviluppo e al consolidamento del sistema creditizio, favorendo i processi di aggregazione.
di Giovanni Berneschi
Dopo l'analisi sulle fondazioni bancarie di Angelo De Mattia sul Foglio del 12 ottobre, e l'intervento degli economisti Tito Boeri e Luigi Guiso del 14 ottobre sempre su questo giornale, pubblichiamo un commento di Giovanni Berneschi, presidente di Banca Carige. I prossimi contributi saranno di Franco Bassanini e dei vertici dell'Acri.
La legge Amato-Carli del 1990 e il Testo unico bancario del 1993 hanno riformato in misura ampia e significativa l'attività bancaria in Italia, con il passaggio da un sistema sostanzialmente basato su istituti di credito pubblici a uno basato su imprese bancarie private. Tali provvedimenti normativi hanno dato un grande contributo allo sviluppo e al consolidamento del sistema creditizio, favorendo i processi di aggregazione. In particolare, la legge 218 del 1990 ebbe il pregio di suddividere il ruolo “pubblico” delle fondazioni bancarie da quello “privato” svolto dalle banche, consentendo alle une e alle altre di concentrarsi sulla propria missione, che per le fondazioni consiste nel perseguimento di finalità sociali e nella promozione dello sviluppo economico delle comunità locali e del territorio di riferimento.
Si pensi che i proventi dei loro investimenti, di cui una buona parte costituiti dai dividendi percepiti dalle banche conferitarie o dai grandi gruppi nazionali, le fondazioni in media li hanno destinati negli ultimi anni allo sviluppo locale, alla ricerca e alla formazione oltre 500 milioni di euro all'anno, alimentando anche per questa via lo sviluppo del paese e la crescita economica. Le fondazioni bancarie, svolgendo quindi il proprio ruolo grazie soprattutto alle partecipazioni che detengono nelle banche, si aspettano di essere remunerate adeguatamente e valutano tale investimento in questa ottica, al pari di qualsiasi socio di una società per azioni, la cui presenza nel capitale non è incondizionata.
Tuttavia, specie negli ultimi anni, in molti casi le banche non sembrano aver sufficientemente focalizzato l'obiettivo di fornire ai soci un'adeguata remunerazione delle proprie quote. Probabilmente tale insufficiente focalizzazione è dipesa dalla necessità contingente di risolvere i problemi emersi nella gestione e nella economicità delle banche nella misura più rapida ed efficiente possibile per la sopravvivenza delle stesse, sacrificando fatalmente gli interessi di coloro che, in qualità di soci, vi avevano investito le proprie disponibilità: da qui nasce il pericolo di un allontanamento del socio, e, quindi, delle fondazioni bancarie, per motivi principalmente di “giusta” insoddisfazione, più che per motivazioni “politiche”.
Le esigenze di remunerazione dei soci sono vieppiù stringenti alla luce della nuova normativa di Basilea III, che imporrà alle banche una maggiore patrimonializzazione, con la necessità, nel prossimo futuro, di effettuare diffuse ricapitalizzazioni nell'ambito del sistema. Queste saranno più facilmente realizzabili se, nel frattempo, le banche saranno riuscite a mantenere un livello di dividendi adeguato alle aspettative dei soci, mettendoli in grado di effettuare maggiori investimenti. In conclusione, pur condividendo quanto sostenuto da Angelo De Mattia sul Foglio dello scorso 12 ottobre, gli amministratori delle banche, pur nella loro autonomia decisionale che deve essere volta in primis alla salvaguardia dell'azienda nell'ambito dei principi di sana e prudente gestione, non possono ignorare le istanze dei soci (tra cui anche le fondazioni bancarie) ai quali rispondono per il loro operato gestionale. E' quindi preciso dovere – ma anche interesse degli amministratori delle banche – cercare di minimizzare il sacrificio dei soci, approntando tutte le misure necessarie allo scopo, anche qualora esse impongano un'attenta verifica dei costi.
di Giovanni Berneschi


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