Quella sporca ultima diga

Redazione

E' stata l'operazione più complicata, pericolosa e spettacolare della guerra in Afghanistan, e forse anche quella di maggior successo: 250 talebani eliminati dalle truppe britanniche contro un soldato inglese rimasto ferito in un incidente lungo la strada. Ma l'obiettivo della “Eagle Summit” – Oqab Tsuka in pashtun – non era quello di eliminare gli insorti, che semmai in questo caso sono stati un “danno collaterale”.

di Anita Taksa

    E' stata l'operazione più complicata, pericolosa e spettacolare della guerra in Afghanistan, e forse anche quella di maggior successo: 250 talebani eliminati dalle truppe britanniche contro un soldato inglese rimasto ferito in un incidente lungo la strada. Ma l'obiettivo della “Eagle Summit” – Oqab Tsuka in pashtun – non era quello di eliminare gli insorti, che semmai in questo caso sono stati un “danno collaterale”. Il comando della coalizione occidentale ha inviato cinquemila uomini, in maggioranza soldati di Sua Maestà, ad attraversare l'inferno talebano di Kandahar e dell'Helmand con lo scopo – ben presente nelle menti degli strateghi Nato già prima dell'avvento di Obama – di “conquistare le menti e i cuori“ degli afghani portando nel cuore della zona più pericolosa di tutto il paese una colossale turbina da 200 tonnellate. Collocata nella centrale elettrica di Kajaki, avrebbe portato la luce – e quindi lavoro, industrie e modernità – a un milione e mezzo di afghani.

    Un piano che sembrava prendere ispirazione
    dall'idea di Lenin che il comunismo non fosse possibile senza l'elettrificazione di tutta la Russia. Kajaki era stata uno snodo fondamentale nelle sorti dell'Afghanistan. La costruzione della centrale sul fiume Helmand cominciò negli anni Cinquanta grazie agli americani, tassello nel grande gioco tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la conquista del resto del mondo, e nel 1975 le due turbine da 16,5 megawatt cominciarono a produrre energia e contribuire all'irrigazione di 1800 chilometri quadrati di terra arida. Quattro anni dopo gli americani vennero cacciati dall'invasione sovietica, lasciando vuoti i siti già costruiti per le nuove turbine e senza completare la diga. Che divenne strumento di ritorsione nelle mani dei talebani, che risolsero un contenzioso con l'Iran chiudendo l'acqua e riducendo i territori persiani a valle a una siccità devastante. Nel 2001 la diga fu nella lista dei bersagli dell'aviazione americana arrivata a riprendersi l'Afghanistan dopo l'11 settembre. Da allora Kajaki è stata al centro di violente battaglie con i talebani, che non hanno mai nascosto la loro intenzione di distruggere questa fortezza del progresso: nel 2007 700 insorti afghani, uzbeki, pachistani e ceceni si scontrarono con la Nato per cercare di conquistare la diga durante la cosiddetta “Operazione Kryptonite”.

    Blocco di roccia controllato dall'Isaf in mezzo al mare talebano, Kajaki era diventata il perno intorno al quale doveva girare un nuovo Afghanistan: l'agenzia governativa degli aiuti americani, Usaid, aveva riavviato le due turbine impiantate quasi mezzo secolo prima dai loro predecessori alla conquista dei “cuori e delle menti” degli afghani, e ora voleva installarne una terza, molto più potente. Mai un'operazione a fine sostanzialmente umanitario ha visto un impiego più massiccio di mezzi militari. Cinquemila uomini delle truppe Nato assistiti da 400 soldati afghani si sono precipitati nella battaglia per la lampadina elettrica con elicotteri, blindati e razzi. I numeri della Eagle Summit avrebbero fatto invidia alla gigantomania dei faraoni con le loro piramidi: il convoglio, composto da 200 mezzi di trasporto scortati da 100 mezzi militari, ha attraversato il deserto in una processione lunga 6 chilometri, alzando una nube di polvere che si dipanava per quasi 40 chilometri. A passo d'uomo, poco meno di due chilometri l'ora, il serpentone di camion e blindati ha attraversato 180 chilometri di territorio talebano, aspettandosi un attacco in ogni momento. Nei pressi di Kajaki non c'è un aeroporto e la turbina, prodotta da una società cinese, era arrivata alla base americana di Kandahar. Da lì alla diga di Kajaki restavano ancora 200 chilometri, da fare lungo la statale 611, controllata dai talebani e disseminata di Ied, gli ordigni esplosivi piazzati sulla strada (senza contare i numerosi residui di mine antiuomo e anticarro smarrite nei dintorni ancora all'epoca dell'invasione sovietica).

