La battaglia più importante del mondo
Valle di Musahi, Afghanistan. Tre mezzi blindati dei parà della Folgore salgono al buio verso la base operativa. Il pilota al volante indossa un visore notturno e così anche il mitragliere là sopra in ralla, fuori dal blindato dalla cintola in su. Gli altri passeggeri distinguono attorno soltanto la cresta nera delle montagne. Leggi Qui il potere si chiama Pashtun
Dal Foglio del 18 luglio 2009
Valle di Musahi, Afghanistan. Tre mezzi blindati dei parà della Folgore salgono al buio verso la base operativa. Il pilota al volante indossa un visore notturno e così anche il mitragliere là sopra in ralla, fuori dal blindato dalla cintola in su. Gli altri passeggeri distinguono attorno soltanto la cresta nera delle montagne. I due vedono invece un intero mondo verdognolo popolato da ectoplasmi, contadini afghani che secondo una tradizione millenaria escono a lavorare soltanto dopo che il sole è calato perché il terreno è più fresco e facile da smuovere. La pista è invisibile, da qualche parte sotto la nuvola lattiginosa della polvere sollevata dalle ruote.
I visori sono così sensibili alla luminescenza del cielo d'Asia che a bordo del Lince tutte le altre luci sono proibite. Anche accendere il display di un telefonino sarebbe come fare esplodere un piccolo sole in cabina e il guidatore sarebbe fatalmente abbagliato. Ma tutti si guardano bene dall'accendere luci. “Perché qui se i talebani le vedono si mettono a sparare”. Mezz'ora dopo si mettono a sparare lo stesso. I guerriglieri attaccano una stazione della polizia afghana a un chilometro e mezzo dalla base dove il piccolo convoglio sta arrivando. Hanno almeno una mitragliatrice pesante. Raffiche tirate con ostinazione. I poliziotti rispondono. I traccianti dei due gruppi s'incrociano nel cielo davanti al fortino. Dentro, sugli spalti ricavati da hescobastion reticolari, pilastri di tela riempiti di terra, i novanta paracadutisti della Folgore sono “attivati”. La risposta più fragorosa tocca alla compagnia Vampiri: salgono sulla piazzola di cemento e sparano con il mortaio da 120 mm, prima colpi illuminanti, poi esplosivi. Da vicino il frastuono di un colpo in partenza è secco, un botto concentrato e subito dietro c'è un tintinnio di metallo. Altra polvere. Tra un colpo e l'altro un parà spiega al Foglio che quelli di giorno lavorano in cucina, perché la base non può mica permettersi specialisti con un ruolo soltanto: i Vampiri con la luce sono cuochi, di notte – quando escono i talebani – si ritramutano in mortaisti.
Gli italiani hanno già per tempo calcolato e previsto le coordinate dei possibili punti di passaggio nella valle, da battere con i mortai “in caso che”. Ora resta soltanto da mettere in pratica. I gesti sono meticolosi, la procedura è solida, gli ordini sono puntuali. “Doppia verifica”. In due leggono il codice sul proiettile, per non confondersi tra munizioni illuminanti, esplosive e di altro tipo. Calcolano chini sulla mappa. Assieme puntano. Annunciano lo sparo. Sparano. A osservare i nostri parà, per quel che si riesce in mezzo alla notte di Musahi, viene su la grande domanda: che fine ha fatto il vecchio Esercito italiano? Che fine ha fatto il caro Esercito italiano buono per le barzellette e le leggende maligne? “Nel 1918 mio nonno cadde in battaglia. Poi si alzò e fuggì via!”. “I carri armati italiani hanno sei marce: la prima e cinque marce indietro”. Dove sono ora i racconti raccapriccianti di chi ha subito la naja obbligatoria, il furiere che s'inguatta la forma di parmigiano in macchina, il tenentino sadico, il colonnello che chiede alle reclute: “Ci sono idraulici tra voi?” e se li porta a casa a fare i lavori? Dov'è finito lo spauracchio dei fuoricorso: “Questo mese darò sociologia del diritto, un esame del cazzo, ma sennò finisco militare”? Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, dice al Foglio: “Se tutto il resto della società italiana – la politica o le università o la magistratura, tutto – avesse fatto negli ultimi dieci anni lo straordinario balzo in avanti compiuto dall'esercito, saremmo un grande paese”.
