Guerra e pace

Redazione

Maestà, Altezze Reali, onorevoli membri del Comitato norvegese per il Nobel, cittadini d'America e cittadini del mondo: ricevo questa onoreficenza con un senso di profonda gratitudine e grande umiltà. E' un riconoscimento che parla alle nostre più alte aspirazioni, quelle secondo cui, nonostante tutta la crudeltà e l'asprezza del mondo in cui viviamo, non siamo meri prigionieri del fato. Le nostre azioni hanno una loro importanza e possono piegare la storia verso la giustizia.

    La traduzione in italiano del discorso del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in occasione della consegna del premio Nobel per la Pace 2009.

    Maestà, Altezze Reali, onorevoli membri del Comitato norvegese per il Nobel, cittadini d'America e cittadini del mondo: ricevo questa onoreficenza con un senso di profonda gratitudine e grande umiltà. E' un riconoscimento che parla alle nostre più alte aspirazioni, quelle secondo cui, nonostante tutta la crudeltà e l'asprezza del mondo in cui viviamo, non siamo meri prigionieri del fato. Le nostre azioni hanno una loro importanza e possono piegare la storia verso la giustizia.
    Eppure sarebbe scorretto da parte mia non riconoscere le notevoli controversie suscitate dalla vostra generosa decisione. In parte, sono dovute al fatto che mi trovo all'inizio, e non alla fine, della mia opera sulla scena mondiale. Rispetto ad alcuni dei giganti della storia che hanno ricevuto questo premio, Schweitzer e King, Marshall e Mandela, quanto ho compiuto è davvero poca cosa. E poi ci sono gli uomini e le donne in tutto il mondo che sono stati incarcerati e percossi per aver cercato giustizia; ci sono quanti faticano nelle associazioni umanitarie per alleviare la sofferenza; e milioni di persone ignote i cui silenziosi atti di coraggio e pietas ispirano anche i cinici più induriti. Non ho nulla da controbattere a chi ritiene che questi uomini e donne, noti o sconosciuti a tutti tranne a chi riceve il loro aiuto, meritino questo onore assai più di me.

    Ma forse la cosa che colpisce di più è il fatto che io sia il comandante in capo dell'esercito di una nazione impegnata in due guerre. Una di queste si sta concludendo; l'altra è un conflitto che l'America non ha cercato, e in cui è affiancata da 42 nazioni, compresa la Norvegia, nel tentativo di difendere noi e tutte le nazioni da altri attacchi. Ciononostante siamo in guerra, e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani americani, che combattono in una terra lontana. Alcuni uccideranno e altri saranno uccisi. Per questo vengo qui con la consapevolezza dei costi dei conflitti, pieno di domande difficili sul rapporto tra la guerra e la pace e sui nostri tentativi di sostituire l'una all'altra.
    Queste domande non sono certo nuove. La guerra, in un modo o nell'altro, fece la sua comparsa già col primo uomo. All'alba della storia non se ne discuteva la moralità; era semplicemente un fatto, come la siccità o la malattia; era lo strumento con cui le tribù e poi le civiltà cercavano il potere e appianavano le differenze.
    Col passare del tempo, con lo sviluppo di codici normativi mirati a controllare la violenza all'interno dei gruppi, anche i filosofi, i religiosi e gli uomini di stato hanno tentato di regolamentare il potere distruttivo della guerra. Emerse così l'idea di una “guerra giusta”, che implicava il concetto che la guerra fosse giustificata solo nel momento in cui erano rispettate determinate condizioni: che sia utilizzata quale extrema ratio o per autodifesa, e che, ogniqualvolta ciò è possibile, si risparmino i civili dalla violenza.
    Naturalmente sappiamo che nella maggior parte della storia, quest'idea di “guerra giusta” è stata rispettata raramente.

