Labour e sbarchi
Così la politica australiana (a sinistra e a destra) prova a governare l'immigrazione
"Non saremo troppi nel 2050?". Ecco la nuova domanda che perseguita la politica e l'opinione pubblica in Australia.
Australia, Regno Unito e Stati Uniti: nei tre paesi “di immigrazione” per antonomasia, l'ingresso di stranieri all'interno dei confini nazionali torna in questi giorni a infiammare il dibattito politico. Ma Gordon Brown che bistratta un'ex elettrice del Labour definendola “bigotta”, o Barack Obama alle prese con una legge statale restrittiva sui clandestini, sono praticamente nulla rispetto a quello che sta accadendo in Australia. Qui il governo laburista di Kevin Rudd è per la prima volta “in minoranza” nei sondaggi, e i giornali – non dovendo affannarsi a parlare troppo dell'economia che è passata praticamente indenne attraverso la recessione globale – sollecitano politici e opinione pubblica su un tema quantomeno spinoso: fino a che punto potrà crescere la popolazione dell'isola-continente? L'immigrazione ovviamente è parte della risposta, in uno stato che soprattutto grazie all'arrivo di nuovi cittadini è passato dai 7,4 milioni di abitanti del 1945 agli attuali 22 milioni (se l'Italia fosse cresciuta agli stessi ritmi, oggi saremmo 130 milioni). Anche perché sessant'anni fa Laburisti e Liberali erano d'accordo su un punto: “L'Australia o si popola o muore”. Ma 14 milioni di abitanti dopo, la convinzione non è più la stessa.
“Oggi il dibattito è a una svolta – dice al Foglio Katharine Betts, docente alla Swinburne University of Technology di Melbourne e una delle massime studiose nazionali di questioni demografiche – paradossalmente sono stati i Laburisti a sollevare un tema scomparso dall'agenda della politica ufficiale. Prima il governo ha detto di prevedere che la popolazione raggiungerà i 36 milioni di abitanti da qui al 2050; poi un esponente dello stesso esecutivo, Ken Henry, si è detto ‘preoccupato' per gli effetti che questo incremento avrà sulle risorse ambientali del paese, presto smentito dal premier Rudd che ha detto di approvare l'idea di una ‘Grande Australia'”. Uomini di partito e analisti d'un tratto tornano a parlare della politica d'immigrazione dal governo Laburista, che nel 2009 ha portato al record di 285 mila “arrivi da oltremare”, come li chiamano a Canberra.
E i cittadini cosa ne pensano? La professoressa Betts, che da anni studia le oscillazioni dell'opinione pubblica in materia, anticipa al Foglio i risultati di un'indagine svolta su scala nazionale dai maggiori atenei dei paese: “Alla domanda ‘Ritieni che l'Australia abbia bisogno di un numero maggiore di persone?', il 69 per cento degli intervistati risponde negativamente. Tra questi, il 24 per cento spiega: ‘Dobbiamo adoperarci perché la nostra forza lavoro sia qualificata, prima di attirare forza lavoro qualificata dall'estero', respingendo così una delle principali argomentazioni che dagli anni 70 in poi è stata addotta a sostegno di un elevato flusso migratorio”. Un altro 43 per cento della popolazione, anche se con argomentazioni differenti tra loro, si dice preoccupato per la sostenibilità “ambientale” di una eccessiva crescita demografica. “Soltanto il 10 per cento degli intervistati – nota Betts – dice di non volere ulteriore diversità culturale, a riprova che il ‘razzismo' non è la motivazione principale delle critiche alle politiche attuali”.
Da quando l'argomento è all'attenzione dei media, le conseguenze politiche non mancano: lo scorso mese il governo ha creato un dicastero ad hoc “per la popolazione”; non solo, uno degli imprenditori più ricchi e in vista del paese – Dick Smith - ha fondato un nuovo partito il cui nome è un programma elettorale, “Stable population party”, il Partito per una popolazione stabile. “Senza contare le critiche dei Liberali sulla questione degli sbarchi di clandestini – nota Betts – il governo Rudd ha reso più ‘umane', a suo modo di vedere, le regole per fronteggiare gli arrivi dal mare, e il messaggio si è subito diffuso tra i trafficanti di esseri umani”. Risultato: le carrette del mare, bloccate dal precedente governo liberale, hanno ricominciato a salpare i mari: “Seimila arrivi in meno di tre anni. Sono numeri irrisori rispetto al flusso complessivo, ma bastano perché l'opinione pubblica sia meno ben disposta nei confronti degli immigrati di quanto non fosse in precedenza con i conservatori al governo”. Un paradosso? “Niente affatto – conclude Betts – perché allora la disoccupazione era ai minimi; il governo non sosteneva il multiculturalismo, inteso come separatismo etnico, e una politica ferma sugli sbarchi faceva sembrare che tutto fosse sotto controllo”.


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