Zulu Time. Il balzo si spiega con due trasformazioni profonde. Numero uno: non ci sono più coscritti in leva obbligatoria, sono stati sostituiti da volontari professionisti. Numero due: l'impegno in teatri internazionali ostili. E' l'esame severo che non finisce mai: tocca pure lavorare al fianco di altri eserciti e non c'è lo spazio per sciatterie, approssimazioni, errori. Nei centri di comando italiani in Afghanistan sono appesi tre orologi. Uno segna l'ora locale. Il secondo l'ora della città di provenienza del reparto (adesso c'è la brigata Folgore, quindi Livorno, Siena, Pisa). Un terzo è sempre su Zulu Time, l'ora Zulu del meridiano di Greenwich. Per coordinarsi meglio con gli aerei, che volano sempre in questo orario Zulu. Così non nascono problemi e fraintendimenti se – per fare un esempio – si comunica con un velivolo in partenza dal Regno Unito che deve fare rifornimento in una base italiana in Afghanistan.
In Italia i politici, i magistrati, i baroni universitari chiusi nel loro sistema protettivo messo a punto in più generazioni possono anche commettere grossi errori e cavarsela. Non c'è nessun collega estero a giudicarli. I militari italiani no. Loro non possono permettersi di imbrogliare le operazioni con i militari americani, inglesi, olandesi, tedeschi, perdipiù contro un nemico difficile come la guerriglia. E' come se mentalmente, per loro, fosse sempre in vigore il Zulu Time.
Il livello di preparazione nell'esercito d'Italia naturalmente non è uniforme, ma il giudizio d'eccellenza è valido per almeno quattro brigate italiane che si sono avvicendate in Afghanistan: le due degli alpini, “Iulia” e “Taurinense”, la brigata paracadutisti “Folgore” e quella aeromobile “Friuli”.
Vedi – spiega un ufficiale entrando a Camp Juliet, il campo americano sovrastato dalle rovine cannoneggiate del Palazzo della regina a Kabul – queste sentinelle americane che ci hanno appena fatti passare sono ragazzi diciannovenni che arrivano dritti dalla Georgia, e fanno parte della Guardia nazionale: richiamati in servizio, tre mesi di addestramento e via in Afghanistan. Prima di arrivare qui i nostri reparti devono invece qualificarsi con operazioni più semplici. “Prima fanno sei mesi in Kosovo, direi il grado uno di difficoltà. L'anno dopo vanno in Libano, dove la situazione è già più complessa. E soltanto dopo sono destinati all'Afghanistan, quando ormai sono ben amalgamati e hanno già provato dal vivo tutte le procedure. E nelle pause tra una missione e l'altra, addestramento”. Il confronto? “Per esempio, gli americani sono molto più nervosi col grilletto ai posti di blocco. I nostri sono maturi, sanno decidere quando seguire alla lettera la procedura e quando ragionare. In tutti questi anni quassù, dove ogni auto che non si ferma all'alt potrebbe portare un kamikaze con il bagagliaio pieno di esplosivo c'è stato soltanto un incidente mortale”.
Anche i mezzi militari comuni – non però le vette di eccellenza tecnologica – sono in media migliori a favore degli italiani. Il veicolo Vtlm Lince è più protettivo degli Humvee americani e ha già provato la sua resistenza agli attacchi esplosivi. Secondo fonti che preferiscono restare anonime, la morte di Alessandro Di Lisio martedì scorso – ieri a Campobasso c'è stata la cerimonia funebre – su un Lince è dovuta anche a una manovra sfortunata. Il mitragliere s'è accorto di un oggetto sospetto a lato della strada e ha fatto arrestare e indietreggiare il mezzo. Il Lince ha schiacciato in retromarcia la piastra di pressione che aveva mancato pochi secondi prima e la mina – potentissima, ottanta chilogrammi – ha colpito lui e la parte del mezzo meno preparata a resistere a un'esplosione.
