Obama vuole perdere le elezioni, i repubblicani la guerra

Ieri l'informatissimo Jonathan Martin del quotidiano Politico ha pubblicato il piano di Barack Obama per mantenere il controllo del Congresso alle elezioni di midterm, il 2 novembre. Il documento della Casa Bianca non rivela manovre ardite per limitare i danni di quella che tutti gli osservatori dicono sarà per il partito di Obama una sconfitta sonora alla Camera, più contenuta al Senato. I comandamenti per arrivare alla vittoria – o per limitare la sconfitta – hanno sapore piuttosto ordinario.

    Ieri l'informatissimo Jonathan Martin del quotidiano Politico ha pubblicato il piano di Barack Obama per mantenere il controllo del Congresso alle elezioni di midterm, il 2 novembre. Il documento della Casa Bianca non rivela manovre ardite per limitare i danni di quella che tutti gli osservatori dicono sarà per il partito di Obama una sconfitta sonora alla Camera, più contenuta al Senato. I comandamenti per arrivare alla vittoria – o per limitare la sconfitta – hanno sapore piuttosto ordinario: farai molti comizi, favorirai la nascita di comitati elettorali, ti sintonizzerai su frequenze popolari, non permetterai a Joe Biden di sfogare le sue manie presenzialiste. Fondamentale, invece, il tempismo strategico con cui la Casa Bianca ha fatto trapelare il messaggio che a novembre vuole davvero dare battaglia per le elezioni. Lunedì il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha detto alla Nbc quello che tutti pensano: i repubblicani hanno buone possibilità di prendersi la maggioranza alla Camera.

    “Non c'è dubbio che ci siano abbastanza seggi in bilico da permettere ai repubblicani di avere la maggioranza”, ha detto Gibbs senza aggiungere nulla a quello che gli osservatori repubblicani hanno già sbandierato e quelli democratici già ammesso. Nel vocabolario politico di Washington, la mossa di Gibbs si chiama “Kinsley gaffe”, dalla definizione del giornalista Michael Kinsley: “Una gaffe è quando un politico dice la verità”. E la verità sulla condizione dei democratici all'inizio della fase acuta della corsa elettorale non può che comportare una guerra interna alla solidissima maggioranza democratica. Lo speaker della Camera, Nancy Pelosi, personaggio noto per il suo impegno perpetuo ad allargare il suo feudo liberal al Congresso, l'ha presa malissimo: in un incontro a porte chiuse con i colleghi di partito ha perso la pazienza, ha urlato e se l'è presa con Gibbs, perché “che ne sa lui di cosa succede nei nostri distretti?”.

    Infine, sprezzante, ha detto che questo Gibbs lei nemmeno lo conosce. Mercoledì, al briefing mattutino con i giornalisti alla Casa Bianca, Gibbs non ha smentito le sue dichiarazioni – peraltro troppo limpide per essere ribaltate senza conseguenze – e si è giustificato: “Non credo di aver detto cose politicamente scioccanti”. Certo, ha detto Gibbs, per come è stata presa dai colleghi di partito, ritornerebbe volentieri indietro per mettere giù il concetto con parole più levigate.

    E' a questo punto dello scontro che la Casa Bianca ha tirato fuori un documento per dire che non c'è un clima di rassegnazione, la battaglia è aperta, i democratici venderanno cara la pelle e se di sconfitta si tratterà, loro la affronteranno a testa alta. E' quello che Nancy Pelosi e i democratici al Congresso hanno chiesto a Obama negli ultimi, polemici, giorni: uno schema nero su bianco in cui le massime cariche dell'esecutivo si assumono la responsabilità di sostenere in modo organico il grosso dei membri democratici che corrono per mantenere la maggioranza. A Washington le scaramucce democratiche fra Casa Bianca e Congresso hanno anche un'interpretazione più raffinata: Obama non vuole vincere le elezioni di midterm. Ci sono una serie di ragioni sostanziali e storiche per sostenere la tesi controintuitiva della sconfitta programmata: Obama ridimensionerebbe le pretese dell'ala liberal, estremamente delusa dall'operato del presidente; eviterebbe che il partito finisse ostaggio delle correnti localiste del ramo legislativo e, infine, con una maggioranza repubblicana avrebbe un capro espiatorio perfetto per tutte le riforme non fatte, i problemi irrisolti, i malumori in atto e in potenza.

    L'esempio classico è quello di Clinton, che molto probabilmente non sarebbe stato rieletto al secondo mandato se a metà del primo i repubblicani non avessero occupato il Congresso con l'epica operazione del “Contract with America”. Diversi osservatori, ad esempio il conservatore Stephen Hayes, sostengono la tesi della sconfitta tattica e proprio a questa trovata sotterranea sarebbe legato lo sproporzionato accesso di rabbia di Nancy Pelosi: l'idea astiosa che serpeggia al Congresso è che Obama non si stia chiedendo qual è il modo migliore per vincere le elezioni, ma qual è il modo più elegante per perderle.

    Gli umori crepuscolari dei democratici
    sono bilanciati da uno screzio sull'altra sponda politica a proposito del meno divisivo dei temi, all'apparenza: la guerra in Afghanistan. L'ex speaker repubblicano della Camera, Newt Gingrich ha detto che la guerra “non finirà bene”. Secondo Gingrich, “siamo in un pericolo enorme perché abbiamo sottovalutato la reale difficoltà della situazione” e il vecchio repubblicano ha avuto da obiettare anche sulla dottrina del generale Petraeus, una specie di Vangelo per l'ambiente neoconservatore dell'Amministrazione Bush. Le sue dichiarazioni sono aggravate dal tempismo. Qualche settimana fa il capo del Partito repubblicano, Michael Steele, ha detto che l'Afghanistan è la guerra di Obama e quindi non è più disposto a sostenerla; l'intellettuale neoconservatore William Kristol ha fatto l'apripista della colonna di conservatori che ne hanno chiesto le dimissioni immediate e a loro ha risposto duramente la columnist Ann Coulter, d'accordo con il proprio capo di partito. Parlando con il Foglio, Kristol minimizza: “Ho parlato con Gingrich ed è ancora un falco. Ci sono molti brontolii, ma non un vero fronte conservatore contro la guerra in Afghanistan. Almeno non ancora”.

    Anche fra i repubblicani c'è un gioco delle parti attorno a temi sui quali il partito dovrebbe muoversi come un sol uomo; è un conflitto speculare a quello dei democratici, che riguarda il merito delle proposte ma anche e soprattutto la divisione del potere congressuale che verrà.