Simone Veil (foto LaPresse)

Simone Veil all'Académie française, ma c'è chi la chiama Musa della morte

Marina Valensise

L’immortale e la legge sull’aborto. Qualche protesta c’è stata, ma in sordina, per l’ingresso di Simone Veil all’Académie française

Qualche protesta c’è stata, ma in sordina, per l’ingresso di Simone Veil all’Académie française. Magistrato, presidente del Parlamento europeo, membro del Consiglio costituzionale, questa splendida matriarca ottantatreenne è una delle personalità politiche più amate dai francesi. E lo scrittore Jean d’Ormesson, nel suo magnifico discorso di benvenuto, ha indicato le molte ragioni di quest’entusiasmo. Ma Simone Veil è anche il controverso ministro della Sanità di Valéry Giscard d’Estaing che nel 1975 ha depenalizzato l’aborto, e anche di questo D’Ormesson ha dato conto, pur con una visione culturalmente simpatetica, ricordando le contestazioni che investirono il ministro da parte di esponenti religiosi di diverse fedi e confessioni, per i quali la donna più apprezzata di Francia resta ancora oggi “la Musa della morte”. Per D’Ormesson “l’enigma” di Simone Veil risiede nel connubio di tradizione e modernità, nel suo spirito di indipendenza: “Femminista, ma custode della differenza di genere, paladina dei più deboli, ma contraria alla vittimizzazione, severa con sé e con gli altri nel rifiutare la Legion d’onore in modo implacabile: ‘Non basta essere finiti in un campo di sterminio per meritare una decorazione’”, ha ricordato con un discorso che ha rapito tutti, capo dello stato compreso.

 

Eletta nel novembre 2008, Simone Veil occupa il tredicesimo seggio che fu di Racine, di Loti, di Claudel, di Maurice Schumann e del gollista Pierre Messner, l’eroe della resistenza, divenuto negli anni Settanta il premier di Georges Pompidou e al quale Simone Veil ha dedicato la sua eulogia, letta con qualche incertezza. Dall’ingresso alla Coupole di Marguerite Yourcenar nel 1980, Simone Veil è la sesta donna ammessa a sedere fra i quaranta “immortali”, tanti sono i membri dell’Académie, dalla sua fondazione nel 1635, per volere del cardinale Richelieu, col compito di vegliare sulla lingua nazionale. E lei, che non è una scrittrice e nemmeno un’oratrice sensazionale, deve la sua elezione non solo all’insistenza della sovietologa Hélène Carrère d’Encausse, la studiosa che all’inizio degli anni Ottanta previde l’implosione dell’Urss, ma al rispetto e all’autorevolezza per una vita esemplare.

 

Nata in una famiglia di patrioti ebrei molto laici e assimilati, Simone Veil è la figlia di un famoso architetto parigino, André Jacob, che combatté i tedeschi nella Prima guerra mondiale, e decise poi di trasferirsi a Nizza. Sorpresa dalla disfatta militare nel 1940, Simone Veil ha vissuto sulla propria pelle la legislazione antisemita del regime di Vichy, l’occupazione italiana più blanda verso gli ebrei, come ha ricordato D’Ormesson, e poi lo sbarco della Gestapo a Nizza con l’arrivo di Alois Brunner. Nel marzo del 1944, mentre festeggiava la fine degli esami di maturità, fu fermata da due civili per un controllo di identità e arrestata perché in possesso di documenti falsi. Internata con la madre e la sorella a Drancy, verrà deportata ad Auschwitz su un vagone piombato, restando senza notizie del padre e del fratello, che spariranno nel nulla tra Kaunas e Tallin, e della sorella Denise, che riuscirà a sopravvivere al lager di Ravensbrück. Due anni fa, nell’autobiografia (“Une vie”, Grasset) Simone Veil ha raccontato per filo e per segno i lunghi mesi nel lager nazista, le bugie che le salvarono la vita, l’aiuto ricevuto da una vecchia prostituta, caporeparto, che la spedì a lavorare nelle cucine, la marcia della morte in pieno inverno, la morte della madre per tifo, un mese prima dell’arrivo degli inglesi a Bergen Belsen, e il ritorno a Parigi come un fantasma in cerca di parenti al Lutétia. “Con lei, la Shoah entra all’Académie”, ha detto commosso Jean d’Ormesson.

Da ministro Simone Veil è diventata, nell’ideologia abortista corrente, il simbolo del riscatto dalla vergogna delle donne “costrette a nascondere il loro stato, sole, senza nessuno che le protegga” e passibili della pena capitale secondo la legge del 1920. La depenalizzazione dell’aborto in Francia fu una battaglia campale, vinta grazie alla sinistra. Ma fu anche oggetto di reazioni dure e radicali da parte dei “cattolici integralisti”, come li ha definiti D’Ormesson, dei luterani e persino degli ebrei ortodossi. Proprio loro, a New York, nel 60° della liberazione di Auschwitz contestarono la scelta della Veil come rappresentante dei deportati.

 

Di quella battaglia che ha causato la morte di milioni di concepiti, oggi Simone Veil sembra prendere le distanze, quando riconosce “l’evidenza scientifica che sin dal concepimento si tratta di un essere vivente”. Ma non basta a fugare tutte le riserve sulla sua consacrazione. Alla messa gregoriana di domenica scorsa a Saint Nicolas du Chardonnet, la roccaforte dei lefebvriani dove il prete all’altare dà le spalle ai fedeli seguendo la liturgia antica, sono risuonate parole di fuoco contro “la Musa della morte” e la sua legge “iniqua che ha causato tante vittime innocenti”. Il parroco ha invitato i fedeli – molte donne col velo di pizzo e fanciulli dall’aria pia accanto ai genitori come negli anni Cinquanta – a manifestare sul Quai de Conti “contro un omaggio che disonora il prestigio di un istituto fondato da un cardinale rispettoso della legge divina”.

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