Stroncatura preventiva del libro che (forse) vincerà lo Strega
Poteva essere il romanzo del distinguo tra miseria e povertà. L'omaggio – secondo Pratolini, nonostante l'avvento di Julian Sachs e Bono – alla eterna sofia dei poveri, all'arte di vivere dove l'aria è irrespirabile, anche nel terzo millennio. Ma no, Acciaio di Silvia Avallone – il romanzo candidato allo Strega e pubblicato da Rizzoli – è solo una narrazione scandalizzata.
Leggi Il carotaggio Strega di Mariarosa Mancuso
di Jacopo Guerriero
Poteva essere il romanzo del distinguo tra miseria e povertà. L'omaggio – secondo Pratolini, nonostante l'avvento di Julian Sachs e Bono – alla eterna sofia dei poveri, all'arte di vivere dove l'aria è irrespirabile, anche nel terzo millennio. Ma no, Acciaio di Silvia Avallone – il romanzo candidato allo Strega e pubblicato da Rizzoli – è solo una narrazione scandalizzata, irrisolta nella contraddizione che la caratterizza: marxianamente c'è una solo regola che (pur malvolentieri) accetta – l'economia e il materialismo sono sempre l'altare cui inginocchiarsi, l'infrastruttura maligna ma irrinunciabile di tutte le società, epperò che rammarico quando gli operai del libro che votano Berlusconi (pippano e vestono da calciatori), vanno in 'rottura di condizione umana' (Ranhema), in alienazione straniante – capita quando si cerca di integrare i poveri nell'economia, sbaragliando motivi culturali, fedi, ethos, il brodo di cultura di esistenze complesse.
Andiamo con ordine, però: Piombino, anno 2000, la trama muove da qui. Anna e Francesca sono due preadolescenti al centro di un microcosmo ormai geneticamente modificato, le case di via Stalingrado, il quartiere popolare che raccoglie le famiglie dei metalmeccanici che sognano "Vanity Fair" ma vivono di acciaieria. La piena attuazione dell'industrializzazione capitalistica ha aperto le porte a un cambiamento epocale. Il risultato è un mondo in crisi, che ha superato aspirazioni e resistenze, introiettato indifferenza per l'etica. Anche geograficamente, laddove un tempo esistevano – secondo Luperini – "L'incanto favolistico e il realismo" di Garzelli, di Della Mea, perfino del primo Tabucchi (quello di Piazza d'Italia), oggi imperano solo penuria, invidia, una violenza molteplice. L'Occidente, insomma.
E perché, verrebbe da chiedersi? La domanda se la dovrebbe porre anche uno scrittore, ma andiamo avanti. Anna e Francesca hanno dalla loro il potere del corpo. Sono belle e la loro carica sessuale le mette al centro dell'attenzione collettiva, vogliono tutto – ragazzi, soldi, prestigio sociale – e di un Èducation sentimentale – in senso classico – non gliene importa niente, alla vigilia di un'estate che cambierà radicalmente il corso delle esistenze loro e delle loro famiglie (e che poi le separeà per via di studi, amori, gelosie, errori, insomma la terribile oscenità della vita sordida che prende di petto tutti, chi ci sta, chi non ci sta, chi picchia, chi ha figli e chi no, chi prova a imbrogliare, chi si maschera, chi tragicamente muore).
Secondo la presente moda letteraria l'autrice vorrebbe scattare una fotografia a (supposta) alta fedelà del circostante: ma è davvero così? Difficile pensare a un realismo vero, effettivo, se la storia si incardina su un'ossatura di perbenismo puro, ovvero sui luoghi comuni più visitati del nostro tempo. Per cui (e a esempi stiamo stretti) il padre è sempre e comunque uno stronzo (l'educazione è appannaggio solo delle donne, solo le madri di Anna e Francesca sono figure in qualche modo positive, nel romanzo); è poi meglio essere morti che brutti o, peggio che mai, grassi; tutte le certezze moderne – autorealizzazione, emancipazione da ogni legame possibile - sono Bibbia (sì, B maiuscola) ed è impossibile storicizzare alcunché, meno che mai mettere una (sana) distanza critica tra noi e loro. Verrebbe da dire che piuttosto che a un ritratto, siamo di fronte a un lavoro che preferisce omologarsi piuttosto che sovvertire. La passività nella ricezione si appoggia peraltro a una lingua spiccia – il dialogo stravince sulle descrizioni -, sulla psicologia inarticolata di personaggi che assomigliano a stereotipi. Ma prevediamo l'obiezione: il narratore fa i conti con la realtà che si trova di fronte, e il dato (probabilmente inoppugnabile) è che gli operai di Piombino sognino le veline di "Striscia" e pratichino ben poco quel dubbio nella fede cieca del progresso inevitabile (il motore della loro rovina) che certamente non garantirebbe loro la fuga da una condizione complessa, ma almeno il ritorno di un certo ottimismo (e per restare alla tradizione del romanzo toscano: "valle di lacrime sì, ma anche risate, sorrisi, sberleffi e bisbocce" – scriveva Luciano Della Mea).
Cosa non ci convince, dunque, del romanzo di Avallone? Proprio il suo amore evidente per la superficie, la prossimità della sua storia alla docufiction d'accatto, l'immersione in una povertà di cui non prova mai a rendere ragione, perché accetta tutto, ma proprio tutto di una visione materialistica che schiaccia i suoi protagonisti solo sulle esigenze quotidiane, che non riesce pi˘ a essere tenuta distante, che finisce per soffocare e togliere il respiro. Tutto troppo brutto per essere vero. Anna e Francesca – anche quando si troveranno a soffrire sul serio - hanno sempre una via semplice: si alzano, mangiano, trasgrediscono, si emozionano, scopano (solo Anna, Francesca no, anzi sì ma alla fine), il loro sviluppo sarà probabilmente il proverbiale cresci, produci, consuma e crepa. Ma manca in toto un punto di vista loro –tristi cavie da poverty trip, più che giovani donne sembrano due di due possibili traiettorie universali, senza punto di vista, non hanno qui e ora, non fanno mai qualcosa di improvvisato e l'improvvisazione è l'essenza stessa della povertà. La contraddizione la denunciavamo già all'inizio: Acciaio non mostra mai le potenzialità dei poveri, i loro margini di eversione, si affida a un elementare sostrato teorico – il rifiuto di ogni logica anti-materialista – che è però la matrice stessa di quello scandalo esistenziale che il romanzo vorrebbe denunciare. Così, alla fine, chiudi il libro e te lo ricordi come un'occasione sprecata. C'è bisogno di praticare un altro gioco, di altre regole, per raccontare ancora gli operai e tutta la loro incandescenza imprevedibile.
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di Jacopo Guerriero


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