“Il calcio non è ammesso dal Corano”, al Qaida contro i Mondiali

Redazione

Quando alla fine del 2009 scoppiò la prima guerra del football tra Algeria ed Egitto, la galassia jihadista non diede peso agli eventi. Eppure la conquista del biglietto per il Sudafrica da parte dell'Algeria a spese dell'Egitto innescò una serie di incidenti e scontri tanto gravi da culminare in una crisi bilaterale che non migliorò nemmeno con la rivincita egiziana alla Coppa d'Africa due mesi dopo.

di Fabio Nicolucci

    Quando alla fine del 2009 scoppiò la prima guerra del football tra Algeria ed Egitto, la galassia jihadista non diede peso agli eventi. Eppure la conquista del biglietto per il Sudafrica da parte dell'Algeria a spese dell'Egitto innescò una serie di incidenti e scontri tanto gravi da culminare in una crisi bilaterale che non migliorò nemmeno con la rivincita egiziana alla Coppa d'Africa due mesi dopo. Oggi costretto ad inseguire più che a determinare l'agenda internazionale, con l'avvicinarsi della coppa del Mondo il jihadismo ha cambiato rotta. Lo scorso maggio il gruppo Stato Islamico dell'Iraq rivendica l'attentato allo stadio di Tal Afar con 25 morti, e al Qaida del nord Africa minaccia un attacco – poi smentito, però dopo 15 giorni di pubblicità – alla coppa del Mondo e alle squadre occidentali. Qualche giorno fa, in Somalia, due persone vengono uccise da un gruppo jihadista perché sorprese a vedere Germania-Australia. Così, dopo tanta pratica, ora è arrivata anche l'interpretazione teorica secondo la legge islamica. L'occasione per una vera e propria fatwa è data da un post sul sito jihadista “il pulpito del monoteismo e del jihad” di un fedele, tormentato sulla liceità di guardare le partite in corso in Sudafrica. Ciò che turba l'animo dello scrivente non sarebbe tanto il gioco in se stesso, quanto ciò che di mondano lo circonda – dato che “si vedono delle donne svestite, e ci sono anche tamburi e suoni musicali” – e per questo chiede lumi.

    Magari anche una rassicurazione,
    e il beneplacito a guardarsi qualche partita in pace. Arrivano invece saette, con una fatwa che stronca ogni possibile fruizione di tale spettacolo. Non solo infatti il contesto nel quale si svolge sarebbe sacrilego, ma è proprio il gioco in sé a non essere islamico: il calcio potrebbe distrarre dal rispetto delle cinque preghiere giornaliere e si configurerebbe come una specie di gioco d'azzardo, dato che  i giocatori sono pagati in modo diverso e non secondo il numero dei goal. Ma la diffidenza del giureconsulto jihadista è prima di tutto ideologica: intanto il calcio non è tra le tre forme di competizione ammesse dal Corano, cioè “le corse di cavalli, di cammelli, e il tiro con l'arco, permesse perché possono essere utili anche in guerra”, e poi  “queste gare sono inventate dai nostri nemici per distrarci dal jihad verso di loro”. Questa proibizione di un gioco così popolare anche tra i musulmani rivela le difficoltà del progetto jihadista. Esse non datano però da oggi.

    Al Qaida fu infatti fondata in una riunione a Peshawar
    l'11 agosto del 1988, pronta a capitalizzare sull'imminente successo antisovietico, ma poi le cose andarono in modo differente. Proprio quando sembravano spalancarsi praterie per il crollo del comunismo intervenne la fitna della prima guerra del Golfo. Gli anni Novanta videro una velleitaria reazione jihadista, culminata però in quell'11 settembre 2001 che fu l'inizio della fine. O almeno, per dirla con il Churchill di El Alamein, “la fine dell'inizio”. L'efficace reazione iniziale mise infatti in grande difficoltà il jihad globale, che senza più casa in Afghanistan si trovò a tentare uno sbarco in territori difficili, prima il nord Africa e poi l'Europa. Territori dove si poneva il problema dell'uccisione di civili innocenti, e addirittura di musulmani. Dopo molte divisioni e defezioni – tra cui quella del capo jihadista libico Benotman e poi del saudita Salman Al-Qudah – lo stato di crisi arriva ufficialmente nel maggio 2007 con il libro “La Razionalizzazione del Jihad” di Sayyd Imam Al-Sharif. Meglio noto come dr. Fadl, Al-Sharif era presente a Peshawar l'11 agosto del 1988 ed è stato il mentore di Al Zawahiri e uno degli ideologhi della dottrina del “takfir”, cioè della liceità di equiparare a miscredenti – e dunque  uccidere – i musulmani che non sostenessero il jihad armato.

    Sotto il peso del crescente fallimento e isolamento,
    nel libro Fadl definisce il terrorismo e il jihad armato come non islamico se non in rare eccezioni, restituendo preminenza alla fede rispetto all'ideologia, in aperta conflittualità con “gli eroi di Internet e i leader del microfono”, che “incitano la gioventù”. Un vero fallimento politico, che questa fatwa non fa che suggellare: non solo perché – come beffardamente insinua un analista – “probabilmente di fronte alla scelta tra il paradiso e il calcio il 90 per cento dei giovani arabi sceglierebbe il secondo”, ma soprattutto perché, come suggerisce un altro, “siamo fortunati ad avere nemici che provano a costruire un movimento di massa mentre allo stesso tempo si oppongono allo svago popolare”.

    di Fabio Nicolucci