    La capacità degli esseri umani di escogitare nuovi modi di uccidersi
    l'un l'altro ha dimostrato di essere inesauribile, così come quella di escludere dalla nostra mercè chi ha aspetto diverso o prega un Dio differente. Le guerre tra gli eserciti hanno lasciato spazio alle guerre tra le nazioni; guerre totali, in cui la distinzione tra combattenti e civili si è fatta più sfumata. In 30 anni, carneficine di questa sorta hanno travolto due volte questo continente. E se è difficile concepire una causa più giusta della sconfitta del Terzo Reich e delle forze dell'Asse, la Seconda guerra mondiale è stato un conflitto in cui il numero totale di morti tra i civili ha superato il numero di vittime tra i soldati.
    Sulla scia di tanta distruzione, e con l'avvento dell'era nucleare, fu chiaro a vincitori e vinti che il mondo aveva bisogno di istituzioni che potessero impedire un'altra guerra mondiale. Così, un quarto di secolo dopo che il Senato statunitense aveva rifiutato la Lega delle Nazioni (un'idea per cui Woodrow Wilson ricevette questo premio), l'America guidò il mondo nella costruzione di una struttura capace di mantenere la pace: il piano Marshall e le Nazioni Unite, meccanismi per governare le dichiarazioni di guerra, trattati per proteggere i diritti umani, evitare i genocidi, limitare le armi più pericolose.


    Sotto molti punti di vista, questi tentativi sono riusciti.
    Certo, si sono combattute guerre terribili e commesse atrocità. Ma non c'è stata una Terza guerra mondiale; la Guerra fredda è finita con il giubilo di una folla che abbatteva un muro; i rapporti commerciali hanno legato gran parte del mondo; miliardi di persone sono uscite dalla povertà; gli ideali della libertà e dell'autodeterminazione, dell'uguaglianza e dello stato di diritto sono avanzati, seppur con esitazioni. Noi siamo gli eredi della forza morale e della lungimiranza delle generazioni passate; si tratta di un'eredità di cui il mio paese è giustamente fiero.
    Tuttavia, a un decennio dall'inizio del nuovo secolo, questa vecchia struttura traballa sotto il peso di nuove minacce. Il mondo forse non rabbrividisce più all'idea di un conflitto tra due superpotenze nucleari, ma la proliferazione degli armamenti potrebbe far aumentare il rischio di una catastrofe. Il terrorismo è una strategia di lotta da lungo tempo, ma la tecnologia moderna permette a pochi uomini con strumenti esageratamente potenti di uccidere innocenti in quantità terribili.


    Per di più, le guerre tra le nazioni hanno ceduto sempre più spesso
    lo spazio ai conflitti interni. Nelle guerre i morti sono di gran lunga più numerosi tra i civili che tra i soldati; si piantano i semi di conflitti futuri, si distruggono i sistemi economici, si fa a pezzi la società civile, si ammassano rifugiati, si sfregia la vita dei bambini.
    Oggi non ho con me una soluzione definitiva ai problemi della guerra. Quel che so è che per far fronte a queste sfide dovremo avere la stessa capacità di progettare in grande, la stessa volontà di lavorare duramente, e la stessa tenacia degli uomini e delle donne che decenni fa agirono con tanta audacia. E dovremo pensare in modi differenti alle nozioni di guerra giusta e alla necessità imperante di una pace giusta. Dobbiamo iniziare col riconoscere la dura verità: non estirperemo la piaga dei conflitti nell'arco della nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, agendo individualmente o di concerto, riterranno che l'utilizzo della forza non è solo necessario, ma anche moralmente giustificato.

