Spiega il Chicago boy più italiano che ci sia

Caro Posner, la scuola di Chicago non ha affatto perso

Redazione

Richard Posner, uno degli esponenti di primo piano dell'analisi economica del diritto dell'Università di Chicago, ha detto di recente al New Yorker che “Keynes ha vinto e la Scuola di Chicago ha perso”.

di Antonio Martino

    Richard Posner, uno degli esponenti di primo piano dell'analisi economica del diritto dell'Università di Chicago, ha detto di recente al New Yorker che “Keynes ha vinto e la Scuola di Chicago ha perso”, alimentando un dibattitto seguito in Italia dal Sole 24 Ore. Posner, giudice federale, veniva considerato un illustre “associato” della Scuola di Chicago di Economia, sia perché la sua produzione scientifica conferma l'ampia applicabilità del metodo dell'economia, che è l'essenza dell'insegnamento di Milton Friedman, sia perché per esempio attraverso il blog prodotto assieme a Gary Becker sembrava un sostenitore convinto del liberalismo di Chicago. “Associato” perché giurista e non economista, ma pur sempre “one of us”. La sua dichiarazione sulla vittoria del keynesismo seguita alla crisi dei mercati finanziari sembrerebbe paragonabile al proverbiale caso del crociato cristiano folgorato dal dubbio che Maometto avesse ragione.

    La crisi che sembra avviarsi a conclusione non è stata prodotta dal fallimento del mercato ma dagli errori della politica che hanno impedito ai mercati di funzionare correttamente, esattamente come accadde con la Grande Depressione. Ma prima di esaminare la dinamica degli eventi che hanno condotto alla crisi, guardiamo a quanto accaduto prima, negli ultimi trent'anni. Alla fine degli anni ‘70 il Regno Unito era il grande malato d'Europa, al punto che Samuel Brittan si sentì spinto a scrivere un saggio dal titolo “How British Is the British Sickness?”, “Quant'è britannica la malattia britannica?” . Poi arrivò Margaret Thatcher. Negli Stati Uniti, alla fine degli anni ‘70, l'economia era nel caos: il “misery index” (la somma dei tassi d'inflazione e disoccupazione) superava il 20 per cento. Poi arrivò Ronald Reagan.

    La rivoluzione di Reagan inaugurò una delle espansioni più grandi e durature della storia degli Stati Uniti, mentre il successo delle politiche della signora Thatcher fu così evidente che nessun governo laburista successivo tentò mai di annullarle. Noi liberali abbiamo seguito questi sviluppi con eccitazione ed entusiasmo: il capitalismo funzionava davvero, la libertà economica era un potente motore del progresso economico, sociale e scientifico, oltre che un metodo molto efficace per favorire una prosperità diffusa. Comprensibilmente, chi invece credeva nello statalismo non condivideva il nostro entusiasmo. Per loro gli sviluppi degli ultimi trent'anni non erano fonte di gioia. La maggiore libertà nel commercio internazionale produceva dei benefici innegabili per tutti i paesi coinvolti, confutando la necessità di protezionismo; i liberi movimenti di capitali imponevano una certa disciplina a tutti i governi del mondo; la riduzione delle percentuali di tassazione promuoveva la crescita; e tutte le argomentazioni di chi credeva nel libero mercato sembravano trovare un innegabile conferma. Fu un vero incubo per i nostri avversari.

    E' comprensibile, quindi, che stiano gioendo così tanto dell'attuale crisi: non è forse una dimostrazione del grande danno fatto al mondo dal “capitalismo sregolato”, dalla nefanda influenza di Hayek, Friedman e della Scuola di Chicago? Per loro sfortuna, tuttavia, la crisi non li aiuta affatto perché non è stata il risultato del fallimento dei mercati ma, come accennato, di errori politici. La decisione di Bill Clinton di esentare gli aumenti di valore immobiliare fino a 500 mila dollari dalle imposte fece affluire capitali che avrebbero potuto essere altrimenti impiegati verso l'investimento immobiliare, contribuendo a far crescere il prezzo delle case. La decisione, voluta con forza dai democratici con in testa Barack Obama, di espandere il ruolo di Freddie Mac e Fanny Mae, due giganti parastatali operanti nel credito immobiliare, e di costringerli a concedere mutui anche a chi non presentava le necessarie garanzie, fece ulteriormente crescere il prezzo delle case, dando vita alla bolla immobiliare e alla dilatazione dei mercati dei “subprime”.

    Contemporaneamente, Alan Greenspan per impedire un rallentamento della crescita conduceva una politica monetaria irresponsabilmente espansiva, garantendo sì che i tassi d'interesse restassero bassi ma inondando al contempo di liquidità l'economia americana. L'espansione monetaria non produsse aumento dei prezzi dei beni di consumo, perché l'aumento delle importazioni funzionò come un calmiere, ma creò la bolla azionaria e contribuì a rendere ancora maggiore quella immobiliare. Fintantoché i prezzi delle case aumentavano e il tasso d'interesse restava basso, tutto andava nel migliore dei modi ma, non appena il prezzo delle case prese a diminuire ed il tasso ad aumentare, le bolle scoppiarono e si ebbe la crisi. Con buona pace dei sinistrati e di Posner, la crisi non significa affatto che la Scuola di Chicago abbia perso né tantomeno che abbia vinto John Maynard Keynes.

    Il mercato non esce sconfitto dagli ultimi eventi e non posso fare a meno di essere ottimista. In tutta la storia umana, ma soprattutto negli ultimi trent'anni, la libertà economica ha fornito un'ampia e sicura dimostrazione della sua superiorità rispetto a qualsiasi altro tipo di accordo sociale. Nessuno, tranne che in Birmania e all'Harvard University, oggi ritiene che vi siano alternative migliori al libero mercato. Soltanto un'assoluta follia può far imboccare all'umanità la direzione sbagliata. Il mercato, una delle più grandi scoperte del genere umano, durerà, nonostante i tentativi dei politici di sopprimerlo.

    di Antonio Martino