Millecinquecento lettori per un incesto politico quotidiano

Redazione

"Certe ribellioni, alla mia età, sono onorevoli e un poco ridicole. Mi sembra di soffrire per cose che altri, arrivati qualche anno dopo, hanno sempre saputo”. Si chiude così uno dei pezzi più famosi del giornalismo italiano, Millecinquecento lettori. Confessioni di un giornalista politico, che l'allora 38enne Enzo Forcella pubblicò nel giugno di cinquant'anni fa su “Tempo presente”.
Leggi “Ero convinto che il giornalismo fosse solo fatti, m'ero impigliato in un grosso equivoco”- Leggi Ma ai tempi di Forcella la politica contava ancora

di Marco Palombi

    "Certe ribellioni, alla mia età, sono onorevoli e un poco ridicole. Mi sembra di soffrire per cose che altri, arrivati qualche anno dopo, hanno sempre saputo”. Si chiude così uno dei pezzi più famosi del giornalismo italiano, Millecinquecento lettori. Confessioni di un giornalista politico, che l'allora 38enne Enzo Forcella pubblicò nel giugno di cinquant'anni fa su “Tempo presente”, la rivista di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone (Donzelli lo ha ristampato nel 2004 con ottimi lavori di accompagnamento di Guido Crainz). L'attacco era fulminante: “Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell'aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse della intera politica italiana: è l'atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall'infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante”.

    Magari è un testo un po' datato, incistato com'è nel dibattito degli anni Cinquanta e in un certo titanismo intellettuale un po' castrato tipico del periodo, ma resta comunque un ritratto antropologico pressoché definitivo di quella bestia strana che è il giornalista da Transatlantico e del rapporto edipico che questo intrattiene con la sua controparte, il politico: il delirio d'onnipotenza di chi crede di fare la storia invece di raccontare storielle, la zona umidiccia delle complicità private, il pendolo cinico tra adulazione e veleno (“una sola goccia, altrimenti ci si mette fuori dal sistema”), il gioco d'equilibrio tra le correnti per coprirsi le spalle. Il giornalista è uno sbafista che raccoglie briciole sotto la tavola mentre sogna la torta, ha scritto anni fa Stenio Solinas in una divagazione su Evelyn Waugh per il Giornale.

    Il rapporto dei millecinquecento lettori con il giornalista politico è molto stretto, in un certo senso si può dire che giunge fino alla identificazione: ogni mattina essi fanno colazione con lui (se hanno l'abitudine di leggere i giornali mentre prendono il caffè latte), spesso lo invitano a pranzo e gli fanno pervenire attraverso colleghi o amici comuni i sensi della loro considerazione”. Questo rapporto incestuoso – giornalisti, politici, editori, potere economico – era, a parere di Forcella, non solo la cifra del giornalismo politico italiano, ma la sua dannazione, il suo peccato d'origine, la rupe da cui gettava la possibilità di raccontare i fatti con qualche oggettività. Tralasciando l'obiettività che è questione epistemologica piuttosto complessa e rimanendo rasoterra – al livello del giornalismo, appunto – questo giornale ha spesso sostenuto che nella piccola pratica quotidiana del racconto la libertà è al contrario esibire le proprie catene (niente drammi, il lucchetto non è chiuso).

    D'altronde, se è irritante l'esacerbato spirito di parte, non meno lo sono gli eterni iscritti al partito che non c'è. Mario Melloni, il Fortebraccio dell'Unità, uomo dalle cravatte impeccabili e, come peraltro Forcella, intellettuale assai incline al bon ton da salotto Guermantes, scrisse in uno dei suoi corsivi: “Quando uscii dalla Dc (era stato deputato democristiano nel Dopoguerra, ndr) avrei potuto diventare un libero pensatore, invece ho scelto di diventare un libero conformista”. Perché parlare di Forcella allora? Perché sul Foglio? In primo luogo perché questo giornale – che i suoi accoppiamenti poco giudiziosi ha sempre esibito senza vergogna – proprio nel rapporto coi millecinquecento lettori (si fa per dire, sono di più) ha fondato la sua ragione sociale, la sua capacità di stare nella società e di condizionarla per quel poco che si può, poi perché c'è una bella distanza tra prendere una posizione e attitudine al gregariato e, infine, perché queste oramai cinquantenni Confessioni sono un gran pezzo, scritto benissimo, divertente e, casualmente, pure una delle poche riflessioni sul mestiere che non siano un concerto per trombone.

