Il centro sociale di Berlino

Redazione

La porta è una lastra di metallo sudicio che promette di aprirsi sul peggior bagno di Berlino. Sopra alla colla secca di centinaia di adesivi staccati ci sono centinaia di adesivi attaccati che parlano di qualunque cosa in qualunque lingua, anche in italiano, idioma letterario finché rimane all'interno dei confini nazionali. Fuori dall'italofonia diventa spesso il dialetto sgarbato di chi tende a esportare solo il peggio di sé. Il bagno del Café Zapata non mantiene le promesse.

    La porta è una lastra di metallo sudicio che promette di aprirsi sul peggior bagno di Berlino. Sopra alla colla secca di centinaia di adesivi staccati ci sono centinaia di adesivi attaccati che parlano di qualunque cosa in qualunque lingua, anche in italiano, idioma letterario finché rimane all'interno dei confini nazionali. Fuori dall'italofonia diventa spesso il dialetto sgarbato di chi tende a esportare solo il peggio di sé. Il bagno del Café Zapata non mantiene le promesse. I muri sono scavati, scarabocchiati, bucati, costruiti male, rammendati peggio, ricoperti con resine industriali, scrostati e ricoperti di nuovo, ma la sostanza del servizio è più linda della media dei locali europei. Al Café Zapata, ouverture del Tacheles, il centro sociale più famoso di Berlino, si prova la contraddizione dell'esperimento underground che ha segnato la generazione nata alle pendici della Glasnost: troppo giovane per aver vissuto il blocco sovietico, abbastanza giovane da avere nostalgia del Patto di Varsavia. Abbastanza alternativa da scrostare le pareti, troppo perbene per avere un cesso davvero sporco.

    Sopra alle vetrine del bar che si affaccia su Oranienburger Strasse sono appoggiati piani di cemento sventrato in cui dal 1990 abitano centinaia di artisti del sottosuolo emersi con quell'enorme rimescolamento delle carte che è stata la caduta del Muro. L'est si è riversato a ovest e si è lasciato alla spalle chilometri cubici di socialismo reale disabitato che le autorità cittadine hanno fatto in modo di rendere accessibile a tutti. La Berlino del 1990 aveva innanzitutto il problema della sopravvivenza. Bisognava convincere i giovani a rimanere in città e di spazio ce n'era. Quell'angolo acuto di Oranienburger Strasse era al centro della città, vicino, ma non troppo, alla pedanteria neoclassica di Friedrich Strasse; la fabbrica danneggiata in cui i nazisti avevano rinchiuso prigionieri francesi e che poi era stata ferita dalle bombe alleate era l'antro perfetto per ospitare la generazione che stava sfondando la postmodernità. Artisti alla ricerca di una dimora creativa, sfaccendati pieni di tormenti non troppo seri, gente spaiata alla ricerca dell'occasione buona, rivoluzionari in ritardo: Tacheles poteva accogliere questo e anche altro. Berlino aveva anche il problema di rimanere se stessa, cioè di cambiare sempre, ma mantenendo fieramente l'aria della città che arranca portando due croci, una a est e una a ovest. Non poteva normalizzarsi, diventare Bonn o Monaco con qualche relitto sovietico da smaltire; e non aveva molta voglia di inseguire Londra e Parigi.

    La via della Berlino finalmente unita
    doveva essere scoperta e forse anche creata dalle macerie della Berlino antica, che però aveva la peculiarità di non essere una città. Erano almeno due, divise da un muro che era simbolo di due visioni del mondo che ringhiano una sul muso dell'altra ma anche punto di riferimento e bussola della vita di tutti i giorni. Il Tacheles si è preso, anche senza saperlo, la responsabilità di rifondare una città in cui all'improvviso erano cambiati i sensi di marcia delle strade e delle vite. Non ci è voluto molto tempo per farlo diventare il punto di riferimento della vita artistica della città, una vita sotterranea e parallela all'arte azzimata dei musei barocchi, tenuti in massimo disprezzo dal popolo del Tacheles.

