Guarda che Maxxi gallery

Sandro Fusina

Chi, a Roma, al quartiere Flaminio, risalisse via Guido Reni, venendo dal Tevere, e camminasse sul marciapiede di destra con il naso all'aria, attratto dalla imponente torre campanaria e dai mosaici scintillanti d'oro della cimasa della basilica (minore) della Santa Croce a via Flaminia, vedrebbe all'improvviso spuntare un cubo sghembo.

    Chi, a Roma, al quartiere Flaminio, risalisse via Guido Reni, venendo dal Tevere, e camminasse sul marciapiede di destra con il naso all'aria, attratto dalla imponente torre campanaria e dai mosaici scintillanti d'oro della cimasa della basilica (minore) della Santa Croce a via Flaminia, vedrebbe all'improvviso spuntare un cubo sghembo dal tetto di uno della teoria di vecchi edifici a un piano che tutti uguali accompagnano il viandante sui due lati della via. Se si eccettuano la basilica e l'altissimo campanile, via Guido Reni ha conservato per un buon tratto il profilo basso e orizzontale delle strade (allora periferiche) che nelle città del mondo all'inizio del secolo scorso ospitavano capannoni di fabbriche e magazzini.

    La doppia sfilata degli edifici suggerisce che si trattava, anzi si tratta di caserme. Sul lato sinistro la monotonia orizzontale dei vecchi edifici è rotta dalla basilica neo ravennate della Santa Croce e dal suo altissimo campanile. Basilica e campanile (edificati all'inizio del secolo scorso dall'impresa dell'ingegner Maraini, uno dei costruttori venuti dal nord del regno, se non addirittura dal Cantone Ticino, a disegnare il volto di quella Roma che prese convenzionalmente il nome da Umberto, il re buono e assassinato) segnalavano ai pellegrini che dall'Adriatico scendevano a Roma lungo la via Flaminia che erano arrivati finalmente nella città santa. Ma la tranquilla orizzontalità dei tetti di caserma è turbata ora da una nuova intrusione, da un cubo incongruo, senza finestre e aperture, che sembra spuntato all'improvviso dal suolo, a rompere la simmetria della via, come se un enorme cristallo sbilenco di pirite fosse stato spinto su da forze telluriche incontenibili. L'effetto è piuttosto strano. Ricorda la presenza di certe manichini incongrui nelle piazze metafisiche di De Chirico o certi piccoli disegni, già astratti, di Atanasio Soldati.


    Per scoprire di cosa si tratti bisogna fare ancora qualche passo. Quel cubo, innestato nel vecchio parallelepipedo vuole essere, da un punto di vista visivo e concettuale, l'elemento di raccordo tra il tessuto edilizio preesistente e un nuovo edificio nascosto dalle stecche di case sulla via. Vuole essere un punto di raccordo, incongruo secondo la poetica dello spaesamento surrealista, tra il nuovissimo museo nazionale delle arti del XXI secolo (ormai conosciuto come Maxxi) e il tessuto originario del quartiere. Il Maxxi è una grande opera (e necessaria), tutta pubblica, tutta statale, conclusa praticamente nei tempi previsti. Sarà il grande museo italiano, anche se verosimilmente non grande abbastanza per le sue ambizioni, dedicato all'arte contemporanea e all'architettura dell'ultimo mezzo secolo. Con la missione di raccogliere le esperienze più vive e significative dell'arte internazionale dei nostri tempi insieme ai progetti di alcuni tra gli architetti più innovativi dell'ultimo mezzo secolo, a partire da Pier Luigi Nervi per arrivare a Carlo Scarpa e Aldo Rossi, diecimila metri quadrati di spazio espositivo non sembrano molti, soprattutto se si tiene in mente una certa propensione al gigantismo degli artisti contemporanei. I metri quadrati coperti sono un po' più di ventunmila, di cui seimila dedicati ai servizi e agli annessi (auditorium, bibliomedioteca, caffetteria, ristorante ecc.) più un grande auditorium interno.