    Dico questo tenendo ben a mente quanto disse Martin Luther King Jr. durante questa stessa cerimonia, anni fa: “La violenza non porta mai una pace duratura; non risolve i problemi sociali: si limita a crearne di nuovi e più complicati”. Essendo la mia presenza qui una conseguenza diretta dell'opera di M.L. King, sono io stesso una testimonianza vivente della forza morale della non violenza. So che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naive, nel credo e nella vita di Gandhi e di King. Ma come capo di stato, avendo giurato di proteggere e difendere la mia nazione, non posso farmi guidare solo dal loro esempio. Devo affrontare il mondo così com'è, e non posso stare immobile davanti a tutto quanto minaccia il popolo americano. Perché non dobbiamo illuderci: il male nel mondo esiste. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare le armi di Hitler. I negoziati non possono convincere i capi di al Qaida a deporre le armi. Dire che la forza a volte può essere necessaria non significa essere cinici; significa comprendere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione.

    Comincio da qui perché in molti paesi oggi c'è grande ambivalenza rispetto agli interventi militari, indipendentemente dalla causa. E a volte a ciò si aggiunge, di riflesso, un sospetto sull'America, l'unica superpotenza militare. Ma il mondo deve ricordare che non sono stati solo le sole istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante tutti gli errori commessi, i fatti, puri e semplici, sono questi: gli Stati Uniti d'America da oltre sessant'anni contribuiscono a sostenere la sicurezza mondiale con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità dalla Germania alla Corea e ha permesso che la democrazia prendesse piede in luoghi come i Balcani. Ci siamo accollati quest'onere non perché vogliamo imporre la nostra volontà. L'abbiamo fatto in nome di un nostro interesse illuminato, perché desideriamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri potranno vivere in libertà e prosperità.

    E allora sì, gli strumenti della guerra hanno un loro ruolo nel mantenere la pace. Eppure questa verità deve coesistere con un'altra: non importa quanto sia giustificata, la guerra promette tragedie umane. Il coraggio e i sacrifici dei soldati sono colmi di gloria ed esprimono la devozione a una nazione, a una causa, ai compagni d'armi. Ma la guerra stessa non è mai gloriosa, e non dobbiamo mai suonare la fanfara sostenendo il contrario.
    Parte della nostra sfida quindi è conciliare questi due verità apparentemente inconciliabili: che la guerra è talvolta necessaria e che la guerra è, a un qualche livello, espressione della follia umana. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi a compiere quanto ci chiese tempo fa il presidente Kennedy. “Concentriamoci su di una pace più pratica, più raggiungibile, fondata non su un'improvvisa rivoluzione della natura umana, ma su un'evoluzione graduale delle istituzioni umane”. Un'evoluzione graduale delle istituzioni umane. Come potrebbe essere quest'evoluzione? Quali possono essere i passi, in concreto? Tanto per iniziare, credo che tutte le nazioni, forti e deboli, debbano aderire a norme che governino l'uso della forza. Io, come capo di stato, mi riservo il diritto di agire unilateralmente se necessario a difendere la mia nazione. Ciononostante sono convinto che aderire a norme internazionali rafforzi quanti lo fanno, e isoli e indebolisca chi non fa altrettanto.

    Il mondo si è raccolto intorno all'America dopo gli attacchi dell'11 settembre e continua a sostenere i nostro sforzi in Afghanistan in ragione dell'orrore di quegli attacchi insensati e del riconosciuto principio dell'autodifesa. Parimenti, il mondo ha riconosciuto la necessità di far fronte a Saddam Hussein quando aveva invaso il Kuwait, mostrando un consenso che inviò un messaggio chiaro a tutti sui costi dell'aggressione. Inoltre, l'America – né alcun'altra nazione – non può insistere sul fatto che gli altri devono seguire le regole della strada se lei stessa le rifiuta. Perché quando non le rispetta, le sue azioni sembrano arbitrarie e minano la legittimità degli interventi futuri, per quanto giustificati possano essere.
    Ciò diventa particolarmente importante quando l'obiettivo dell'azione militare si estende oltre l'autodifesa o la difesa di una nazione contro un aggressore. Sempre più, tutti noi dobbiamo far fronte a domande difficili su come evitare che i civili vengano sgozzati dai loro stessi governi, o su come fermare una guerra civile che può inondare di violenza e sofferenze un'intera regione mondiale.

