“Fate la storia senza di me”

Marianna Rizzini

La storia di Alberto “Albertino” Bonvicini Berlanda arriva a Venezia stasera sotto forma di documentario (scritto e diretto da Mirko Capozzoli e prodotto da Four Lab), e forse può essere raccontata a partire dalla foto che a un certo punto del film compare sullo schermo: c'è Alberto con uno strano copricapo celtico, i capelli sottili che spuntano sulla fronte, la bocca nascosta dal braccio e un sorriso indecifrabile sul volto da folletto (saggio? scanzonato? malinconico? angelico? beffardo? felicemente certo della fugacità del momento?).

    La storia di Alberto “Albertino” Bonvicini Berlanda arriva a Venezia stasera sotto forma di documentario (scritto e diretto da Mirko Capozzoli e prodotto da Four Lab), e forse può essere raccontata a partire dalla foto che a un certo punto del film compare sullo schermo: c'è Alberto con uno strano copricapo celtico, i capelli sottili che spuntano sulla fronte, la bocca nascosta dal braccio e un sorriso indecifrabile sul volto da folletto (saggio? scanzonato? malinconico? angelico? beffardo? felicemente certo della fugacità del momento?). Chissà quando è stata scattata quella foto, ma la faccia di Alberto sembra già guardare dall'esterno Alberto stesso: un ragazzo nato a Torino che muore a trentatré anni ma vive in prima persona l'ospedale psichiatrico da sano di mente, il divampare del dibattito sui manicomi, l'euforia e la tragedia del Settantasette, i cortei, gli scontri, la deriva verso la lotta armata, la presa di distanza dalla lotta armata, il carcere, i processi, la condanna, la dichiarazione d'innocenza, il ritorno a casa, la droga e l'Aids.

    E' colpa di una biglia se Alberto Bonvincini, vivacissimo bambino di nove anni cresciuto in orfanotrofio a Torino perché una mamma troppo povera non può prendersene cura, a un certo punto del 1967 si ritrova in ospedale psichiatrico e poi in manicomio minorile senza essere né pazzo né malato: stai giocando alle biglie con gli amici, quelli non ti ascoltano, si litiga, ti impunti e tu per non dargliela vinta prendi una di quelle palline colorate e la butti giù. Ingoiata così, per ingiustizia, per denuncia, come in uno strano sciopero non violento – se non con se stessi. E però poi la violenza arriva davvero, sotto forma di punizioni esemplari che si chiamano “cure” soltanto per mascherare la realtà: pomeriggi interi legato a un termosifone bollente, fughe in pigiama sventate dal vigile urbano che spezzano la speranza di “tornare a casa” anche se “un giudice ha stabilito che non hai più famiglia”, piccoli Kapò che fanno la spia e psichiatri che costringono i pazienti intemperanti a prendersi a pugni fino al crollo fisico. Deve passare del tempo prima che lo psichiatra Giorgio Coda, detto “l'elettricista” per abuso di elettroshock, venga messo sotto processo per i suoi metodi. Deve passare del tempo prima che il caso “Albertino” apra la strada alla discussione pubblica sui manicomi. Intanto Albertino si fa nove mesi di manicomio da sano, esce per volere di un tribunale e viene affidato a una famiglia dell'alta borghesia torinese di area Pci, i Berlanda, che lo accolgono preadolescente.

    Alberto ha lasciato un diario, scritto nei due anni e mezzo trascorsi in cella, oltre a poesie e canzoni divertite e un po' lunari – ce n'è una che fa: “Odio il giusto, odio il perfetto, odio chi fa sempre l'amore a letto”, e una sui tranvieri all'alba (“Porta Pila / ore cinque del mattino / prime auto per Torino / Porta Pila / ore sei del mattino / Ape cinquanta / furgoncino). Quel trambusto delle prime ore della giornata colpirà Alberto anche qualche anno dopo, quando, dopo mesi di carcere, viene scortato in tribunale e si ritrova a guardare dalla camionetta ogni faccia, ogni macchina, ogni passante, ogni semaforo, simboli animati della libertà perduta. Il regista Capozzoli, dopo un lungo lavoro di archivio e ricerca tra le persone che hanno conosciuto Alberto – nella famiglia, tra gli ex ragazzi del Settantasette, tra giornalisti e politici – rilegge con le immagini quel diario crudo e a suo modo allegro pur nella tragicità del contesto. Ed è il diario ad accompagnare lo spettatore lungo la vita di Alberto (impersonato nel documentario, come voce fuori campo, da Fabrizio Gifuni). L'interesse per la storia di Albertino è nata quasi per caso, dice Capozzoli: “Ho conosciuto anni fa una persona che non c'entrava nulla e che però conosceva la mia passione per i documentari. Mi ha suggerito la lettura del libro di Alberto Papuzzi sul caso di Giorgio Coda, e lì mi sono imbattuto in A. B., cioè in Albertino Bonvicini. Mi sono poi accorto che la sua storia metteva insieme temi che avevo sempre voluto approfondire: il manicomio, la lotta armata, il Settantasette”. Man mano che si addentrava nella vicenda, Capozzoli ha sentito “l'effetto calamita del personaggio Albertino, il suo fascino e la sua contradditorietà. E allora ho dovuto sforzarmi di tenerlo a distanza, per non fare un documentario santino. Penso che neanche a lui sarebbe piaciuto, il santino”.
    “Questo dovrebbe essere un libro di ‘denuncia misto autobiografia'”, scrive Alberto dal carcere parlando del suo diario, prendendosi in giro da solo e ammettendo un incontenibile e inatteso moto di affetto per il fratello adottivo Alvar, non molto frequentato prima dell'arresto (Alberto militava nei gruppi proletari “Barabba”, Alvar in Lotta Continua, ricorda oggi Alvar suggerendo l'idea di un Alberto che “solo nel Settantasette smette di sentirsi solo e non in una comunità ostile”). E in effetti sembra che Alberto abbia trovato casa nel Settantasette, nei “Barabba” che oggi lo ricordano come il compagno “giocoliere, quello di cui si sentiva la mancanza quando non c'era, quello che aveva la linea, sì, ma in modo alternativo”. Alberto aveva fama di “bel tenebroso” ma nelle foto ride con gli occhi come nessun bel tenebroso farebbe. Da tombeur autoironico dispensava consigli agli amici: “Quando le compagne fanno le preziose, devi farle parlare della loro nonna, di sicuro una nonna partigiana. Parlano della nonna – figura importante – si commuovono e cedono”.