    Alla fine ogni metro quadrato è costato settemila euro (il costo è perfettamente nella media degli edifici consimili, fa notare il presidente del museo, Pio Baldi: cinquecento euro in meno del Guggenheim di Bilbao, cinquecento in più della Tate Modern di Londra). Il progetto che vinse il concorso internazionale è firmato da Zaha Hadid, l'esuberante architetto iracheno, nota per alcuni primati. Zaha Hadid non è solo una delle pochissime donne architetto ad avere firmato grandi progetti e vinto importantissimi concorsi internazionali. E' anche l'unica ad avere vinto il premio Pritzker, considerato il Nobel dell'architettura. Se ci si immagina l'architetto donna sul cantiere in comodi abiti maschili, non ci si può fare un'idea di Zaha Hadid, che invece preferisce anche sui cantieri fare ondeggiare la lunga chioma nera su tacchi definiti da chi l'ha vista al lavoro vertiginosi. La professoressa Hadid (classe 1950) è nata e ha passato l'infanzia in Iraq, in una famiglia di ricchi intellettuali, quando Baghdad, non ancora conquistata dal partito Baath, si proponeva come esempio, seguito con interesse dall'occidente, di evoluzione democratica e di modernizzazione sociale per il vicino e medio oriente. Ha studiato in collegi esclusivi in patria e in Svizzera, si è laureata in architettura all'Università americana di Beirut, ha studiato architettura a Londra. A Londra ha lavorato con i suoi maestri Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis, per avviare poi una sua practice, un suo studio. Ha insegnato ad Harvard sulla cattedra che era stata di Kenzo Tange, a Chicago sulla cattedra intitolata a Louis Sullivan, il padre riconosciuto dell'architettura moderna.

    Ha guadagnato premi e fama come architetto di interni, ha prestato la sua inventiva al disegno di moda, in particolare ha disegnato eccentriche scarpe da donna, in polivinilcloruro, senza tacco, con tacco basso, medio, alto, altissimo, per la tradizionalista Lacoste e la futurista Melissa, brasiliana. I suoi progetti realizzati in giro per il mondo sono ormai numerosi, ma forse non sono ancora altrettanto numerosi di quelli non realizzati, che hanno finito per incepparsi, per essere protestati. La sua intransigenza con collaboratori, esecutori e committenti è diventata proverbiale. Vedere il Maxxi uscire dalla sue mani completo e pronto all'uso deve essere stato per la committenza, per il ministero dei Beni culturali, cioè, un sollievo. Poterlo visitare come un'opera d'arte in sé, in cui ci si può muovere, passeggiare, chiacchierare, mentre è ancora vuoto, prima che siano sistemate le collezioni, e le opere degli artisti non distraggono dalle forme dell'edificio, è un privilegio.

    Se, oltrepassato il cubo incongruo di cui si diceva, si risale per una ventina di metri via Guido Reni, ci si trova davanti a un semplice cancello abbastanza sobrio e anonimo per intonarsi perfettamente con le stecche di baracche militari della via. Sembrerebbe il cancello di una fabbrica, invece è uno dei due ingressi al terreno del museo. L'altro è su via Masaccio, la prossima trasversale di via Flaminia parallela a via Reni. Tra queste vie, che poco avevano di artistico, anche se erano dedicate a due grandi artisti del passato, si apre una piazza dedicata a un artista contemporaneo. La piazza non esisteva: tra via Masaccio e via Reni non c'era comunicazione. Le due strade, una via di fabbriche, e una via di dignitose case popolari anteguerra, scendevano ignorandosi verso il Tevere senza mai incontrarsi. La nuova piazza era il terreno di una fabbrica di autoveicoli militari. La nuova piazza con una soluzione felice determina una nuova fisionomia del quartiere. Un referendum ha indicato il nome di Alighiero Boetti come l'artista italiano, contemporaneo e scomparso di recente (2004), più amato. Piazza Boetti, che sarà chiusa tra due cancelli solo a notte fonda, costituirà un nuovo snodo di un percorso nella nuova Roma monumentale del quartiere Flaminio. Un sentiero luminoso metterà in comunicazione il Maxxi con l'Auditorium di Roma, distante solo poche centinaia di metri, facendo del Flaminio il quartiere monumentale della musica, dell'architettura, delle arti visive e plastiche e dello sport.