    A dire il vero, gli inglesi avevano provato prima di mettere in piedi tutto il baraccone di comprarsi un salvacondotto, offrendo circa 12 mila sterline agli anziani dei villaggi locali. Un metodo pratico, semplice e poco costoso, che sembrava anche avere funzionato: le vedette facevano rapporto di una ritirata degli insorti dalla strada, ed erano spariti pure gli ordigni esplosivi. Ma una brutta mattina tornarono, mentre sparirono gli anziani del villaggio. Il capitano Steve Boardman, che aveva condotto i negoziati, ha poi raccontato di non aver trovato nessuno il giorno che si è presentato con le carte per concludere “l'affare”: “Penso che i talebani locali avessero accettato la nostra offerta, ma i loro superiori in Pakistan l'hanno bloccata”.

    Non restava che l'opzione militare.
    Gli esploratori dei parà inglesi, dopo quattro mesi di sortite, avevano scoperto un passo tra le montagne che permetteva al convoglio di deviare verso il deserto, lungo una strada di fortuna che gli ingegneri della Nato avevano cercato di rendere a malapena praticabile per i mezzi pesanti. Una “scorciatoia” ribattezzata in codice “Route Harriet” di cui i talebani non dovevano assolutamente venire a sapere, visto che avevano già fatto sapere di non volere la turbina nel loro feudo: “Non ci serve l'elettricità, abbiamo l'islam”, dichiarò uno dei loro portavoce. E così la notte del 27 agosto 2008, mentre la turbina – sezionata in sette parti da circa 30 tonnellate ciascuna – abbandonava l'aeroporto di Kandahar con la sua imponente e lentissima scorta, gli elicotteri britannici con grande clamore scaricavano truppe a Kajaki, dando agli insorti l'impressione di attendere l'arrivo di un convoglio lungo la 611. La stessa notte 150 parà, spalleggiati da 400 soldati afghani addestrati dagli irlandesi del Royal Irish, si sono lanciati verso le linee dei talebani lungo la strada, per spingerli verso l'interno. “C'è gente da ammazzare, là fuori, e io non ho nessun problema a farlo”, disse il tenente colonnello Huw Williams ai suoi soldati del Terzo Battaglione dei paracadutisti. Mentre il convoglio della turbina – impacchettata in lamine d'acciaio per far sembrare le sue componenti comuni container, per evitare che qualche talebano particolarmente sveglio intuisse di cosa si trattava – avanzava con disperante lentezza lungo la “Route Harriet”, la 611 diventò un inferno, con gli elicotteri Apache che martellavano le posizioni dei talebani, mentre l'aviazione di francesi, olandesi e americani sganciava bombe con una disinvoltura mai vista. Un convoglio finto di danesi si spingeva avanti lungo la 611 attirando su di sé il fuoco nemico. Intanto il corteo della turbina concludeva la sua marcia segreta per coprire trionfalmente, ormai al sicuro, gli ultimi chilometri lungo la statale, entrando il 2 settembre 2008 nel recinto della centrale di Kajaki. Il brigadiere Mark Carleton-Smith, all'epoca comandante delle truppe britanniche in Afghanistan, fu ottimista: “Questo è l'inizio della fine della guerra”.

