Ma perché la Casa Bianca s'agita per l'inchiesta sugli spioni?

La giornalista del Washington Post Dana Priest di premi Pulitzer, categoria “l'inchiesta più scomoda in circolazione”, ne ha già vinti un paio, quindi il terzo sarebbe più che altro una faccenda a uso dei compulsatori d'almanacchi. L'inchiesta di proporzioni omeriche che il Washington Post ha iniziato a pubblicare ieri sull'universo multistrato dei servizi d'intelligence potrebbe valere una terza medaglia nel carnet, ma Dana Priest e il Washington Post puntano più che altro alla sostanza giornalistica dell'operazione.

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    La giornalista del Washington Post Dana Priest di premi Pulitzer, categoria “l'inchiesta più scomoda in circolazione”, ne ha già vinti un paio, quindi il terzo sarebbe più che altro una faccenda a uso dei compulsatori d'almanacchi. L'inchiesta di proporzioni omeriche che il Washington Post ha iniziato a pubblicare ieri sull'universo multistrato dei servizi d'intelligence potrebbe valere una terza medaglia nel carnet, ma Dana Priest e il Washington Post puntano più che altro alla sostanza giornalistica dell'operazione. Assieme al collega William Arkin, Priest si è presa due anni di tempo per osservare, descrivere, catalogare, analizzare e trarre conclusioni pubblicamente rilevanti sui metodi con cui il governo americano raccoglie informazioni sulla sicurezza nazionale. L'assunto su cui i cronisti si sono appoggiati è piuttosto elementare: dopo l'11 settembre 2001 l'America ha potenziato enormemente gli sforzi per ottenere ed elaborare informazioni utili per la lotta al terrorismo, dentro e fuori dai confini nazionali; lo ha fatto creando nuove sezioni, dividendo i compiti, appaltando i servizi a compagnie private di contractor che hanno reso l'intelligence una macchina pletorica in cui la dispersione di energie è direttamente proporzionale all'aumento della complessità del sistema. Più la minaccia agli Stati Uniti è imponente, più gli sforzi per contrastarla si moltiplicano, più l'entropia del sistema aumenta.

    La prima delle tre puntate dell'inchiesta “Top Secret America” racconta i tratti principali di un “mondo nascosto che cresce senza controllo”: è il mondo della raccolta d'informazioni, delle infinite catene di comando, degli arditi decision maker che si pronunciano sulla base di un lavorìo brulicante portato avanti da un enorme tappeto di stagisti che sta sotto i palazzi di Washington. Dalla sua il Post ha la forza dei numeri: 1.271 agenzie governative si occupano di informazioni altamente riservate; 1.931 compagnie private lavorano nell'ambito del controterrorismo. Nel 2001 sono state create 24 organizzazioni ex novo; 37 nel 2002; 36 nel 2003; 26 nel 2004; 31 nel 2005; 32 nel 2006; 20 nel 2007 e altrettante nei due anni successivi. Il database pubblicato con abbondante – forse spropositato – uso di Flash sulla sezione del sito dedicata a Top Secret America serve a sostenere una tesi su cui Priest e Arkin planano alla prima riga: “La mancanza di precisione, non la mancanza di risorse è il cuore del massacro di Fort Hood che ha fatto tredici morti, così come dell'attentato di Natale, che non è stato sventato dalle migliaia di analisti assunti per trovare i terroristi solitari, ma da un allarme lanciato da un passeggero”.

    Secondo gli autori, l'America del post 11 settembre è caduta nell'enorme malinteso secondo cui la moltiplicazione degli sforzi per la sicurezza nazionale non garantisce – e, anzi, mette in pericolo – i risultati sul campo. Le sigle a tre lettere delle agenzie si moltiplicano, gli agenti si pestano i piedi, le informazioni riservate passano attraverso troppe orecchie, i confini delle competenze svaniscono, i costi aumentano e il risultato è che l'America non è più sicura di quanto lo fosse prima di essere attaccata sul proprio suolo.

    La tesi ardita – seguita oggi dall'accusa c
    he il governo dipenda in misura eccessiva dai contractor – viene smentita dagli ufficiali interrogati da Priest e Arkin, primo fra tutti il segretario della Difesa, Bob Gates, che parla di una generica “sfida” per convogliare e razionalizzare la massa di informazioni di cui il governo entra in possesso; ma i dettagli preoccupano l'Amministrazione. Il Washington Post non ha agito nell'ombra, non completamente. Due mesi fa il quotidiano ha sottoposto i risultati dell'inchiesta ad alcuni ufficiali del governo e nessuno di questi ha sollevato obiezioni, anche perché il lavoro è basato su informazioni pubbliche fatte reagire con dosi massicce di commenti di persone informate sui fatti. Tecnicamente, l'inchiesta non rivela nulla; semplicemente (eufemismo) condensa strati di fumo, raccoglie dati, fonde percorsi che si credevano separati. E' l'effetto sul pubblico che preoccupa la Casa Bianca.
    Già a un primo sguardo su torte e istogrammi si coglie la funzione sintetica dell'operazione: sostenere che l'oscura comunità dell'intelligence che si aggira in abiti civili per le strade di Washington è una casta trasversale, un sottogoverno invisibile e pericoloso; infine, è una sacca di inefficienza a spese del contribuente.

    Finché le migliaia di attori rimanevano separati
    nella percezione pubblica, nessun problema; quando si uniscono i puntini, l'impressione collettiva che il potere cresca e foraggi tanta stoltezza rischia di essere indigeribile. L'esistenza del database è “problematica” ha detto un ufficiale dell'Amministrazione all'Abc, mentre il direttore esecutivo della National Intelligence, David Gompert, ha detto che la “versione del Washington Post non rappresenta la comunità di intelligence”, che invece “ottiene successi di cui non si parla”.

    Dana Priest è una vecchia ossessione della Cia. Nel 2006 ha svelato l'esistenza dei “black sites”, una serie di prigioni dove l'agenzia di Langley deteneva illegalmente sospetti terroristi. Nel 2008 ha mostrato al mondo il modo indecente con cui i veterani di guerra venivano curati nel Walter Reed Army Medical Center, alle porte di Washington. Così si è guadagnata le mostrine della giornalista d'altri tempi. Meno scintillante il passato di William Arkin, che per quattro anni ha servito nell'esercito americano, salvo poi diventare un attivista votato alla causa della pace universale dalle tribune più liberal del paese, ad esempio Greenpeace. Ha criticato l'Amministrazione Bush con toni che nemmeno un Michael Moore; ha fatto licenziare un generale dell'intelligence; è stato fra i dirigenti di Human Rights Watch. E' a loro che il Washington Post si affida per far tremare la Casa Bianca e sollevare le vendite del giornale.
     
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