Intervista

“Ora sta ai liberisti combattere la disuguaglianza”, f.to Rajan

Marco Valerio Lo Prete

Nel 2005 Rajan era il più giovane capoeconomista della storia del Fondo monetario: spiegò a Greenspan & Co. cosa sarebbe accaduto a Wall Street ma non fu ascoltato. Oggi, a scuse ricevute, sostiene che la riforma Obama non è la cura migliore per evitare di cadere nuovamente

    La riforma della finanza americana, da ieri, è legge. “I contribuenti non dovranno mai più pagare per salvare Wall Street”, ha detto Barack Obama al momento di firmare il testo che, ha assicurato il presidente, “porrà un freno agli abusi e agli eccessi che hanno quasi fatto crollare l'intero sistema finanziario”. Eppure il rischio di un altro terremoto nell'economia globale è tutt'altro che scongiurato: non perché il libero mercato sia intrinsecamente votato al fallimento o quantomeno all'instabilità, come pure si è sentito spesso dire in questi due anni che ci separano dal crac di Lehman Brothers, piuttosto – dice al Foglio Raghuram Rajan, docente di Finanza all'Università di Chicago – perché la politica non ha ancora preso sul serio alcune “linee di faglia” che percorrono l'economia mondiale. A partire, per esempio, dalle crescenti differenze di reddito all'interno degli Stati Uniti.

    Indiano, dal 1991 in America, dottorato al Mit e poi professore di punta nel tempio liberista dell'accademia, Rajan è tra gli economisti più ascoltati del momento. Un anno fa, quando propose di creare un fondo assicurativo per fronteggiare l'eventuale fallimento delle società private, il banchiere centrale della Finlandia, Erkki Liikanen, incrociandolo a un seminario, commentò così: “Non oso criticarti. Tutto qui”. Memore, Liikanen, di quanto accaduto nel 2005: allora Rajan, in occasione di un simposio di banchieri centrali, prese la parola in qualità di capoeconomista del Fondo monetario internazionale (il più giovane della storia dell'organizzazione, e il primo non occidentale) e presentò una ricerca intitolata “Lo sviluppo finanziario ha reso il mondo più rischioso?”. Soltanto che rispondere “sì” a questa domanda, come fece Rajan allora, fu considerato un gesto di scortesia nei confronti del governatore della Fed uscente, Alan Greenspan. A chi oggi gli ricorda la freddezza dell'uditorio, risponde con ironia: “Esagerando un po', mi sentivo come uno di quei primi cristiani che camminavano in un'arena piena di leoni”. Un povero “cristiano” che parlava di incentivi sballati nel settore finanziario – adatti a premiare chiunque facesse profitti ma non a penalizzare gli errori –, di credit default swap che in caso di effettivi fallimenti avrebbero presentato un conto salatissimo, etc. A due anni di distanza, è esattamente ciò che è accaduto.

    La più imponente regolamentazione di Wall Street dalla Grande depressione a oggi, come amano chiamarla i suoi sostenitori, basterà a evitare che tutto accada di nuovo? “Purtroppo la risposta è ‘forse'”, dice Rajan, innanzitutto perché “sono ancora troppi i dettagli da definire”. E non si tratta di minuzie: quali saranno i requisiti di capitale per le banche? E i piani delle singole istituzioni finanziarie per affrontare le crisi in modo ordinato (living will)? “Decine di autorità, peraltro suscettibili di essere influenzate dalle lobby, dovranno non soltanto scrivere, ma anche applicare nuove regole”. Soprattutto la riforma finanziaria non risolve minimamente alcuni problemi di fondo, che Rajan chiama “linee di faglia”, o “fault lines”, come è intitolato il suo ultimo libro edito da Princeton: la crescente ineguaglianza dei redditi negli Stati Uniti, gli squilibri commerciali globali (“anzi, oggi già si pretende che gli americani tornino a essere i consumatori di ultima istanza”), l'incompatibilità tra mercati finanziari nazionali troppo diversi tra loro.

    Liberista, ma controcorrente, Rajan si concentra sulla prima “faglia”: “I banchieri sono avidi, ma non più di altri esseri umani. Piuttosto vanno comprese le spinte sociali profonde che ci hanno portato alla situazione odierna”. Si prenda il caso del credito immobiliare facile, all'origine dei tanto vituperati “mutui subprime”: “Negli ultimi vent'anni in America democratici e repubblicani – osserva l'economista – hanno sostenuto istituzioni e leggi che garantissero anche alle famiglie a basso reddito prestiti per comprare casa”. Così la politica, pur animata dalle migliori intenzioni, ha scelto la via più facile per alleviare le preoccupazioni di un numero crescente di persone. A partire dagli anni Settanta infatti, dimostra Rajan, “su ogni dollaro di crescita dei redditi reali generata, 58 centesimi sono andati all'1 per cento più ricco delle famiglie”. In sintesi: gli stipendi dei manager crescevano più di quelli degli operai e la politica ha fornito un palliativo come quello del credito facile. Vogliamo forse chiedere al capitalismo di marciare a favore dell'uguaglianza? “E' nell'interesse del libero mercato, oltre che della società, avere persone più qualificate – spiega Rajan – il progresso tecnologico in America impone alla forza lavoro di possedere competenze sempre maggiori”. Certo un ruolo i governi devono averlo: “Aiutare i cittadini a costruire le possibilità che li aiuteranno a essere più produttivi. Dopodiché le autorità statali devono fare un passo indietro in quelle aree nelle quali il mercato funziona in maniera più efficace”. Investire in istruzione, sanità, solo questo può contribuire a invertire la rotta: “I privati possono e devono avere un ruolo. Ma per ora i leader globali hanno optato per le decisioni facili, promettendo risultati immediati”.

    Hanno sbagliato, per esempio, scegliendo di sbraitare contro le banche: “Per ridurre la povertà e promuovere la crescita economica, lo sviluppo finanziario è essenziale”, ricorda Rajan. I fondi di private equity per esempio, sostiene l'economista che assieme all'italiano Luigi Zingales è anche autore di “Salviamo il capitalismo dai capitalisti” (2005), rappresentano “una enorme forza propulsiva di cambiamento – dai fondi di venture capital che finanziano e promuovono l'innovazione, ai fondi di buyout che spingono imprese obsolete a diventare efficienti –”, e proprio per questo sono stati pubblicamente osteggiati soprattutto da quanti beneficiano oggi di rendite di posizione, inclusi “i manager e i lavoratori di imprese inefficienti”. La convinzione di fondo è che non si rende più giusto o efficiente il capitalismo a colpi di “campagne moralizzatrici”: “Soltanto il mercato, anche attraverso incentivi giustamente concepiti dai regolatori, può imporre la migliore disciplina possibile”.