    Eagle Summit, tenuta segreta ancora per mesi, è entrata nei manuali dell'esercito britannico come la più impegnativa e brillante operazione condotta dalle truppe di Sua Maestà dopo la Seconda guerra mondiale. In attesa di passare alla storia come quella più inutile. Due anni dopo la famigerata turbina giace ancora inscatolata nei depositi della centrale. Gli ingegneri cinesi che dovevano installarla sono scappati, e nessun altro appaltatore si è mai fatto avanti per completare l'opera. “L'operazione per portarla qui è stata un successo”, dice John Smith-Sreen, capo dei progetti energetici e idrici della Usaid a Kabul, “ma ora per installare l'apparecchiatura abbiamo bisogno di tantissimo cemento”. Che non può arrivare perché la statale 611 continua a essere controllata dai talebani. Solo sette dei trentacinque chilometri della strada di accesso a Kajaki sono sotto il controllo, peraltro fragile, delle truppe della coalizione. E stavolta non basta un'operazione-lampo: secondo gli ingegneri, l'accesso deve restare libero per almeno sei mesi, meglio un anno. Missione impossibile: l'Helmand è la rovina delle truppe britanniche che hanno perso qui (così come gli americani) un terzo dei propri caduti in nove anni di guerra. E secondo alcune fonti della sicurezza britannica che si sono confidate con i media la situazione è peggiorata ulteriormente proprio dopo Eagle Summit: lo sforzo dedicato a Kajaki ha lasciato scoperte intere aree della provincia dove i talebani hanno avuto la possibilità di radicarsi indisturbati. Dopo aver speso quasi 100 milioni di dollari per riavviare Kajaki e modernizzarla, la Usaid ora si prepara a immagazzinare la preziosa turbina a tempo indeterminato, e Smith-Sreen appare molto più interessato a “piccoli progetti energetici in altre aree del paese”.

    Così come l'elettrificazione della Russia non ha mai prodotto il comunismo, almeno quello sognato da Lenin, le due turbine che già girano a Kajaki non hanno conquistato i cuori e le menti degli afghani alla guerra anti talebani. I 100 milioni pagati dal contribuente americano sono stati un regalo insperato per gli insorti, che hanno completamente abbandonato i loro progetti di distruggere la diga degli infedeli. Kajaki comunque eroga circa 30 megawatt di elettricità, che ha fatto nascere diverse piccole industrie e permette di irrigare i campi, ma le bollette vengono incassate dai talebani. “Più elettricità c'è, più i talebani sono ricchi”, ammette sconsolato Gul Mohammad Khan, consigliere per gli affari tribali dell'Helmand. E il grosso dell'energia viene utilizzato dai locali per irrigare i campi, coltivati con la pianta preferita dei contadini locali: il papavero da oppio. La strada per l'inferno è sempre lastricata di buone intenzioni, ma raramente l'ironia della sorte è stata più amara che in questa roccaforte talebana dove la luce portata dagli americani e dagli inglesi doveva ribaltare le sorti della guerra. Attualmente nell'Helmand e a Kandahar agiscono separatamente due eserciti di esattori, uno del governo e l'altro degli islamisti, che non si incontrano mai, in una gestione parallela talmente accorta da far sospettare un tacito accordo tra gentiluomini. Ahlullah Obaidi, il direttore del dipartimento dell'Energia e delle risorse idriche dell'Helmand, dice che ha soltanto sentito parlare del suo “collega” talebano, noto con il soprannome “Il dottore”. Pagare la bolletta ai ribelli conviene: invece dei contatori del governo applicano più modernamente una “tariffa piatta” di circa 12 dollari al mese, facendo perdere al governo della provincia circa 4 milioni di dollari all'anno. La conquista dei cuori e delle menti da parte dei talebani procede con ogni interruttore che gira, ed è anche una vittoria politica: “Abbiamo tutto il diritto di riscuotere i pagamenti, qui il governo siamo noi e non le marionette di Kabul”, dichiara il portavoce talebano nel sud, Qari Yusuf Ahmadi.