    Se questo non bastasse, quella di Millecinquecento lettori è anche una bella storia da raccontare: una piccola storia dei Cinquanta, gli anni d'acciaio. Enzo Forcella, classe 1921, romano, aveva attraversato il fascismo accettandolo come “un dato di natura” e dopo l'8 settembre s'era ritrovato come anestetizzato, atono: i nove mesi dell'occupazione nazista di Roma li passò chiuso in casa, solo, a leggere e tradurre Benjamin Constant e Gérard de Nerval. “A partire dal 1945 – scrisse Pietro Citati nella prefazione a “La resistenza in convento”, ultimo libro del giornalista – tentò una specie di esorcismo. Diventò giornalista politico, si immerse nella cosiddetta vita reale, commentò giorno per giorno le escogitazioni della grande e della piccola storia, con una lucidità che non venne mai meno. Ma, nemmeno in quel periodo, prese veramente partito: era sempre, almeno un poco, dall'altra parte”. Nel Dopoguerra oscillò tra le varie anime del progressismo laico – azionista, liberale di sinistra, socialista – lavorando al Nuovo Corriere di Romano Bilenchi e poi, dalla fine degli anni Quaranta, al Mondo di Pannunzio, che per anni sarà la sua vera casa, per approdare infine nel secondo giornale italiano, La Stampa di Giulio De Benedetti, direttore cui non dispiaceva esibire una vena di spregiudicatezza da contrapporre al plumbeo conservatorismo del Corsera di Mario Missiroli. Forcella è inviato a Roma, giornalista parlamentare e notista politico tra i più importanti: è in questa veste che va a Napoli nel gennaio 1959 per seguire il XXXIII Congresso del Psi, il secondo dall'invasione sovietica dell'Ungheria e quello che segna l'addio definitivo al frontismo e la marcia d'avvicinamento al patto di governo con la Democrazia cristiana. “Le mie corrispondenze – racconterà Forcella trent'anni dopo – ne suggeriscono, nel complesso, una lettura positiva (…) La direzione del giornale, invece, asseconda l'atteggiamento di Saragat (e della Fiat) che per ragioni tattiche ha tutto l'interesse a presentare il Psi come incapace di svincolarsi dalla politica filocomunista. Di conseguenza cestina i commenti che invio da Napoli”.

    Sul treno che lo riporta a Roma Forcella, tra un saluto del controllore e un'occhiata a una ragazza salita a Formia, decide di farsi licenziare. La faccenda si trascina per un po' e si risolve qualche settimana dopo con una risoluzione consensuale del contratto (e una buonuscita abbastanza misera): a quel punto il nostro se ne va negli Stati Uniti per un viaggio di studio pagato dall'Usis, al suo ritorno mette su carta Millecinquecento lettori, che esce su “Tempo presente” nel giugno 1959. Il suo, comunque, non è un caso isolato: sono i mesi dell'agonia del centrismo e i colpi di coda s'abbattono un po' a caso. Pochi mesi dopo il governo Fanfani, appoggiato da Dc e Psdi, è costretto alle dimissioni e viene sostituito da un monocolore democristiano guidato da Antonio Segni. Il futuro presidente della Repubblica resta in sella meno di un anno, ma fa in tempo a licenziare Gaetano Baldacci, direttore del Giorno, all'epoca nella disponibilità dell'Eni. La decisione, risulta dai verbali, venne presa addirittura nel Consiglio dei ministri del 23 dicembre: Baldacci, dice Segni, “ha continuato a mantenere la sua linea, nonostante le ripetute diffide”.

