Obama tra Roosevelt e Carter

Redazione

Sarà un Franklin Delano Roosevelt o un Jimmy Carter? Saprà imporre il cambiamento rimettendo l'America al centro del mondo o si rivelerà un velleitario incapace di tradurre il sogno in realtà? E' la domanda che gli americani, e non solo loro, si fanno in queste settimane su Barack Obama. Io ho vissuto con loro, tra New York e Washington, una delle settimane più intense della nuova presidenza

di Carlo De Benedetti

    Sarà un Franklin Delano Roosevelt o un Jimmy Carter? Saprà imporre il cambiamento rimettendo l'America al centro del mondo o si rivelerà un velleitario incapace di tradurre il sogno in realtà? E' la domanda che gli americani, e non solo loro, si fanno in queste settimane su Barack Obama. Io ho vissuto con loro, tra New York e Washington, una delle settimane più intense della nuova presidenza, quella che si è aperta con la Conferenza dell'Onu sul cambiamento climatico e si è chiusa con il G20 di Pittsburgh, e rientrando in Italia quel dubbio l'ho portato con me. Obama è certamente il presidente che rappresenta il meglio dell'America, ne incarna gli ideali più eterni, ispira i sogni di una generazione. Ma la sua scommessa oggi si gioca sulla “delivery”, sulla sua capacità di realizzare le promesse. E' un tema evidenziato bene dal Foglio, ed è per questo, caro direttore, che accolgo con piacere il vostro invito a mettere nero su bianco le opinioni che mi sono andato facendo nei miei colloqui oltreoceano. Nell'arco di pochi giorni Obama ha ospitato sul territorio degli Stati Uniti tre vertici che costituivano altrettante prove della sua leadership. Ne è uscito bene, ma senza sciogliere del tutto le incertezze e le ambivalenze. Il suo carisma, l'autorevolezza, la padronanza dell'agenda internazionale sono stati confermati e rafforzati. Ma resta da dimostrare che sappia trasformare la propria popolarità e il proprio talento in risultati concreti. Ancora più dubbio è se sia possibile frenare la tendenza al declino di influenza dell'America negli affari mondiali. Alla conferenza Onu sul cambiamento climatico il suo discorso ha rappresentato una svolta netta rispetto al “negazionismo” dell'Amministrazione Bush. Il suo riferimento al rischio di “una catastrofe irreversibile” è stato potente. E, soprattutto, su questi temi ha incassato una preziosa convergenza con il suo omologo cinese, Hu Jintao. Per la prima volta le due nazioni che insieme generano il 40 per cento di tutte le emissioni di CO2 parlano almeno nelle loro classi dirigenti un linguaggio più simile. All'assemblea generale delle Nazioni Unite lo stacco rispetto al passato è stato perfino più marcato, con l'annuncio di “una nuova era d'impegno con il resto del mondo”. Era quello che il mondo voleva sentire. Infine, Pittsburgh.

    Anche qui la presidenza americana ha fatto un buon lavoro. Non ho mai nutrito illusioni sull'utilità dei summit, e non credo che l'economia globale sia “governabile” in questi consessi che sono in gran parte delle kermesse mediatiche. Tuttavia Obama ha saputo trarre i migliori risultati che ci si potevano realisticamente aspettare da un appuntamento simile. Decretando la fine del G7, per sostituirlo con il G20, come luogo di discussione dei temi economici, ha incassato i benefici politici della definitiva cooptazione delle potenze emergenti come Cina, India, Brasile. E lo stesso ha fatto avviando la revisione degli equilibri di potere all'interno del Fondo monetario internazionale, sempre a favore degli emergenti. Sulle nuove regole per i mercati finanziari e il settore bancario non ci sono state svolte clamorose, ma Obama ha fatto tesoro del buon lavoro svolto dal Financial Stability board sotto la guida di Mario Draghi.
    Un buon lavoro, dunque. Ma proprio il vertice di Pittsburgh si è concluso con un colpo di scena imprevisto, che ha evidenziato i limiti con cui si scontra questo presidente. Mi riferisco alle rivelazioni sul nuovo sito nucleare dell'Iran, che hanno indotto Obama, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown a lanciare un ultimatum al governo di Teheran perché si apra alle ispezioni internazionali. Proprio sull'Iran Obama si era distinto durante la campagna elettorale per una posizione audace e innovativa. Aveva detto, unico fra i democratici, che una volta eletto presidente avrebbe cercato un dialogo diretto con Teheran. Si era attirato duri attacchi, e perfino l'irrisione, da parte del suo avversario repubblicano John McCain.