    Tagliare la luce non è un'opzione: i territori controllati dai jihadisti e dal governo si succedono a macchia di leopardo. E mentre il governo non vuole inimicarsi gli utenti “leali”, i talebani non hanno remore a presentarsi dai consumatori con in mano un paio di forbici, con le quali tranciano i fili in caso di mancato pagamento. Dopo diversi black out, si è comunque arrivati a un accordo che lascia la rete elettrica fuori dalle ritorsioni. E' successo dopo che gli insorti avevano fatto saltare qualche palo della luce: non intenzionalmente per sabotare, ma nel corso dei combattimenti. Il governo provinciale ha cercato, come al solito, un negoziato indiretto con “il dottore”, ma stavolta i ribelli si sono rifiutati di garantire un salvacondotto ai tecnici che dovevano riparare la rete. “Sembrava il giorno del giudizio”, racconta Obaidi: “A Lashkar Gah non funzionavano gli ospedali e le fabbriche, e la gente moriva di caldo senza i ventilatori”. Tutti lussi inaccessibili fino a pochi mesi prima, ma ormai considerati indispensabili, anche perché i talebani di solito ci tenevano a garantire forniture ininterrotte. Il governatore Gulab Mangal ha usato uno dei suoi pochi vantaggi sui ribelli – l'accesso all'interruttore centrale di Kajaki – per staccare la luce alle zone talebane. Dopo undici  giorni di braccio di ferro al buio, gli anziani delle tribù pashtun hanno lanciato un negoziato: i talebani hanno aperto le porte ai tecnici del governo e perfino promesso di ridurre i loro consumi di luce. “Non taglieremo mai più i cavi perché non vogliamo creare problemi alla gente”, ha promesso Ahmadi.
    Una tregua della bolletta, che però mette un'ipoteca pesante sui futuri progetti di modernizzazione in Afghanistan. Usaid difende le turbine “bipartisan” di Kajaki, pur ammettendo che circa il 40 per cento dell'energia prodotta viene “persa”. “L'elettricità cambia la vita della gente”, si vanta il responsabile degli aiuti americani nell'Helmand, Rory Donohoe. Le fabbriche di ghiaccio sono diventate da una a cinque, all'impianto di lavorazione del marmo si lavora in tre turni invece di uno, tutto questo grazie all'impianto rimesso in azione dagli americani. E Mark Sedwill, rappresentante della Nato a Kabul, ha ammesso con il Wall Street Journal che i compromessi sono inevitabili: “Ci piacerebbe che il governo afghano avesse l'autorità totale su ogni pollice del territorio, ma non è ancora così”.

    I militari però sono meno accomodanti.
    E' proprio nell'Helmand che il generale David Petraeus spera di infliggere un colpo mortale ai talebani, e i continui black-out nella zona – nonostante le promesse degli insorti di non staccare mai la luce – sono un fattore di rischio per la sicurezza di tutti, occidentali e afghani. Gli anziani di Kandahar hanno posto durante un recente incontro con il presidente afghano Hamid Karzai l'erogazione ininterrotta dell'energia come una delle condizioni per il loro appoggio alla campagna anti talebani. Il generale americano David M. Rodriguez ritiene “il rapido miglioramento” dell'infrastruttura energetica nella provincia un elemento chiave per la campagna militare. La controproposta del comando è lasciar perdere Kajaki e affidarsi, almeno a Kandahar e Lashkar Gah, ai generatori a gasolio: il passato dell'Afghanistan che l'operazione della turbina puntava ad archiviare per sempre. Un passato anche costoso: 45 centesimi per kilowatt/ora contro i 3 centesimi dell'energia idroelettrica della diga. Ma almeno il controllo sulla tanica di gasolio resta in mano alla coalizione e al governo leale a Kabul. La modernità può attendere.

    di Anita Taksa