Girotondo intorno a Steve Jobs
Due giorni fa, parlando a una conferenza organizzata dal Wall Street Journal, ha dichiarato di non volere "che ci trasformiamo in una nazione di blogger", di credere "nei media e nei contenuti delle notizie" e ha detto di pensare che "oggi la gente voglia pagare per avere i contenuti". Il Foglio.it ha chiesto a sette blogger di rispondere al fondatore della Apple in poche righe. In questi giorni seguiranno altri articoli, riflessioni e interviste sull'argomento.
Leggi Evviva Steve Jobs
Due giorni fa, parlando a una conferenza organizzata dal Wall Street Journal, ha dichiarato di non volere "che ci trasformiamo in una nazione di blogger", di credere "nei media e nei contenuti delle notizie" e ha detto di pensare che "oggi la gente voglia pagare per avere i contenuti". Il Foglio.it ha chiesto a sette blogger di rispondere al fondatore della Apple in poche righe. In questi giorni seguiranno altri articoli, riflessioni e interviste sull'argomento.
Massimo Adinolfi - giornalista, filosofo, blogger (Azioneparallela)
Si pagano le persone, ahimé, non vedo perché non si debbano pagare le notizie. Non vedo nemmeno però perché escludere che possa comunque esistere un mondo di contenuti di qualità non a pagamento. Perché escludere che un'università, ad esempio, che eroga contenuti, possa avere interesse a far circolare il sapere (per averne un ritorno in termini di prestigio, di marchio, ecc.). Perché escludere che possano sussistere entrambi i canali. Credo poi che le parole di Jobs non siano state ben tradotte: è un uomo intelligente, non può aver detto che la gente vuole pagare. La gente può al massimo essere disponibile a pagare, e sempre a condizione che pagando ottenga un servizio migliore che non pagando. Non è detto che sia sempre così, e non è detto che per certi usi la rete non supponga una condizione di libertà di accesso, mentre per altri invece no. Così peraltro è anche nel mondo reale: non vedo perché dovrebbe essere diverso nel mondo virtuale. Mi pare una scemenza solo la frase: non voglio una nazione di blogger. Come se qualcuno, essendo un blogger, non potesse poi essere anche mille altre cose. Avrebbe detto Jobs: non voglio un mondo di persone che ha la macchina da scrivere o che usa la macchina da scrivere per tenere un diario? (Io poi diffido delle svolte epocali e dei tornanti storici: ci sono, ma non è detto che si rendano visibili in tutti i loro effetti, e non è detto nemmeno che sarebbe un bene se si rendessero tali).
Michele Boroni – giornalista, blogger (emmebi)
La questione sull'iPad è interessante e il posizionamento e l'opinione di Jobs non sono mai state così tranchant come adesso.
Come avevo scritto, mai prima d'ora Jobs si era rivolto direttamente ad una categoria differente dai consumatori finali.
Jobs ha capito che l'iPad può diventare un'ancora di salvezza dell'editoria che non è riuscita a intercettare a dovere l'innovazione del web. E quindi si schiera fortemente anche contro Google che invece ha cavalcato l'onda della rivoluzione compiuta da internet.
Perchè iPad non è una rivoluzione ma, pur nella sua tecnologia sofisticatissima, è un notevole passo indietro.
Voglio dire, noi in questi anni con i nostri netbook, palmari e mobile abbiamo goduto e ci siamo ben abituati all'informazione in tempo reale: andare sul sito e leggere le breaking news. Le applicazioni dei giornali su ipad invece sono statiche, presenti solo con le notizie del mattino. Visualizzate in modo sexy e bellissimo. Ma sono notizie "vecchie". Devi andare in rete, su internet, per avere degli aggiornamenti
. E per me questo è un passo indietro.
Continuo a dire che la vera novità (e, diciamolo, figata) sarà quando iTunes Italia potrà commercializzare film e serie tv.
Quindi non me la sento di dire che l'iPad è il male, perchè è un oggetto straordinario, ma, da utente, dico che sull'editoria è un passo indietro rispetto al Web.
Paolo Ferrandi – giornalista, blogger (Paferrobyday)
Non sono sicuro che l'iPad sia la soluzione al problema che assilla i giornali da parecchi anni, cioè trovare un modo perché lo sforzo che si fa per fornire le notizie ai lettori sia pagato il giusto. Sulla rete il modello che funziona è quello della gratuità perché la rilevanza degli articoli viene decisa dai link e dal peso assegnato a questi dagli algoritmi dei motori di ricerca. Finora gli unici tentativi che sono stati fatti per far pagare le news si sono dimostrati fallimentari, almeno per quel che riguarda l'informazione non settoriale (l'informazione economica è da sempre a pagamento e questo spiega le eccezioni di WSJ e FT). Qual è la specificità dell'iPad che potrebbe far accettare la non gratuità dei contenuti? In sintesi il fatto che il sistema operativo dell'iPad permette pagamenti incrementali e il fatto che la app di una testata è un sistema chiuso e quindi una volta scelta non è facilmente sostituibile con un prodotto fungibile, ma gratuito. E' possibile che funzioni? Dipende dalle leve del marketing e quelle di Apple sono particolarmente sofisticate. Ma c'è un limite anche al masochismo dei consumatori.