    Il centro sociale è diventato l'anti museo: gli artisti vivono, lavorano, espongono e vendono all'interno della “Kunsthaus”, la casa dell'arte, vestita a festa con i graffiti che andavano forte negli anni Novanta. Si vorrebbe annullare completamente la distanza fra arte e vita. Non sempre ci si riesce ma non per questo la comunità del Tacheles smette di provare. Sotto, al Café Zapata, si balla techno, house, elettronica minimal, folk, rock di qualsiasi foggia, fisarmoniche elettrizzate, punk sconsolato e inevitabilmente filosovietico. Il dj fa andare i vinili da una pensilina perfettamente a norma nonostante l'aria pericolante; i gruppi suonano in un palchetto rasoterra, abbracciati al pubblico. Solo per i concerti più grossi mettono le transenne. Il bar continua fieramente a non fare servizio al tavolo: si ordina, si prende posto e si aspetta che il drago metallico sospeso al di sopra delle teste sputi fuoco. E' il segnale che la birra è pronta. Se il bicchiere torna al bancone intatto, i ragazzi rendono una cauzione. Dire che il Tacheles è un centro sociale o un'associazione artistica è understatement. Tacheles è il destino di una città che non sa se guardare avanti o indietro, a est o a ovest, ma non ha il profilo della clandestinità. E' manifestazione anarcoide accettata e sponsorizzata dal potere costituito e per questo non c'è mai stato un vero tentativo di smantellare il Tacheles. Nel 1998 il gruppo di artisti e girovaghi che lo avevano fondato otto anni prima hanno firmato un contratto con la proprietà per prolungare l'affitto dei dieci anni successivi. Prezzo: un marco al mese. Dal 2008 il Tacheles vive una minaccia silenziosa che in queste settimane sta diventando pericolosamente concreta, la minaccia della vendita. Nulla di coatto o ideologicamente orientato: il sindaco è a favore del Tacheles, la città lo rispetta, la gente ne ama le contraddizioni. Ma la vita stessa della casa d'arte sta lentamente scivolando su un piano inclinato, come se fosse arrivata al capolinea della sua funzione storica.

    Gli spazi enormi dell'edificio che come tanti a Berlino mostra un lato nudo e il giardino che lo circonda sono il posto perfetto per la costruzione intensiva. Un'ottima “location”, si direbbe, per incastrare un altro tassello della Berlino vetrometallica di Potsdamer Platz, simbolo di una ricostruzione sistematica ricoperta da vernici newyorchesi. L'operazione economicamente vantaggiosa va in parallelo con il lento esaurirsi della generazione del dopo muro, quella massa indistinta che aveva tanta voglia di costruire quanta voglia di tornare indietro. L'idea è che il Tacheles e tutto ciò che rappresenta non serva più. Che sia inadeguato ai tempi. Che sia il tempio graffiato di una religione che è stata dichiarata oggettivamente falsa. Dalla parti del Tacheles, in questi giorni, c'è una grande voglia di tenere duro. Hanno indetto una petizione popolare per convincere i proprietari a ritirare l'immobile dal mercato, per salvare una baracca che però da tempo ha subito una metamorfosi circense. Il cimitero delle automobili in cui erano sparsi i tavolini all'aperto è stato sgombrato perfettamente; gli artisti con le scarpe bucate dei primi tempi – quelli che incidevano lastre di metallo con la fiamma ossidrica e guardavano soddisfatti: “Questa è la mia opera migliore” – sono diventati allestitori famosi. I mattoni grezzi del Tacheles sono calpestati ogni anno da centinaia di migliaia di turisti che passano dall'architrave senza cancello soltanto per fare qualche foto, un po' come la mano che regge la torre di Pisa nel cliché giapponese. Come se la casa dell'arte avesse in sé anche la causa della sua stessa distruzione.

    L'opposizione alla chiusura dice che senza il Tacheles la Berlino scapigliata perderà l'anima e diventerà una città orwelliana con il vago ricordo di essere stata il crocevia degli imperi. Rimarrà al massimo la nostalgia per le certezze su potere e contropotere, quelle di una generazione che deve smazzarsi gli errori ma non può dire di non aver saputo in quale direzione andare. La generazione che ha fondato il Tacheles è al confine. Ora, dopo vent'anni, attraverso il portone di Oranienburger Strasse è più comune che sia un genitore ad accompagnare i figli, non il contrario. Anche per questo l'identità della Berlino ferita è sempre in lotta con la morte.

