Conciliaboli sul celibato dei preti
Se non fosse stato per l'obbligo del celibato, casi di preti che abusano su minori non si sarebbero verificati. O comunque ce ne sarebbero stati molto pochi. Non lo dice soltanto il teologo sulla carta più antiratzingeriano di tutti, lo svizzero ribelle Hans Küng: per lui la regola del celibato è la “radice di ogni male”. L'hanno sottinteso a volte anche alcuni esponenti delle gerarchie della chiesa cattolica, quando in questi giorni hanno voluto ricordare che il celibato non è un dogma. Prima lo hanno detto. Poi hanno smentito.
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Se non fosse stato per l'obbligo del celibato, casi di preti che abusano su minori non si sarebbero verificati. O comunque ce ne sarebbero stati molto pochi. Non lo dice soltanto il teologo sulla carta più antiratzingeriano di tutti, lo svizzero ribelle Hans Küng: per lui la regola del celibato è la “radice di ogni male”. L'hanno sottinteso a volte anche alcuni esponenti delle gerarchie della chiesa cattolica, quando in questi giorni hanno voluto ricordare che il celibato non è un dogma. Prima lo hanno detto. Poi hanno smentito le proprie dichiarazioni perché le reazioni – l'ultima è di ieri della Conferenza episcopale italiana che nel comunicato di chiusura del Consiglio permanente ha ribadito che il celibato “non costituisce affatto un impedimento o una menomazione della sessualità” – si erano fatte veementi.
E' successo due giorni fa al cardinale emerito di Milano Carlo Maria Martini: “Occorrerebbe ripensare alla forma di vita del prete”, ha scritto in una lettera ai giovani austriaci ripresa dal settimanale austriaco Die Presse am Sonntag. “Intendevo sottolineare l'importanza di promuovere forme di maggiore comunione di vita e di fraternità tra i preti affinché siano evitate il più possibile situazioni di solitudine anche interiore” ha però precisato poco dopo Martini. In scia, anche l'arcivescovo di Salisburgo, Alois Kothgasser, ha detto la sua. Spiegando, senza tuttavia ritrattare, che “nella situazione attuale della chiesa, la domanda da porsi è se il celibato sia un modo appropriato di vivere per preti e credenti”. E ancora: “I tempi sono cambiati e la società è cambiata. La chiesa deve chiedersi in che modo può continuare a coltivare il suo particolare stile di vita, o cosa deve cambiare”.
“E' normale che in un momento come questo dove c'è chi attacca la chiesa per gli scandali legati alla pedofilia dei preti vi sia chi mette in dubbio il celibato” commenta il vaticanista Sandro Magister. “Ma non credo che oggi chi guida la chiesa voglia mettere in discussione il celibato. Per Ratzinger è ancora questo il tempo di un ‘corpo scelto' che stia nella battaglia abbracciando liberamente il celibato. Tra l'altro occorre dire una cosa: coloro che nella chiesa sono favorevoli all'abolizione non vengono mai fuori nei momenti che contano”. Cioè? “Nei recenti sinodi dei vescovi si è toccato il tema del celibato. Qualcuno ne ha parlato. Ma, paradossalmente, sono stati i rappresentanti di chiese che hanno esperienza di preti sposati, come gli orientali, a dire che l'abolizione del celibato non risolve nessun problema, anzi a guardare la vita di tutti i giorni dei preti sposati, stretti tra famiglia e vita di chiesa, li amplifica”.
Una riflessione diversa la fa un martiniano doc, don Giovanni Nicolini. Mantovano, fu a Bologna che conobbe e frequentò Giuseppe Dossetti. Quindi la lunga amicizia con il cardinale Martini che l'ha sostenuto nel progetto di fondazione della comunità le Famiglie della Visitazione. Dice che “la prospettiva non è quella dell'abolizione del celibato sacerdotale, ma quella dell'ordinazione presbiterale di uomini sposati”. “In questo” spiega “ci è di guida la tradizione dell'oriente cristiano. C'è anche un cristianesimo ortodosso, e quindi di rito orientale, legato alla chiesa cattolica romana, che come tale prevede il ministero di uomini sposati che vengono ordinati preti. E questo a fianco di uomini consacrati alla verginità che tali restano. Non si tratterebbe dunque di abolire qualcosa, ma di aggiungere qualcosa”. Certo, “occorrerebbe una grande riflessione dentro la chiesa: sulla condizione della donna, sul volto profondo della sua personalità, su domande delicate che si imporrebbero a donne che non potrebbero essere semplicemente ‘la moglie del prete', ma che dal ministero dei loro mariti verrebbero necessariamente molto coinvolte”.
Non ci sono soltanto le chiese orientali ad ammettere preti sposati. Con la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus dello scorso novembre, di fatto Benedetto XVI ha lasciato aperto un ulteriore spiraglio in questo senso. Dice infatti Luke Coppen, direttore del britannico Catholic Herald: “In Gran Bretagna nessuno lega il celibato alla pedofilia. Piuttosto il dibattito è focalizzato su quei preti anglicani ammessi dal Papa nella chiesa cattolica nonostante siano sposati. I critici verso il celibato dicono che è un'ingiustizia verso i preti cattolici non sposati. Mentre i sostenitori del celibato dicono che gli anglicani avevano ricevuto una dispensa temporanea”. E dunque il valore del celibato dei preti cattolici rimane immutato. Che sia o non sia in discussione, del celibato nella chiesa cattolica se ne parla, soprattutto da dopo il Concilio Vaticano II. Complice un generalizzato calo delle vocazioni, si è fatta più pressante e insistente la richiesta di risolvere la crisi accettando i preti sposati. Si dice: se c'è carenza di clero non si potrebbe e non si dovrebbe fare spazio ai laici e, tra questi, a coloro che pur sposati desiderano accedere all'ordinazione? E ancora: non è arrivato il momento di democraticizzare il sacerdozio e consentirne l'accesso ai laici?
