Flopenaghen

Non basta Obama a salvare il summit, cancellati gli ultimatum di Kyoto

Alan Patarga

La mediazione del presidente americano, arrivato quando tutto sembrava naufragare (con i cinesi a capo degli scettici), salva almeno le apparenze: il summit si può chiudere con un documento che annunci un rafforzamento delle politiche a favore dell'ambiente. Tutto qui, perché un trattato per regolamentare le emissioni dopo il 2012 non c'è e non ci sono nemmeno tempi certi per averne uno. Un limite, a dire il vero, c'era ed era quello del 2010, fissato – correva l'anno 1997 – al termine della conferenza di Kyoto. Dopo Copenaghen, non c'è più nemmeno quello: è stato espunto dall'ultima bozza, ribattezzata Piano B, per poter dire che un'intesa c'è stata.

    L'arrivo di Barack Obama al vertice sul clima di Copenaghen ha portato soltanto un'ultima bozza. I numeri, si trattasse di impegni vincolanti, sarebbero epocali: taglio del 50 per cento delle emissioni globali di CO2 entro il 2050, soglia che sale all'80 per cento (rispetto ai livelli del 1990) per i paesi più ricchi. E poi una revisione degli impegni, nel 2016, per limitare l'aumento delle temperature a un grado centigrado e mezzo. La mediazione del presidente americano, arrivato quando tutto sembrava naufragare (con i cinesi a capo degli scettici), salva almeno le apparenze: il summit si può chiudere con un documento che annunci un rafforzamento delle politiche a favore dell'ambiente. Tutto qui, perché un trattato per regolamentare le emissioni dopo il 2012 non c'è e non ci sono nemmeno tempi certi per averne uno.

    Un limite, a dire il vero, c'era ed era quello del 2010, fissato – correva l'anno 1997 – al termine della conferenza di Kyoto. Dopo Copenaghen, non c'è più nemmeno quello: è stato espunto dall'ultima bozza, ribattezzata Piano B, per poter dire che un'intesa c'è stata. A dispetto degli obiettivi ambiziosi, il vertice danese voluto dall'Onu si chiude con un rinvio a una nuova sessione negoziale, il prossimo giugno a Bonn. Alcuni impegni sono fissati, ma resta da capire come renderli vincolanti. Non è un caso che il premier indiano, Manmohan Singh, ieri parlasse di “negoziati da portare avanti ancora per tutto il 2010” e che l'idea di Obama – ricalcare la struttura del Fondo monetario internazionale per costruire il meccanismo di controllo e verifica degli obiettivi sulle emissioni – sia stata bocciato dal Brasile. “Il Fondo monetario è tutto quello che non vorremmo avere mai più”, ha chiosato il ministro dell'Ambiente di Brasilia, Carlos Minc. Che sulle parole del leader statunitense ha aggiunto: “Il discorso di Obama è stata una delusione”.

    Il punto è proprio la delusione obamiana. Perché il vertice – tra sandwich al pollo o all'hummus, negoziati estenuanti e discorsi alati al Bella Centre – si è trascinato sin dall'inizio nella speranza messianica di una soluzione americana. Barack che arriva, parla e convince tutti. Ma già alla vigilia del suo arrivo, i cinesi avevano lasciato intendere che, questa volta, di spazio per un accordo vero non ce ne sarebbe stato. Gli incontri con il premier Wen Jiabao, nel pomeriggio e in serata, sono serviti (come confermato dalle parti attraverso i portavoce) a fare qualche “passo in avanti”, ma un'intesa organica sui tagli, sulla loro ripartizione e persino sulla loro utilità è sembrata quasi sempre lontanissima.

    Persino il ministro per l'Energia e il cambiamento climatico britannico, Ed Miliband, preferiva ragguagliare i suoi fedelissimi su Twitter dicendo che il vertice era ormai “alla rottura”. In realtà, nelle stesse ore la delegazione danese ospitante ha chiesto ai leader dei principali paesi e ai loro collaboratori di trattenersi per la notte a Copenaghen con l'obiettivo di mettere una firma in calce a un qualche documento. A giudicare dal commento del portavoce di Greenpeace, Joss Garman, non un documento epocale: “L'ultima bozza di accordo – ha dichiarato ai cronisti – è così debole da essere quasi priva di senso. E' qualcosa di più simile al comunicato finale di un G8 che al testo giuridicamente vincolante di cui ci sarebbe bisogno. Nel testo non si indica né una tempistica di entrata in vigore, né un target preciso in relazione alle temperature. E' difficile credere che i nostri leader possano presentarsi davanti al mondo intero con un documento simile”.

    Che non ci si dovesse aspettare molto di più lo si poteva capire proprio dalle scuse addotte dall'Amministrazione Obama per ridurre l'impegno statunitense a ridurre le emissioni inquinanti. Dal 20 al 17 per cento entro il 2020, perché alla Camera dei rappresentanti i democratici degli stati che hanno miniere di carbone hanno insistito sulle conseguenze economiche dei tagli mentre il paese tenta di uscire dalla crisi. Prima ancora di arrivare a Copenaghen, lo staff di Obama ha lasciato intendere che non sarebbe stato possibile, almeno nell'immediato, promettere tagli ulteriori: “Ci vorrebbe l'approvazione del Senato”, hanno spiegato. Una motivazione liquidata dal solito Minc con una battuta: “E' come se gli Stati Uniti fossero l'unico paese con un Congresso, tutti quanti ne abbiamo uno”. La differenza, tra Washington e gli altri, sta tutta nella voglia americana di avere salda – dopo quella della crisi – anche la leadership della ripresa: per questo Obama, a Copenaghen, ha fatto sapere di apprezzare anche il raggiungimento di un “accordo imperfetto”. Senza poter dire, per non sembrare incoerente, che quello perfetto sarebbe una vera iattura.