    Tacheles è stato per anni il simbolo dell'Ostalgie: fra quelle mura è nata una corrente culturale che oggi attraversa ogni città del vecchio blocco socialista. Nelle strade di Skadarlija, il quartiere dandy di Belgrado, sono rinate le kafane, i bar che servivano vodka e cetrioli al tempo del maresciallo Tito. Quella più popolare ha aperto all'inizio dell'Ottocento ma non ha ancora un nome. Sulla porta d'ingresso c'è soltanto un punto di domanda: secondo la versione ufficiale, fu disegnato per la prima volta nel 1982, dopo una disputa tra la chiesa ortodossa e un oste che voleva intitolare la baracca all'Arcangelo Michele. Stanco delle discussioni, l'uomo abbandonò l'idea, ma non scelse un altro nome al locale, che è ancora conosciuto come “zank pitania”, il punto interrogativo. Negli anni del comunismo, le kafane erano il posto migliore in cui vedere amici e colleghi di lavoro. Ogni mestiere aveva la propria: gli artisti si scambiavano opinioni brindando ai tavoli dello Scescir Moi (Mio cappello), i politici facevano sosta all'Ima dama (“c'è tempo”), dov'era ammesso brindare anche alla salute dei familiari partiti per l'America. Nel 2003, quando una compagnia del governo ha deciso di vendere la kafana “?”, più di duemila persone hanno firmato un appello per impedire l'affare. La polemica ha coinvolto molti giornalisti, che sono riusciti a raggiungere il successo dopo una battaglia lunga quattro anni: il bancone di zank pitania è stato il loro punto di ritrovo per due generazioni, non potevano restare indifferenti di fronte alla prospettiva di vedere il locale più antico della città trasformato in una discoteca per turisti inglesi.

    Ostalgie è l'unione di due parole, “Ost”, che in tedesco significa “est”, e nostalgia. La generazione Tacheles ha dato al cinema successi pop come “Goodbye Lenin”, una commedia ambientata a Berlino alla fine del comunismo, e “Le vite degli altri”, che racconta il lavoro sporco di un agente segreto nella Repubblica democratica tedesca. Il genere ha avuto successo anche in libreria. Nicolai Linin è cresciuto in Transinistria, una Repubblica fantasma al confine fra la Moldavia e l'Ucraina, e ha passato alcuni mesi combattendo contro i ribelli ceceni sulle montagne del Caucaso. Ha raccontato le sue vite in due libri che hanno venduto migliaia di copie in Italia. La Polonia ha tanti giovani scrittori che scrivono romanzi sulla vita negli anni Ottanta. Gente come Andrzej Stasziuk, uno che si è ritirato nelle campagne alla frontiera con l'Ucraina, dove alleva lama e gestisce gli affari di una casa editrice, ma scrive storie sulle strade di Varsavia prima che il paese diventasse un bastione del libero mercato. Il caso letterario dell'Ucraina è Andrei Kurkov, conosciuto in Italia per un romanzo intitolato “L'ultimo amore del presidente” (Garzanti, 2008). “Non sarei uno scrittore se non avessi vissuto in un paese comunista – dice al Foglio – Faccio parte di una specie di scuola sovietica estremamente cinica, che ha poca fiducia nella politica e nello stato in generale, ma che è abituata a seguire una linea, qualunque essa sia. Vivere in un periodo di cambiamenti grandi come quelli che abbiamo visto alla fine degli anni Ottanta ci ha permesso di avere più esperienze rispetto ai nostri colleghi dell'occidente. Oggi la vita è molto diversa e tanti rimpiangono il passato, provano nostalgia per i tempi andati. Forse, fra una decina d'anni, sentirete le stesse parole da uno scrittore della Mongolia, o magari della Corea del nord”.

    Ma l'Ostalgie non è soltanto una questione culturale: negli ultimi anni è diventato un affare vantaggioso per tanti imprenditori con il senso dell'umorismo. A Cracovia, un uomo di trent'anni di nome Michael Ostrowski offre un itinerario originale e alternativo a migliaia di turisti che arrivano ogni giorno in città: niente passeggiate per il ghetto ebraico di Kazimierz, niente fotografie al Castello medievale che accoglie le spoglie degli eroi polacchi, ma visite al quartiere Nowa Hota, un distretto di fabbriche e palazzi progettato dagli ingegneri di Stalin alla periferia della città. Con un piccolo extra è possibile pranzare in un bar mleczny, le locande che vendono ravioli e verdura fermentata per poche monete, o essere accolti dalla vecchia fanfara di quartiere, che ha conservato uniformi (e strumenti) d'epoca. In città sono molti i giovani che hanno deciso di trasformare il socialismo in business: ci sono ostelli dedicati a Lenin, bar che espongono le immagini di Breznev e riviste che si occupano di “estetica sovietica”, come il famoso Korrespondencija. Nessuno sente davvero la mancanza del Muro di Berlino, ma molti rimpiangeranno le pareti scrostate del vecchio Tacheles.

    di Luigi De Biase e Mattia Ferraresi