La marea nera di Bp è come l'onda lunga della crisi subprime

Marco Valerio Lo Prete

Di fronte alla macchia nera di petrolio che dallo scorso 20 aprile continua ad allargarsi sul mare del Golfo del Messico, regge sempre meno il paragone con l'uragano Katrina che nel 2005 investì New Orleans, suscitando polemiche in abbondanza sulla gestione della successiva emergenza. Gli osservatori, adesso, pensano piuttosto a un parallelo tra la marea nera e la crisi finanziaria globale.

    Di fronte alla macchia nera di petrolio che dallo scorso 20 aprile continua ad allargarsi sul mare del Golfo del Messico, regge sempre meno il paragone con l'uragano Katrina che nel 2005 investì New Orleans, suscitando polemiche in abbondanza sulla gestione della successiva emergenza. Gli osservatori, adesso, pensano piuttosto a un parallelo tra la marea nera e la crisi finanziaria globale. Anche il mutato atteggiamento della Casa Bianca testimonierebbe l'avvenuto salto di qualità nell'immaginario collettivo: ieri l'Amministrazione ha lanciato un ultimatum a Bp, il colosso inglese che gestisce la piattaforma al largo delle coste americane, perché sveli entro 72 ore i piani dettagliati di come intende fermare definitivamente la perdita in mare. Due giorni fa  era stato il presidente in persona, Barack Obama, a intervenire in maniera tranchant:  “Voglio sapere i nomi di chi prendere a calci nel sedere”. Toni inusitati, che ricordano appunto quelli dei momenti più bui della crisi finanziaria, quando Obama, nel dicembre 2009, sorprese tutti dichiarando di non essere stato eletto per soddisfare i bisogni dei “gatti grassi della finanza”.

    Si dice “Golfo del Messico” e si pensa a “Wall Street” pure nelle redazioni dei maggiori quotidiani americani: “Quando un evento è difficile da immaginare, tendiamo a sottostimare la possibilità che avvenga – ha commentato David Leonhardt sul New York Times – si tratta del proverbiale ‘cigno nero'”. Lo stesso esemplare di uccello, rarissimo, utilizzato dall'economista Nassim Taleb per dare un'idea di quanto fosse inattesa la recessione globale. Tanto inattesa che ancora nel 2005 un economista del calibro di Ben Bernanke, attuale governatore della Fed e allora consigliere economico del presidente George W. Bush, sosteneva che non  si correvano pericoli: “Non abbiamo mai avuto un declino dei prezzi degli immobili su scala nazionale”. Successe però soltanto un anno dopo, e fu l'inizio ufficiale della crisi dei mutui subprime. Amplificata, ha notato qualcuno, dal fatto che nel 1999 il Congresso ritenne di dover abbattere ogni muro divisorio tra le attività delle banche commerciali e quelle delle banche di investimento. E una “leggina” incriminata, qualcuno, l'ha già rintracciata anche nella vicenda del Golfo del Messico: “In una norma passata quasi inosservata e contenuta in una legge votata nel 1990 dopo l'incidente della petroliera Exxon Valdez – ha scritto il New York Times – il Congresso ha fissato un tetto massimo per i costi delle operazioni di pulizia cui sono tenute le società responsabili degli incidenti”. Ma con una garanzia del genere a disposizione – ha osservato tra gli altri Michael Greenstone, economista al Mit di Boston – la propensione al rischio non può che aumentare, finendo per distorcere il processo decisionale degli operatori.

    Proprio su questo punto l'economista Giulio Sapelli, parlando con il Foglio, si spinge oltre il semplice “parallelo” tra crisi globale e incidente nel Golfo del Messico: “Le cause di quanto accaduto oggi sono essenzialmente le stesse che sono all'origine del crollo di Wall Street: se l'unico fine dell'impresa diventa la distribuzione di dividendi grazie all'aumento del valore delle azioni, se la gestione societaria è sempre e soltanto orientata al brevissimo termine, i risultati sono questi”. Per scavare e operare a migliaia di metri sotto il livello del mare, ragiona Sapelli, “non si può ricorrere a soggetti poco stimati, soltanto perché si intende risparmiare e gonfiare le trimestrali”. L'esito altrimenti è ormai prevedibile: in un caso le Borse mondiali hanno bruciato miliardi di dollari di ricchezza, nell'altro Bp rischia di esaurire in pochi mesi un giacimento che altrimenti sarebbe durato decenni.

    Alcuni poi stanno già riflettendo sui contraccolpi che ci saranno per il gruppo petrolifero britannico. Bp diverrà un nuovo capro espiatorio per l'opinione pubblica come è successo per Goldman Sachs nel corso della recessione? A giudicare dal tipo di copertura mediatica di questi giorni sembrerebbe di sì. Ha spiegato infatti Rob Cox, analista della Reuters, che “l'opinione pubblica preferisce odiare un cattivo alla volta”: se fino al 19 marzo il nome “Toyota” era di gran lunga quello più di frequente associato sui giornali alla parola “scandalo”, il primato è poi passato a Goldman Sachs, colpevole di aver nascosto ai propri clienti gli aspetti più rischiosi di alcuni investimenti. La banca d'affari è rimasta sul rogo mediatico fino al 19 aprile, dopodiché è toccato a Bp il primato di pubblicità negativa gratuita. E al gruppo petrolifero potrebbe andare persino peggio, considerato che già oggi ci sono richieste di risarcimento per 48 milioni di dollari, una cifra pari a tre volte i suoi profitti annuali. Continuando il parallelo con il crac finanziario, però, Bp potrebbe finire addirittura come Lehman Brothers. Non è un caso che ieri anche Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, abbia dovuto smentire qualsiasi interesse della società italiana per gli asset del gruppo inglese.

    Ma se la marea nera ricorda il tonfo di Wall Street, e non semplicemente un evento accidentale a enorme impatto ambientale, è soprattutto per quel che potrà avvenire nei prossimi mesi: “Trovare un equilibrio tra tecnologia, complessità e regolamentazione rappresenta una delle maggiori sfide del XXI secolo”, ha scritto l'economista di Harvard Kenneth Rogoff in un articolo sulle “lezioni da trarre” dal caso Bp, altrimenti accadrà quel che sta avvenendo per il settore finanziario, che “già lancia l'allarme su un eccesso di regolamentazione, sostenendo che potrebbe produrre l'effetto non voluto di limitare fortemente la crescita”. Il rischio di una normativa sovradimensionata, secondo Sapelli, effettivamente esiste: “Se per l'economia la soluzione non dev'essere quella del ‘neopatrimonialismo' statale, allo stesso modo in campo energetico non abbiamo bisogno di un eccesso di regole e divieti per soddisfare le nostre esigenze senza distruggere l'ambiente”.

    Considerato che ancora per molti anni il 90 per cento dell'energia continuerà a venire da idrocarburi fossili, conclude il professore dell'Università di Milano, “serve piuttosto una più impetuosa rivoluzione tecnologica capitalistica in ognuno dei settori decisivi per la tutela dell'ambiente”. Ritorno alla “frugalità manageriale”, autoregolamentazione e maggiori investimenti: secondo Sapelli la ricetta per evitare un'altra marea nera potrebbe essere simile a quella per una finanza più sostenibile.