I soldati in genere raccontano di essere soddisfatti del loro equipaggiamento italiano. Il nuovo fucile Beretta, ora in prova ai comandanti e alle loro scorte. Le piastre del giubbotto antiproiettile, anche quelle di fabbricazione italiana: “Ne abbiamo presa una scaduta, per provare gli abbiamo sparato contro da dieci metri con l'arma più pesante che abbiamo, un fucile calibro 12. Ha tenuto”, dicono i parà nella base avanzata.
Già che siamo nella demolizione di luoghi comuni: a Camp Juliet, e in generale in tutte le basi americane, la mensa KBR è migliore. Hamburger, salse, gelato, anelli di cipolla fritti. “Venissimo a mangiare sempre qua – dicono gli italiani – saremmo già ingrassati di dieci chili”. Soldati migliori e cibo peggiore.
Persino la comunicazione è cambiata. Rispetto ai tempi di Arturo Parisi – “comunque un ottimo ministro della Difesa” – Ignazio la Russa ha ordinato di aprire le missioni militari ai giornalisti. Prima erano totalmente sigillate.
Il risultato di questa trasformazione militare? Oggi l'esercito è insofferente ai vecchi luoghi comuni. Il soldato all'estero che tiene in braccio i bambini locali. “Non siamo una ong, un'organizzazione non governativa. Non siamo qui a distribuire latticini, non avrebbero mandato noi. Siamo qui per garantire un requisito che viene prima, la sicurezza. Sennò basterebbe finanziare direttamente un'associazione umanitaria, ma il problema è che non si può fare perché quelli di un'associazione umanitaria qui finirebbero sgozzati”. Per questo i soldati scuotono la testa quando sentono la lingua di legno dei media. “I militari impegnati durante una pattuglia…”. Per loro siamo sempre impegnati in pattuglia, come fossimo carabinieri, perché dà al pubblico l'idea che non svolgiamo missioni operative pensate per battere il nemico, ma piuttosto che circoliamo a caso, tanto per manifestare la nostra presenza”. Altre arrabbiature: “I nostri ragazzi”: professionisti con tre missioni all'estero sulle spalle, in media più anziani dei soldati degli altri contingenti. C'è n'è anche per la morte di Di Lisio come raccontata dai telegiornali. “Dicono: la giovane vita spezzata a soli tre mesi dalla fine della sua missione… ma noi siamo consapevoli dei potenziali rischi di quello che facciamo. E poi le nostre missioni sono di sei mesi. Che vuol dire ‘a soli tre mesi'? La crudeltà del destino non sta certo in quei tre mesi che mancano normalmente a tutti”. L'Italia non conosce bene il suo esercito.
I cacciatori di talebani. Come tutti i soldati delle forze speciali, anche i norvegesi della Task Force 51 che gironzolano per la base italiana di Musahi amano prendersi libertà che agli altri militari sono vietatissime. Capelli biondi lunghi che spuntano da dietro i berretti da baseball invece che il taglio corto regolare; scarpe da corsa al posto degli scarponi d'ordinanza; armi verniciate in colori mimetici e personalizzate con ogni genere di accessori – puntatori, torce elettriche – quando gli altri soldati non osano modificare alcunché. I soldati d'élite del nord sono meno muscolosi e più normali di come ce li immaginiamo dopo troppo cinema, ma sono terribilmente efficaci quando vanno a caccia di guerriglieri e dei loro leader. In azione chi li ha visti dice che sono concentrati e freddi. Nei momenti di pausa dentro Musahi ostentano rilassatezza e buon umore: “Sono proprio dei cazzari”.