    La forza può essere giustificata sulla base di ragioni umanitarie,
    come fu per i Balcani, o in altri luoghi che sono stati sfregiati dalla guerra. Non agire strazia la nostra coscienza e può richiedere interventi più costosi in momenti successivi. Ecco perché tutte le nazioni responsabili devono accogliere il ruolo che può avere un esercito provvisto di un mandato chiaro nel mantenere la pace.
    L'impegno americano per la sicurezza globale non vacillerà mai. Ma in un mondo in cui le sfide sono sempre più estese, l'America non può agire da sola. L'America da sola non può garantire la pace. Questo vale per l'Afghanistan. Vale in stati “falliti”, come la Somalia, dove al terrorismo e alla pirateria si uniscono le sofferenze e le carestie. E, tristemente, continuerà a valere in regioni instabili negli anni a venire.
    I capi di stato e di governo e i soldati della Nato, assieme ad altri amici e alleati, illustrano questa verità con le capacità e il coraggio dimostrato in Afghanistan. Ma in molti paesi c'è un grande distacco tra gli sforzi di chi serve il bene comune e l'ambivalenza dell'opinione pubblica più in generale. Capisco che la guerra non è popolare, ma so anche questo: la convinzione che la pace è desiderabile raramente basta a raggiungerla. La pace richiede responsabilità. La pace chiede sacrifici. Ecco perché la Nato continua a essere indispensabile. Ecco perché dobbiamo rafforzare l'Onu e le operazioni di peacekeeping regionali, e non lasciare il compito a pochi paesi. Ecco perché onoriamo quanti tornano nel loro paese dalle operazioni di peacekeeping e dagli addestramenti; li onoriamo non come fautori della guerra, ma come paladini della pace.

    Permettetemi un'ultima osservazione sull'uso della forza.
    Anche quando prendiamo decisioni difficili sulle guerre, dobbiamo pensare chiaramente a come le combattiamo. Il Comitato per il Nobel ha riconosciuto questa verità quando ha consegnato il suo primo premio a Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, forza promotrice delle Convenzioni di Ginevra. Dove la forza è necessaria, abbiamo l'interesse morale e strategico di vincolarci a determinate regole di condotta. E anche quanto siamo di fronte ad avversari feroci, che non rispettano alcuna regola, credo che gli Stati Uniti d'America debbano continuare ad essere modelli delle norme da seguire in tempo di guerra. Questo ci rendo diversi da coloro contro i quali combattiamo. Questa è la fonte della nostra forza. E questa è la ragione per cui ho proibito le torture. La ragione per cui ho ordinato di chiudere  Guantanamo. E per cui ho riaffermato l'impegno americano a rispettare le Convenzioni di Ginevra. Ci perdiamo quando facciamo compromessi sugli ideali per cui lottiamo. E onoriamo quegli ideali rispettandoli non quando è più facile, ma quando è difficile.

    Mi sono dilungato sulle questioni che si devono porre alle nostre menti e ai nostri cuori nel momento in cui decidiamo di scendere in guerra. Ora voglio discutere di come possiamo evitare queste scelte tragiche, parlando di tre vie attraverso le quali possiamo creare una pace giusta e duratura. Prima di tutto, quando trattiamo con quei paesi che infrangono le regole e le leggi, dobbiamo sviluppare alternative alla violenza che siano abbastanza forti da spingere effettivamente a cambiare comportamento, perché se vogliamo una pace duratura, allora le parole della comunità internazionale devono voler dire qualcosa. I regimi che infrangono le regole devono essere richiamati alle loro responsabilità. Le sanzioni devono avere un prezzo da pagare. L'intransigenza deve procedere di pari passo con una pressione crescente, e tale pressione esiste solo quando il mondo prende posizione come un sol'uomo.