    Su piazza Boetti si aprono due edifici.
    Uno, un vecchio parallelepipedo restaurato della fabbrica militare ospiterà al primo piano gli uffici della fondazione e al piano terra la biblioteca e la medioteca, oltre agli spazi commerciali, articolazioni ormai indispensabili di un museo: un bookshop e un bar ristorante. Descrivere con i mezzi della geometria euclidea la pianta del museo vero e proprio è invece impossibile. Visto in pianta o dall'alto la figura che l'intreccio dei tre livelli ricorda di più, con un pancia e un becco, è quella dell'alambicco dell'alchimista.
    La sera i cui Pio Baldi ci ha accompagnato in una visita magica, il Maxxi non era neppure completamente vuoto. Stava per cominciare nell'auditorium la presentazione del primo volume del catalogo generale dell'opera di Alighiero Boetti (ancora lui). In un grande edificio la presenza di alcune figure umane aumenta, invece di eliminare l'effetto di grande spazio vuoto. Poche figure che si muovono in una grande struttura aiutano non solo a mettere a fuoco particolari che altrimenti sarebbero inghiottiti dallo spazio, ma a percepire il senso stesso dello spazio, come in un'acquaforte antica, in cui la figura minuscola in un angolo aiuta a sentire la vastità del paesaggio o la potenza delle forze della natura. L'impressione di muoversi all'interno di un acquaforte è molto vivida al Maxxi. E' un'acquaforte molto contrastata, dal nero pieno e profondo delle zone dove la vernice nera finge un'inchiostratura più pesante, alle zone rivestite di un cartongesso che evoca il bianco della carta. Ma a legare i due estremi, a fare da fondo, è il grigio smorzato delle strutture portanti. Confermano l'impressione i tondi scanditi in modo regolare sulla superficie, come di teste di chiodi o di cavicchi usati per inchiavardare alla parete lastre di metallo. E' un altro gioco del progetto. Quelle pareti sembrano, ma non sono rivestite di metallo.

    Sono di cemento nudo, anche se non grezzo. La levigatezza e la lucentezza del metallo sono ottenute con un procedimento molto raffinato di formatura dei pilastri. Invece delle solite assi rozze, per i cassoni sono state usate assi levigate, ben connesse, in modo che i pilastri, solidificando, acquistassero in superficie una texture omogenea, metallica, di quel colore del piombo patinato dal tempo che segnala in tutto l'edificio l'affiorare delle strutture portanti. Il motivo dei falsi chiodi, che conferisce a quegli elementi strutturali l'aspetto del metallo, non è un'aggiunta decorativa, ma il prodotto del processo di lavorazione. Affinché le gabbie di legno per la colatura del cemento restassero bene in asse, i cassoni erano trapassati a distanze regolari da sbarre che hanno lasciato nel cemento un motivo di segni tondi, come di chiodi. In omaggio forse involontario all'arte povera, la poetica che meglio ha caratterizzato le arti visive italiane negli ultimi decenni del secolo scorso, Zaha Hadid ha scelto di costruire il Maxxi solo con materiali poveri, traendo così dal ferro delle ringhiere e delle griglie come dal cemento dei pilastri il miglior partito estetico. I materiali poveri non hanno bisogno di troppa manutenzione e con il passare del tempo mostrano meno i segni dell'usura e di materiali nobili come i legni rari e gli ottoni, o di invecchiamento, come i materiali plastici.

    Il trasferimento da uno all'altro dei tre livelli avviene in modo dolce, quasi insensibile, lungo un nastro che è la stessa galleria di esposizione. L'unica scala importante di tutto il complesso attraversa con il suo segno nero e netto l'atrio, dal secondo al terzo livello. A guardarla dal basso sembra salire nel nulla. “Come in un disegno di Maurits Escher”, buttiamo lì. “O come in una delle incisioni di Giovan Battista Piranesi della serie delle carceri d'invenzione”, suggerisce Pio Baldi, con maggior pertinenza, trovandoci noi in un'acquaforte, e a Roma, per giunta.
    Passeggiare nel Maxxi quando ancora non sono sistemate le collezioni permette di apprezzare gli organi di condizionamento. Un museo oggi è anche una macchina che respira con l'ambiente circostante. Nel Maxxi la luce naturale entra anche da una grande vetrata, ma soprattutto da lucernari lineari che corrono lungo il soffitto. Ma la luce, se dà vivacità alle opere d'arte, ne mina la salute. Non c'è nulla che faccia tanto male ai disegni e alle fotografie quanto l'esposizione alla luce diretta. Per dosare l'ingresso della luce a seconda della luminosità esterna è congegnato un sistema di schermi lamellari che cambiano inclinazione a seconda delle necessità. Come ogni altra soluzione tecnica , comprese le rotaie per appendere le opere, il sistema di dosaggio della luce diventa un elemento essenziale del disegno. All'imbrunire poi, le luci interne si riflettono sulla grande vetrata che dà sulla piazza, per allacciarsi al disegno delle luci esterne.
    Non manca che sistemare le opere. Il museo ne possiede già trecento, dei più importanti artisti contemporanei, italiani e straneri, da Boetti a Wharol, in ordine alfabetico. Vuoto, il Maxxi ci è sembrato bellissimo. Come ci sembrerà nell'esercizio delle sue funzioni?