    Nel diario Alberto confessa anche l'improvvisa
    tenerezza provata in carcere per un padre adottivo “sempre sul piedistallo” che si mostra d'un tratto fiaccato, “invecchiato”. E sempre nel diario Alberto scandaglia la paura di diventare, in quegli anni di galera, abulico, rassegnato e paranoico (“oggi non mi sono mosso neanche per l'ora d'aria”, dice in una lettera, ed è “un andazzo che deve finire”). Per questo in carcere si agita, fa battute, si rigira nel letto, pensa e ripensa, scrive e riscrive brani dell'autobiografia come un ossessivo personaggio della “Peste” di Albert Camus e inventa canzoni per non far addormentare i compagni di cella, come racconta nel documentario un ex compagno di cella.
    Bianca Berlanda è già sposata con un ex partigiano come lei (e ha già dei figli) quando decide, contro il volere del marito, di prendere in casa Albertino, il bambino finito sui giornali per i maltrattamenti subiti in un manicomio in cui non doveva finire. Alice, figlia di Bianca, intervistata nel documentario, dice: “Me lo immaginavo diverso”. Si immaginava un ragazzino strapazzato e timido, e invece le arriva in famiglia un tipo “stranamente compito”, con delle buffe “galanterie” e una gran voglia “di fare una vita nuova”, anche scappando da casa e da scuola e rubando macchine e sentendosi in credito col mondo. I Berlanda aspettano che torni, lo riaccolgono dopo un passaggio al carcere minorile, osservano da lontano la sua attività politica, fanno di tutto per tirarlo fuori dal carcere quando, all'inizio degli anni Ottanta, viene accusato di reati gravi da due pentiti – ex militanti di Prima Linea – e finisce dentro.

    “Non sono responsabile del rogo del bar L'Angelo Azzurro”, scrive Alberto nel diario, rievocando l'episodio che segnò la fine tragica del Settantasette torinese e l'inizio dell'esperienza di lotta armata per molti suoi ex protagonisti – e nel film si sente l'ex sindaco di Torino Diego Novelli ricordare le molotov di quel giorno in piazza, il fuoco che divampa nel bar che si pensava frequentato da esponenti dell'estrema destra e la morte dello studente lavoratore Roberto Crescenzio, che pensava di salvarsi nascondendosi nella toilette e invece si trasforma in torcia umana, adagiato poi su una sedia in mezzo alla strada (tanto che a molti, da lontano, sembrava una vecchina col velo nero, e invece, come racconta un ex compagno di Albertino, era già un ragazzo in agonia).
    “Non sono responsabile del ferimento dello psichiatra Coda, che pure ho conosciuto”, dice Albertino nel diario, mentre gli amici intervistati nel documentario ripercorrono l'accaduto (Coda legato a un termosifone e colpito alle braccia e alle gambe): Coda, dicono, fu colpito quando ormai si conosceva la sua storia, ma al di là di Albertino, e cioè per via di alcuni libri che documentavano i suoi abusi, tra cui quello del giornalista Alberto Papuzzi. (Albertino lo legge in carcere e si inorgoglisce molto per la dedica a “un protagonista involontario e coraggioso”). L'allora capo dei “Barabba”, Frankie, fornisce al regista del film la chiave per capire la presa di distanza improvvisa di Alberto dall'attività degli ex compagni: alcuni a fine Settantasette assumono posizioni “più radicali, sul terreno della lotta armata”, racconta Frankie, e Alberto all'inizio sembra starci, ma poco dopo scrive una lettera da “dissociato ante litteram”: “Fate la storia senza di me”, è la frase finale. Poi se ne va a Londra, forse incontra o reincontra la droga. Alberto la rievoca dal carcere, quella lettera: “Mi staccai perché non mi andava più di fare politica”, perché preferivo “vedere la ragazza”, perché volevo “anteporre una vita individuale all'impegno politico”, perché il programma, a quel punto, “era fare un po' di viaggi” (che alla fine Alberto non ha fatto, visto il sopraggiungere dell'arresto, della condanna, della galera). Poi Alberto esce dal carcere, ricomincia a vivere, si trasferisce a Roma, trova lavoro grazie all'amico di famiglia Enrico Deaglio, prende a lavorare in televisione al “Testimone” di Giuliano Ferrara, affitta un appartamento, apre un conto in banca, si sente contento di sé e alla sorella adottiva telefona dicendo: “Hai visto il programma? Hai visto che cosa ho fatto?”. E' un tempo breve: presto la malattia si rivela. Deaglio ricorda che un giorno Alberto, sempre combattivo, gli sussurra all'orecchio le parole: “Ho paura”. Paura di trasformarsi nel “trattino” di cui parla nel diario: “Tutto si riduce al trattino che sulle tombe separa la data di nascita dalla data di morte”.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.