Mauro Garofalo – giornalista, blogger (Generazione X 2.0)
Apple e Google sono due mondi complementari e auto-rappresentativi. Perfetti per la versione New World del tanto agognato, e temuto, Terzo Millennio. Apple con le sue applicazioni a pagamento, con il volto serio e manageriale di Steve Jobs, si è resa portavoce di un target freak-chic in cerca di status sociale, mainstream ma serio, eclettico ma marketing oriented. Google, dismessa ormai evidentemente la prima versione di se stesso (Don't be evil, "Non siate cattivi") è passato alla più efficace posizione dominante di "Primus motor", primo motore di ricerca, capace di stoccare informazioni in modo monopolistico e preoccupante - tanto da aver ispirato un libro passato sotto traccia in Italia, Luci e ombre di Google (Feltrinelli). Modelli dell'informazione post-moderna, questi due colossi della comunicazione sono i lati opposti di un sottotesto non esplicito. La questione delle notizie a pagamento è un falso obiettivo, per dirla con gli psicologi. E il "falso obiettivo" è concepire il lettore come consumatore, una volta ancora. I blog, non a pagamento, dove le notizie ci sono e in quantità infinita (è questo che non va giù a noi giornalisti, ormai ridotti all'osso da una Storia del giornalismo all'ennesimo giro di boa) non dovrebbero far riflettere sull'esigenza di controllare l'emissione di informazione. Ma piuttosto su "cosa" è notizia oggi. Su "come" deve essere data. E su "quali" canali. Il futuro non esiste. Esistono i media, e chi sceglie quel mestiere. Il giornalista è il "lupo" verso tutti i poteri. Compresi i poteri dell'informazione. Esercita il diritto/dovere di informare il lettore, guardando alla realtà. Che non è un'idea astratta, ma un accadere quotidiano. Il punto non è quanto limitare l'accesso delle informazioni attraverso il pagamento di somme (anche minime), il punto è il residuo della selezione delle notizie, la scrematura. E quella, per farla, non c'è bisogno di carta di credito. Ma di qualcosa che divisa tra molti, aumenta di valore (legge inversa del consumo). E si chiama "cultura".
Piero Macchioni - giornalista, blogger (Leibniz)
Dire "non voglio che ci trasformiamo in una nazione di blogger" può significare tante cose. Se Jobs intendeva criticare il sensazionalismo, l'indignazione permanente e, talvolta, l'assenza di verifiche che accompagnano certe modalità di comunicazione via internet, ha anche ragione: ma la stessa obiezione potrebbe essere fatta anche ai cosiddetti "media tradizionali" che oggi, per inseguire la velocità del web o aumentare la propria popolarità, spesso commettono i medesimi errori. La verità è che con internet aumenta la mole d'informazioni a nostra disposizione, quindi cresce ancora di più il bisogno di selezione e di verifica: è sempre stato quello uno dei compiti dei media (e la gente ha sempre pagato per avere questo servizio). L'altro è cercare notizie e raccontare storie e la Rete da questo punto di vista è una ricchezza (basti pensare a siti come wikileaks, dove arrivano documenti e scoop che non trovano spazio altrove). Comunque i blogger e i blog non sono da sottovalutare. Soprattutto in paesi dove la libertà di esprimersi, o solo di raccontare il proprio paese, è inesistente o molto limitata. Penso a Yoani Sánchez a Cuba o a Salam Pax, in Iraq, qualche anno fa.
Alberto Simoni – giornalista, blogger (Il mondo di Wolfie)
Io penso che sia fondamentale nei prossimi anni che le notizie su Web siano a pagamento. Il problema, piuttosto, è trovare un modo giusto per farle pagare, come la creazione di portafogli virtuali. Oggi i blogger nel 95 per cento dei casi rilanciano notizie già pubblicate dai maggiori siti di informazione, quindi il mito del blogger "scomodo e puzzone", come dice Jobs, è una figura mitizzata di fatto ricoperta da poche persone (quelle poche però, a quel punto, sono molto autorevoli). Quindi perché andare a rompere le uova nel paniere ai giornalisti, ai professionisti? Il problema del'ìinformazione, ad oggi, è quello di adeguarsi alle nuove tecnologie. E' giusto che si paghi un servizio: fino a pochi anni fa nessuno credeva che la gente avrebbe pagato per vedere la televisione, ad esempio, con Sky, eppure oggi è diffusissimo. Questo serve anche ad aumentare la credibilità e l'autorevolezza: basta guardare alle esperienze all'estero, e soprattutto oltreoceano. La carta stampata, per il momento, non morirà: credo che ci sia ancora bisogno di un periodo di transizione e di coesistenza, proprio per far sì che il Web raggiunga quel livello di affidabilità che ancora non possiede.
Carlo Stagnaro - giornalista, blogger (Chicago blog)
La rivoluzione di internet ci costringe a ripensare e ridefinire il nostro rapporto sia con la privacy, sia con le notizie. “Ripensare” e “ridefinire” non significa, di per sé, la fine della carta stampata o, più precisamente, del giornalismo professionale. Semmai, obbliga a un investimento in qualità. La libera diffusione delle informazioni e delle analisi genera un grande “rumore di fondo”. Diventa quindi cruciale, per il “consumatore di notizie”, poter contare su fonti affidabili, laddove affidabilità è sinonimo di reputazione. Per queste, c'è sicuramente una disponibilità a pagare per i contenuti. La differenza rispetto al passato è che i giornali devono fare i conti con la concorrenza insidiosa di internet: devono quindi offrire informazioni originali e approfondite, e cercare di sviluppare un'offerta che sia sempre più tailor-made sulle esigenze dei clienti. Se i giornali sapranno evolvere verso la produzione di contenuti di qualità, e se sapranno affermarsi come fonti credibili (cioè: più credibili delle alternative), hanno e avranno un grande futuro. La chiave, come in tutto, sta nella specializzazione e nella professionalità.
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