    Più volte nei duelli televisivi McCain lo definì “ingenuo”. Adesso con la crisi sul nucleare iraniano, Obama è costretto a riconoscere una dura realtà. Non basta il cambio di leadership in America, non basta l'approccio multilateralista della Casa Bianca, non bastano i ramoscelli d'ulivo, perché il mondo diventi improvvisamente più “amico” dell'America. Oggi sull'Iran, pur continuando a esprimere la propria preferenza per il dialogo e le soluzioni diplomatiche, Obama è costretto a non escludere neppure “l'opzione militare”. E si scontra con i nuovi rapporti di forze mondiali. Quando cerca di varare sanzioni economiche per isolare il regime di Teheran, l'America si accorge infatti che in quell'area del mondo l'influenza cinese si è rafforzata in modo sensibile. Senza Russia e Cina, dunque, le sanzioni sarebbero prive di senso. Un cambiamento che evidenzia i nuovi limiti del potere americano. Una “buona” leadership a Washington, moderna e lungimirante, può cercare di gestire al meglio la tendenza al ridimensionamento del primato americano in molti campi e in molte aree del mondo. Difficilmente potrà cambiare il segno di un trend secolare.

    In parallelo Obama è costretto a misurarsi in casa propria con i limiti della sua azione politica. L'America ha un “presidenzialismo imperfetto”, con robusti contropoteri che bilanciano l'esecutivo. Questo può piacere all'opinione pubblica progressista europea quando i contropoteri – come la magistratura e la stampa – tengono sotto controllo un esecutivo conservatore com'era l'Amministrazione Bush. Ma gli stessi “checks and balance” agiscono per frenare e annacquare l'agenda riformista di un presidente democratico. La battaglia in corso al Congresso sulla riforma sanitaria ne è la prova lampante con il primo stop imposto due giorni fa alla proposta del presidente. Tutti sappiamo che l'America ha un sistema di cure mediche afflitto da gravissime carenze, con i suoi 47 milioni di cittadini esclusi dalla copertura. Non tutti, però, conoscono gli effetti paradossali in termini di competitività del paese di quelle carenze. Non si capisce – per esempio – la crisi dell'industria automobilistica di Detroit, se non si ricorda che su ogni vettura prodotta da General Motors, Ford e Chrysler, gravano almeno 1.000 dollari di “sovratassa” aggiuntiva rispetto alla concorrenza: le spese per le polizze sanitarie dei dipendenti. Spese che per la Volkswagen o la Bmw sono socializzate, come in quasi tutti i paesi europei, attraverso la fiscalità collettiva.

    Obama davanti a questa realtà non ha fatto una rivoluzione d'ottobre, ha cercato solo di introdurre un modesto correttivo al sistema, proponendo una “opzione pubblica”. Ciononostante le lobby del settore hanno scatenato la campagna di cui tutti abbiamo letto, facendo breccia non solo tra i repubblicani ma anche nella componente moderata del Partito democratico. Si è evidenziato così che la maggioranza di cui Obama gode al Congresso è tutt'altro che compatta e che il presidente non sembra in grado di “disciplinare” più di tanto il proprio partito.
    Su altri terreni Obama sta deludendo l'opinione più liberal del suo paese, e questa delusione comincia a contagiare anche gli europei. La chiusura di Guantanamo è stata rinviata. La riforma energetica, come quella sanitaria, si scontra con interessi economici potenti, e non è detto che il presidente arrivi al vertice di fine anno a Copenhagen con impegni chiari sulle riduzioni di emissioni carboniche.

    Sulla guerra in Afghanistan, poi, il presidente appare tuttora indeciso, tra le richieste dei militari che lo spingono verso un'escalation nell'invio di truppe, e l'opinione pubblica che è ormai stanca di quel conflitto. Un ritiro dall'Afghanistan è rischioso: se al Qaida rialzerà la testa, se il terrorismo dovesse un giorno tornare a colpire sul territorio degli Stati Uniti, il presidente verrebbe accusato di avere restituito a Osama bin Laden i suoi santuari in Asia centrale. Ma l'escalation può portare a un nuovo “pantano” di tipo vietnamita, e gli americani temono di rivivere in Afghanistan le sconfitte già subite su quel fronte dall'impero britannico.
    In questo campo come in altri, insomma, la realpolitik sta imponendo un duro prezzo all'idealismo di questo presidente. Lasciando ben aperto quel verdetto: sarà un Roosevelt o un Carter? Saprà fare come quel “riformista rivoluzionario” che seppe sbaragliare le resistenze al cambiamento, lasciando in eredità un'America più giusta, più regolata, più generosa di opportunità per i propri cittadini, portatrice di ideali democratici nel mondo intero; o finirà per essere come quel presidente utopista, che fu fonte di molteplici delusioni per i suoi sostenitori e finì per consegnare il paese a una lunga egemonia culturale dei conservatori.

    Io non so come finirà. Non so se Obama sarà ricordato in futuro come un Roosevelt. Ma da europeo innamorato dell'America mi accontenterei che mettesse in atto la lezione di Ted Kennedy. Ted non conquistò mai la Casa Bianca, ma da senatore seppe far progredire un'agenda riformista grazie a un acuto senso dei rapporti di forze, accettando di volta in volta i compromessi inevitabili. Obama per la sua storia personale conosce quella lezione. E' un liberal moderato, che istintivamente evita le fughe in avanti e sa che il buongoverno è l'arte del possibile. Segua questa strada con pragmatismo. Ricordi che sono gli uomini a fare la storia, ma a loro volta gli uomini sono anche il frutto della storia. E lui ha ereditato l'America meno potente degli ultimi 70 anni.

    di Carlo De Benedetti