Al fondo di queste domande pare però esserci il problema dell'identità. Qual è l'identità sacerdotale? Chi è il prete? Il cardinale tedesco Paul Josef Cordes, presidente del Pontificio consiglio “Cor Unum” ha dedicato all'argomento un recentissimo libro: “Perché sacerdote?” (San Paolo). O il sacerdote, dice, è definito in base alla “funzione” che ricopre nella chiesa, in base ai “servizi” che svolge, per cui ovviamente chiunque può sostituirlo nell'esercizio di tali funzioni (anche una donna o un uomo sposato), oppure la figura sacerdotale ha un'altra radice, il riferimento ontologico a Cristo: “La castità di Gesù include tutta una cristologia”, ha detto monsignor Angelo Amato, prefetto delle Cause dei santi, in un intervento che ha svolto il 4 marzo alla Pontificia Università della Santa Croce. E cioè: la fonte del celibato, ciò che lo giustifica e lo chiarisce, è la verginità di Cristo. In sostanza, come diceva il teologo belga Jean Galot, il sacerdote è “per mezzo del celibato che può appartenere più completamente a tutti gli uomini. Se non è entrato nella via del matrimonio e se si è rifiutato di fondare una famiglia, è perché ha voluto, per la sua vita e per il suo cuore, un'apertura più universale”.
Il contrario, insomma, di una visione funzionalistica del sacerdozio. Visione che, come ha detto ancora Cordes presentando il suo libro a Roma lo scorso 24 marzo, “corrisponde senz'altro indiscutibilmente a una sensibilità moderna”. Alfiere di questa visione è, più di altri, Küng. Il quale, dice Cordes, “propone argomenti popolari perché facilmente convincenti”. E ancora: è “molto abile nel mettere il dito nelle piaghe della chiesa, certo spesso e volentieri senza curarle”.
Dire che il celibato è stato messo in discussione, nei temi moderni, principalmente dopo il Concilio significa affermare una verità: non è del celibato dei preti che il Concilio ha voluto parlare. Non così avvenne precedentemente. Il celibato è una legge della chiesa latina che risale al 1139 ed è stata poi fissata dal Concilio di Trento. Venne fissata nonostante tanti preti vivessero in stato di concubinato. Anzi, probabilmente i padri conciliari la stabilirono proprio a motivo di questo stato di cose. Non così invece andò il Vaticano II. Del celibato non vollero parlare, ovviamente perché non lo ritenevano discutibile, né colui che aprì il Concilio, Giovanni XXIII, e nemmeno chi lo chiuse, Paolo VI. Certo, nel decreto “Presbyterorum ordinis” del dicembre 1965 del celibato si parla. Ma lo si fa per ribadirne l'importanza: “Con la verginità o il celibato osservato per il regno dei cieli”, recita il testo conciliare, “i presbiteri aderiscono più facilmente a Dio con un cuore non diviso, si dedicano più liberamente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini”. Un concetto poi ripreso da Paolo VI nella “Sacerdotalis caelibatus” del 1967, un'enciclica che in anni turbolenti e difficili per la chiesa cattolica, ripropone tutte le “ragioni” del celibato, “fulgida gemma che conserva tutto il suo valore anche nel nostro tempo”.
Sul tema torna più volte Joseph Ratzinger. Se già nel 1985 in “Rapporto sulla fede” dice allo scrittore Vittorio Messori che la crisi del sacerdozio è dovuta anche a uno smarrimento della sua identità – il sacerdote è un “alter Christus” – in favore di un ruolo basato principalmente sul consenso della maggioranza, è nel 1996, all'interno del “Il sale della terra” (un colloquio con Peter Seewald), che Ratzinger dice con disarmante semplicità un concetto che oggi molti teologi faticano a fare proprio: “Il celibato è legato a una frase di Cristo. Ci sono coloro, si legge nel vangelo, che per amore del regno dei cieli rinunciano al matrimonio e, con tutta la loro esistenza, rendono testimonianza al regno dei cieli. La chiesa è arrivata molto presto alla convinzione che essere sacerdoti significa dare questa testimonianza per il regno dei cieli”. E poi l'affondo: “La rinuncia al matrimonio e alla famiglia è da intendersi in questa prospettiva: rinuncio a ciò che per gli uomini non solo è l'aspetto più normale, ma il più importante. Rinuncio a generare io stesso vita dall'albero della vita, ad avere una terra in cui vivere e vivo con la fiducia che Dio è la mia terra. Così rendo credibile anche agli altri che c'è un regno dei cieli. Non solo con le parole, ma con questo tipo di esistenza sono testimone di Gesù Cristo e del Vangelo e gli metto così a disposizione la mia vita”.
Chi contesta Ratzinger dice che il Concilio offre una visione dell'identità del prete in discontinuità col passato. E che dunque questa discontinuità, questa nuova visione, vada valorizzata. Tra gli interventi più ascoltati del recente convegno teologico sul sacerdozio svoltosi alla Lateranense e organizzato dalla Congregazione per il clero c'è stato quello di Willem Eijk, arcivescovo di Utrecht. Il quale ha detto: “Il Concilio non ha introdotto una discontinuità nell'identità del prete”. Anzi, “grazie al Concilio la continuità dell'identità intrinseca non è affatto stata minata, ma al contrario salvaguardata in tempo. Il Concilio, conficcando i picchetti giusto in tempo, ha prevenuto che la crisi minasse in modo ancora più grave la consapevolezza dell'identità intrinseca del prete”.
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