Stefano Cucchi

Le "cadute accidentali" dello stato di diritto

Redazione

La giustizia continui il suo corso. Fuor di processo, invece, si faccia tesoro del fascio di luce che in questi giorni illumina la situazione carceraria del paese, appendice del più ampio sfascio della giustizia

Da ieri tre agenti di polizia penitenziaria e tre medici sono ufficialmente indagati per la morte di Stefano Cucchi, il trentunenne romano fermato la sera dello scorso 15 ottobre, processato la mattina dopo per direttissima, trasferito al carcere di Regina Coeli e morto nel giro di sette giorni all’interno del reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Il tutto senza che i familiari abbiano potuto incontrarlo o anche solo conoscere il suo stato di salute, se non al momento di vedere il suo corpo ferito e segnato ormai all’interno di un obitorio. E basterebbe questa scarna sequenza di fatti per spiegare, prima ancora che la facile indignazione, lo sgomento degli italiani. Sgomento comprensibile, come avviene ogni volta che lo stato – il Leviatano-artificiale ideato dall’uomo per arginare il Leviatano dello stato di natura – dimentica l’addestramento impartito da secoli di liberalismo e sprigiona la sua distruttività invece di restare nei limiti del legittimo monopolio della forza. Sgomento che ha portato molti a chiedersi se dietro la morte del giovane non ci fosse un micidiale combinato disposto di violenza e incuria.

 

Sgomento ancora più giustificato ora che i magistrati, lavorando sulle  ipotesi di omicidio preterintenzionale e omicidio colposo, avrebbero individuato nomi e cognomi cui attribuire eventuali responsabilità. La nostra, come quella dichiarata dalla famiglia Cucchi, è “prudente soddisfazione” per un passo concreto verso il rapido e rigoroso accertamento della verità. Su questo, per ora, ci attestiamo. Perché se non ci convincono i magistrati che depositano sentenze e motivazioni in edicola prima ancora che in tribunale, tantomeno ci affascinano i colleghi che con disinvoltura indossano la toga per emettere frettolose sentenze simil-giudiziarie. Nessun garantismo di maniera, ma la convinzione che ogni forma di bullismo preventivo verso le forze dell’ordine, alla pari di qualsiasi episodio di giustizia sommaria, non fa che aggiungere violazione di diritti a violazione di diritti.

 
La giustizia continui il suo corso. Fuor di processo, invece, si faccia tesoro del fascio di luce che in questi giorni illumina la situazione carceraria del paese, appendice del più ampio sfascio della giustizia. L’attenzione, anche mediatica, è la migliore assicurazione contro future “cadute accidentali” dello stato di diritto.

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