Perché G8 e G20 si equivalgono.
Cambia il peso delle potenze mondiali. Il G8, cioè il gruppo dei paesi più industrializzati dell'emisfero nord (Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Russia, Stati Uniti) cede il passo al G20, con in testa le nuove potenze emergenti Brasile, India, Cina, che oggi rappresenta l'85 per cento del pil mondiale.
Cambia il peso delle potenze mondiali. Il G8, cioè il gruppo dei paesi più industrializzati dell'emisfero nord (Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Russia, Stati Uniti) cede il passo al G20, con in testa le nuove potenze emergenti Brasile, India, Cina, che oggi rappresenta l'85 per cento del pil mondiale. E pure il Fondo monetario internazionale ridistribuisce le carte, col 5 per cento dei diritti di voto che passano da Francia, Regno Unito, Belgio e Paesi bassi ai paesi emergenti. Il compromesso di Pittsburgh entrerà in vigore nel 2011, per consentire alle nuove potenze mondiali di coordinare le politiche macroeconomiche d'intesa col G20. Ma Bill Emmott, l'ex direttore dell'Economist, non si fa illusioni. La questione più importante, ha scritto sul Times, e cioè lo squilibrio commerciale tra Stati Uniti e Cina, resta fuori dall'agenda del G20. “I grandi summit servono a evitare conflitti, ma non a produrre intese profonde tra gli stati”, conferma oggi al Foglio. Non che si aspettasse di più, ma alla propaganda simbolica avrebbe preferito un dibattito su dettagli concreti, come la valuta o la regolazione finanziaria.
E se uno prospetta l'effetto benefico, in tema di ecologia o di sviluppo del mercato interno, che dal nuovo assetto potrebbero trarre i paesi emergenti, l'inglese resta scettico: “Non vedo il nesso”, risponde Emmott. “L'attenzione all'ambiente è già in atto, come dimostra il prossimo vertice di Copenaghen, e il nuovo processo di voto nel Fmi non ha nulla di rivoluzionario e non avrà alcun effetto sulla politica monetaria cinese”. Il silenzio sul renmimbi dunque rimane, e il tabù della sua convertibilità alimenta l'apprensione di quanti, come gli esperti di Aspenia, lo considerano la vera incognita della governance globale. “I cinesi non considerano la loro valuta una cosa seria e per questo sono costretti a usare i dollari”, spiega il francese Guillaume Faye, teorico della convergenza della catastrofi e del collasso del capitalismo. “Ma il fatto grave oggi è il legame pericoloso tra i due principali attori economici globali. Gli Stati Uniti non producono ciò che consumano e si indebitano sempre di più, mentre la Cina che è il loro creditore è in stato di sovrapproduzione permanente e non potrà rimborsare ciò che ha prestato in bond del tesoro americano. Siamo di fronte a un sistema strutturalmente malsano che nessun G20 potrà mai risolvere e rischia di portare il capitalismo globale a una crisi di collasso”. Anche un altro principe del pensiero altermondista, Alain de Benoist, sebbene favorevole al riequilibrio di potere nel mondo multipolare, sembra perplesso sulla presa effettiva del G20, a cominciare dallo stesso termine. “La governance mondiale indica la somma di un certo numero di paesi riuniti in base al criterio della ricchezza o della potenza economica finanziaria. Ma è una nozione contestabile, legata storicamente alla gestione d'impresa, la ‘corporate governance', e in quanto tale destituita della legittimità politica che deriva da un'elezione democratica”.
Quanto a moralizzare il capitalismo, limitando i bonus dei banchieri, come vorrebbe Nicolas Sarkozy, “è solo un slogan”, dice de Benoist: “La crisi non nasce dai privilegi dei traders, ma da problemi sistemici che il summit di Pittsburgh non ha messo neanche in discussione. Il capitalismo è per antonomasia estraneo alla nozione di morale; mira solo a produrre profitti sempre più elevati estendendo la legge di mercato, e si può moralizzare solo ai margini, intervenendo sui movimenti degli hedge funds, mettendo in causa la legge dell'azionariato, impedendo le delocalizzazioni, separando l'attività bancaria da quella speculativa”. Infine, a nutrire la speranza, è il filosofo del diritto internazionale Danilo Zolo. “Diffido delle istituzioni internazionali, ma guardo con fiducia alla presidenza Obama, che promette una rottura col neo imperialismo dei suoi predecessori, parla di pace garantita dalle grandi potenze, sebbene sia responsabile della strage di innocenti in Afghanistan; difende l'economia globale a vantaggio dei paesi poveri e non solo dei ricchi, sebbene sia difficile controllare il flusso dei grandi capitali speculativi, e non sarà solo il G20 a dare risposte efficaci”.


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