    Un esempio urgente è lo sforzo per prevenire la diffusione di armi nucleari e andare alla ricerca di un mondo che faccia a meno delle stesse. Alla metà dello scorso secolo gli stati si sono accordati per essere vincolati da un trattato chiaro: tutti avranno accesso al nucleare civile; quelli che non hanno armi nucleari rinunceranno alle stesse; e quelli in possesso di armi nucleari lavoreranno per arrivare a un disarmo. Io sono impegnato a far rispettare questo trattato. E' una pietra miliare della mia politica estera. E sto lavorando con il presidente Medvedev per ridurre le scorte nucleari di America e Russia.
    Ma per noi è obbligatorio insistere anche affinché paesi come l'Iran e la Corea del nord non si prendano gioco del sistema. Quanti dichiarano di rispettare il diritto internazionale non possono voltare lo sguardo quando dello stesso diritto ci si fa beffe. Quanti hanno a cuore la propria sicurezza non possono ignorare il pericolo di una corsa alle armi nel medio oriente o in Asia orientale. Quanti ricercano la pace non possono restare inerti mentre gli stati si armano per una guerra nucleare.

    Lo stesso principio vale per chi viola le leggi internazionali
    brutalizzando i propri popoli. Quando c'è un genocidio in Darfur, quando si assiste a stupri sistematici in Congo e alla repressione in Birmania, ci devono essere delle conseguenze. Certo, vi sarà il dialogo; certo, vi sarà il momento della diplomazia, ma quando questi falliranno vi dovranno essere anche delle conseguenze. E più siamo uniti, meno possibilità ci saranno di doverci confrontare con la scelta tra l'intervento armato e la complicità con l'oppressione.
    Questo mi porta a toccare un secondo punto: la natura della pace che ricerchiamo. Perché la pace non è solo l'assenza di un conflitto visibile. Solo una pace giusta, basata sui diritti innati e la dignità per ogni individuo, può essere veramente duratura. Fu questa convinzione a guidare gli estensori della Dichiarazione universale dei Diritti umani dopo la Seconda guerra mondiale. All'indomani della devastazione, questi riconobbero che se i diritti umani non sono protetti, la pace è una promessa vuota. Eppure troppo spesso queste parole vengono ignorate. Secondo alcuni paesi il mancato rispetto dei diritti umani sarebbe giustificato dall'idea errata secondo la quale i diritti sarebbero in qualche modo dei principi occidentali, stranieri rispetto a certe culture locali o a certi stadi di sviluppo di un paese. Anche in America c'è stata a lungo tensione tra realisti e idealisti – una tensione che farebbe pensare a una scelta netta e obbligata tra la limitata ricerca degli interessi e una campagna senza fine per imporre i nostri valori in giro per il mondo.

    Respingo l'idea che si debba scegliere tra queste due opzioni.
    Ritengo che la pace sia instabile ovunque sia negato ai cittadini il diritto di esprimersi liberamente o pregare come credono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza timore. Le ingiustizie represse si incancreniscono, e la soppressione di identità tribali o religiose può portare alla violenza. Sappiamo anche che l'opposto è altrettanto vero. Solo quando l'Europa divenne libera trovò finalmente la pace. L'America non ha mai combattuto una guerra contro una democrazia, e i nostri alleati più vicini sono quei governi che tutelano i diritti dei loro cittadini. Né gli interessi americani – né quelli del mondo – traggono giovamento dalla negazione delle aspirazioni umane.

    Quindi pur rispettando le culture e le tradizioni peculiari dei diversi paesi, l'America sarà sempre portavoce di aspirazioni che sono universali. Porteremo la testimonianza della composta dignità di riformatori come Aung Sang Suu Kyi, del coraggio degli abitanti dello Zimbabwe che continuano a votare a fronte dei pestaggi; delle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato silenziosamente nelle strade dell'Iran. E' significativo che i leader di questi governi temano le aspirazioni della loro stessa gente più della potenza di un qualsiasi altro stato. Ed è responsabilità di tutte le persone e dei paesi liberi rendere chiaro che questi movimenti – di speranza e che faranno la storia – ci abbiano al loro fianco.