La collaborazione tra i paracadutisti italiani e gli specialisti norvegesi sta andando avanti da almeno sette settimane. Missioni a due, con l'inglese usato come lingua comune per intendersi sugli ordini. Assieme, i militari hanno già eliminato gli estremisti afghani più pericolosi della zona, compreso l'intero consiglio di guerra del talebano Hamad Gul, che controllava Musahi con il proprio governo ombra di talebani. O meglio: hanno guidato le forze speciali afghane addestrate da loro fin sull'obbiettivo e all'ultimo le hanno lasciate da sole a misurarsi con i loro nemici giurati, per non tradire le proprie regole d'ingaggio. Ma appena fuori dal villaggio, c'era sempre il cordone di sicurezza a doppia nazionalità. Cecchini italiani e cecchini norvegesi. Jtoc italiani (sono gli specialisti che da terra illuminano i bersagli a favore dei bombardieri) e Jtoc norvegesi. Roba forte, operazioni complesse, collaborazione di qualità.
Il fortino italiano a metà valle, per la sua posizione naturale, sorveglia il corridoio talebano che dal sud, da Logar e dal confine con il Pakistan porta fino alla parte molle del paese, l'iperpopolosa capitale Kabul. Una valle già strategica durante la guerra con i sovietici. Fisicamente la base è piccola e non blocca l'intero passaggio. Ma tutt'attorno sono sparsi i suoi punti d'osservazione, alcuni “abitati” da soldati e altri che nascondono telecamere termiche con una grande profondità di campo. Alla base ci sono anche un radar di terra, capace di seguire i movimenti degli animali selvatici, altre potenti telecamere che inquadrano i sentieri obbligati e un piccolo aereo spia. I norvegesi hanno aggiunto sensori acustici, che captano le voci dei guerriglieri e le registrano a favore di traduttori afghani. E ci sono le intercettazioni sui telefonini sospetti. E' la Sigint, l'intelligence basata sui segnali. E poi c'è anche la misteriosa Humint, l'intelligence basata sulle informazioni raccolte dagli agenti in campo. Ma qui si passa nel regno del sentito dire. La voce senza volto di Musahi racconta che i “barboni”, spie occidentali ormai integrate tra gli afghani, vagano tra i villaggi a caccia di tracce importanti: “Gente che puzza e che in licenza va di rado”. Questa è la natura e lo spirito autentico delle attività militari italiane assieme agli alleati in Afghanistan: e non la distribuzione di latticini (anche se naturalmente gli italiani restano dei campioni quando si tratta di allestire ambulatori volanti per curare la popolazione nei villaggi).
Non c'è da meravigliarsi che il comandante della base, il capitano Giacomo Veroli, 33 anni, terzo al suo corso all'Accademia – “così mi hanno permesso di scegliere l'assegnazione, ho scelto i paracadutisti” – ammetta: “In Italia? Quando esco alla sera capita di annoiarmi”.
Alla base madre di Kabul, Camp Invicta, gli ex casermoni dell'esercito sovietico rimessi a posto dagli italiani, c'è lo stesso spirito. Ogni sera gli ufficiali fanno rapporto tutti, a turno, al colonnello Aldo Zizzo, il comandante del 186° reggimento. Tutti attorno a un tavolo, tanto inglese, tanti numeri, tante slide proiettate sul muro. “Stare sul loop”. Le “operazioni on going”. Gli “observation post”. Però c'è un di più. A Zizzo e ai suoi piace il sorriso affilato da squalo, lo humor a denti bene in vista e finire la rassegna informativa con cameratismo e piglio alla Tony Soprano. Poco dopo, a tavola, per lo sbigottimento del cronista, dopo avere parlato di distretti afghani il colonnello sfoggia con il suo secondo una conoscenza appassionata di reality show. “Quella Federica, quella bionda che ha lanciato il bicchiere al Grande fratello. Quella si che è proprio paracadutista dentro, la voglio qua con noi”.
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