    Lasciatemi anche dire che la promozione dei diritti umani non si può limitare
    alle sole esortazioni. A volte deve procedere a fianco di una diplomazia laboriosa. So che dialogare con regimi repressivi equivale a fare a meno della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza l'offerta di dialogo – la condanna senza la discussione – possono riportare soltanto a un rovinoso status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada differente a meno che non abbia la possibilità di scegliere una porta che gli si apre davanti.
    Alla luce degli orrori della Rivoluzione culturale, l'incontro di Nixon con Mao sarà apparso ingiustificabile, eppure esso ha sicuramente aiutato a posizionare la Cina su un sentiero lungo il quale milioni di suoi cittadini sono usciti dalla povertà e sono entrati in contatto con le società aperte. Il dialogo di Papa Giovanni Paolo II con la Polonia ha creato un varco non solo per la chiesa cattolica, ma anche per leader sindacali come Lech Walesa. Gli sforzi di Ronald Reagan sul controllo degli armamenti e la perestrojka non hanno soltanto migliorato i rapporti con l'Urss, ma hanno rafforzato i dissidenti in tutta l'Europa orientale. Dietro tutto ciò non esiste una semplice formula. Ma dobbiamo fare del nostro meglio per bilanciare l'isolamento e il dialogo, le pressioni e gli incentivi, affinché i diritti umani e la dignità possano avanzare nel tempo.

    Terzo, una pace giusta include non soltanto diritti civili e politici,
    ma deve comprendere opportunità e sicurezza economica. Una pace giusta non è soltanto la libertà dalla paura, ma la libertà dal bisogno. E' certamente vero che raramente c'è sviluppo senza sicurezza. E' anche vero che la sicurezza non esiste dove gli esseri umani non hanno accesso al cibo sufficiente, all'acqua pulita, alle medicine, al tetto di cui hanno bisogno per sopravvivere. Non esiste dove i bambini non possono aspirare a un'educazione dignitosa o a un lavoro per sostenere una famiglia. L'assenza di speranza può far marcire una società dal suo interno. Ecco perché aiutare gli agricoltori a nutrire le loro genti – o le nazioni a istruire i loro figli e a prendersi cura dei malati – non è semplice beficenza. Ecco perché il mondo deve unirsi per affrontare il cambiamento climatico. C'è poca disputa scientifica sul fatto che se non facciamo nulla, dovremo affrontare più carestie, più siccità, più migrazioni di massa – tutte cose che contribuiranno ad altri conflitti per decenni. Per questo, non sono soltanto gli scienziati e gli ambientalisti a chiedere un'azione rapida e forte – sono i leader militari nel mio paese e altri che capiscono che da questo dipende la nostra sicurezza comune.
    Accordi tra nazioni. Istituzioni forti. Sostegno dei diritti umani. Investimenti in sviluppo. Questi sono tutti ingredienti vitali nel portare avanti la rivoluzione di cui parlava il presidente Kennedy.

    Tuttavia non credo che avremo la volontà, la determinazione,
    il potere di completare questo lavoro senza qualcosa di più – ed è la continua espansione della nostra immaginazione morale, l'insistenza sul fatto che ci sia qualcosa di irriducibile che tutti condividiamo. Ora che il mondo diventa più piccolo, si potrebbe pensare che è più facile per gli uomini riconoscere quanto sono simili, capire che di fatto cerchiamo tutti le stesse cose, che tutti speriamo nella possibilità di vivere le nostre vite con una certa felicità e una certa soddisfazione per noi e per le nostre famiglie. Tuttavia, visto che la globalizzazione marcia a ritmi rapidissimi e considerato il livellamento culturale della modernità, forse non è così sorprendente che le persone hanno paura di perdere ciò che più amano della loro identità – la razza, l'appartenenza, forse in modo ancora più potente la religione. In alcuni luoghi, questa paura ha portato a dei conflitti. A volte sembra quasi che stiamo tornando indietro. In medio oriente, il conflitto tra arabi ed ebrei sembra inasprirsi. Alcuni paesi sono spaccati da linee tribali. E, cosa più pericolosa, la religione è usata per giustificare l'uccisione di innocenti da coloro che hanno distorto e corrotto la grande religione dell'islam e che dall'Afghanistan hanno attaccato il mio paese. Questi estremisti non sono i primi a uccidere in nome di dio: le crudeltà delle crociate sono state ampiamente documentate. Ma ci ricordano che nessuna guerra santa può essere una guerra giusta. Se credi che stai portando avanti la volontà divina, non hai bisogno di freni – non hai bisogno di risparmiare madri incinte, medici, volontari della Croce Rossa o persone della tua stessa fede.

    Quest'idea così contorta di religione non è soltanto incompatibile
    con il concetto di pace, ma è incompatibile con lo scopo stesso della fede – perché la regola che sta alla base delle maggiori religioni è quella di non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te. Aderire a questa legge d'amore è sempre stato uno sforzo della natura umana. Ma siamo inclini all'errore. Commettiamo degli errori e cadiamo vittime della tentazione dell'orgoglio, del potere, a volte del male. Anche chi ha le migliori intenzioni può passare dal giusto al sbagliato.
    Ma non dobbiamo pensare che la natura umana sia perfetta per continuare a credere che la condizione umana è perfettibile. Non dobbiamo vivere in un mondo idealizzato per continuare a voler raggiungere quegli ideali che lo rendono un mondo migliore. La non violenza praticata da uomini come Gandhi e King può non essere praticabile o possibile in ogni circostanza, ma l'amore che predicavano – la loro fiducia nel progresso umano – deve essere la stella polare che guida il nostro viaggio. Perché se perdiamo questa fiducia, se la consideriamo stupida o ingenua, se l'abbandoniamo con le decisioni che prendiamo in termini di guerra e di pace, allora abbiamo perso il meglio dell'umanità. Abbiamo perso il senso del possibile. Abbiamo perso la nostra bussola morale.

    Come le generazioni prima di noi, dobbiamo rigettare questo futuro. Come disse King in quest'occasione tanti anni fa, “rifiuto di accettare la disperazione quale risposta definitiva alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l'idea che l'essenza della presente condizione umana lo renda moralmente incapace di tendere all'eterno ‘dover essere' che da sempre lo confronta”. Dobbiamo raggiungere il mondo che dovrebbe essere – che brilla del divino che ancora si muove nelle anime di tutti noi
    Da qualche parte oggi, in questo momento, nel mondo com'è, un soldato è in difficoltà ma continua a volere la pace. Da qualche parte oggi, in questo momento, un giovane manifestante sfida la brutalità del suo governo, ma ha il coraggio di continuare a marciare. Da qualche parte oggi, una madre che affronta una povertà punitiva trova ancora il tempo per educare suo figlio e raccatta gli ultimi soldi per mandare suo figlio a studiare – perché crede che un mondo crudele ha ancora un posto per i sogni di suo figlio.

    Possiamo riconoscere che l'oppressione ci sarà sempre
    , e comunque batterci per la giustizia. Possiamo ammettere l'inaccettabilità della privazione e comunque batterci per la dignità. Con gli occhi aperti, possiamo capire che ci sarà la guerra e batterci per la pace. Possiamo farlo, perché è la storia del progresso umano, la speranza di tutto il mondo e in questo momento di sfida questo deve essere il nostro compito qui sulla terra.

    Traduzione di Elia Rigolio e Marco Valerio Lo Prete