    Ovviamente il bersaglio è Enrico Mattei, che con l'industria petrolifera di stato persegue una sua politica estera decisamente poco atlantica. Quando poi, siamo nel 1960, a Palazzo Chigi va a sedersi Fernando Tambroni (premier di un monocolore Dc sostenuto dal Msi), fu addirittura Enzo Biagi a perdere il posto: era successo che l'allora direttore di Epoca, dopo i fatti di Reggio Emilia, aveva scritto un innocuo editoriale – titolo “Dieci poveri inutili morti” – in cui se la prendeva con “coloro che vedono in ogni movimento, in ogni critica, esclusivamente una manovra del Pci”. Due settimane dopo il vecchio Arnoldo Mondadori aveva consegnato la sua testa alla destra democristiana.
    Millecinquecento lettori insomma colse in anticipo l'aria che tirava e scatenò un dibattito, solo in parte pubblico, che durò a lungo. Su “Tempo presente” gli risposero in due: nel numero di luglio Antonio Ghirelli, all'epoca direttore di Tuttosport, uscito dal Pci dopo il '56 e da allora vicino ai socialisti, e su quello di agosto Cesare Mannucci, collaboratore del Mondo e vicedirettore delle edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. “Devo dichiarare che quanto ha scritto Forcella è vero punto per punto ma che, tuttavia, le conclusioni cui giunge mi sembrano false”, scrive nella sua replica Ghirelli, secondo cui “la deposizione” di Forcella “contro l'immoralismo inerte dell'ambiente italiano rimbalza come una prova a favore del comunismo”, è insomma “un invito al suicidio (…) senza alcuna contropartita” (“stai tranquillo, caro Antonio, il potenziale difensivo della Nato è intatto”, si vide rispondere).
    Ma è più avanti che il futuro direttore del Tg2 incide la carne della questione con una certa cattiveria: “Per anni – scrive – abbiamo letto Forcella e imparato a gustare il suo adulterio con Fanfani. Santo cielo, c'è del sapore anche nel vizio, nel peccato, nella ben dosata menzogna”. E invece “a leggerlo oggi sembra che abbia scambiato sul serio in tutti questi anni i parlamentari o i sottosegretari per personaggi di un dramma, per forgiatori d'uomini, per eroi”.

    E' un problema dell'intellettuale italiano, sostiene Ghirelli: “Potremmo dire che ci trasciniamo dietro l'illusione di cambiare la faccia del mondo con la penna esattamente da quando la penna ci si è spezzata tra le mani”. La verità è che “le contraddizioni di cui egli parla come di provvisorie e casuali falle aperte nel sistema”, e unico spazio di libertà per il giornalista, “sono la sola realtà, non tanto del sistema, quanto della vita”.
    Il giovane Mannucci invece, più tradizionalmente, si limitò ad una molto saggia paternale sul fatto che i lettori comuni contano comunque, anche se non colgono tutte le sfumature della lingua iniziatica in vigore in Transatlantico.

    In ogni caso, scrive, “i quotidiani fanno sempre politica, non se ne possono astenere”: nemmeno il giornale più liberale ed economicamente indipendente “può essere davvero obiettivo e imparziale: sarà, questo sì, parziale e impegnato in modo più aperto e moralmente elevato”. Insomma, “di nessun giornale al mondo si può giurare la perfetta aderenza ai fatti, mentre si svolgono. Le ‘versioni' sono un fatto ineluttabile: soffrire di questo è eccessivo”. Tanto più che sono gli stessi lettori, acquistando o non acquistando il giornale, ad impedire che la linea politica venga alterata. “E' esattamente quello che diceva il mio direttore quando aveva voglia di recitare”, gli risponde Forcella sul numero di settembre: “Se Mannucci crede a questo, ha da imparare tutto sul giornalismo italiano e sui sofismi con cui i cosiddetti ‘detentori del potere' cercano di difendere le loro posizioni”. La discussione si accese anche su altre testate (ma non le maggiori).
    L'Almanacco letterario Bompiani del 1960, ad esempio, gli dedicò ampio spazio decretandolo “articolo più importante dell'anno”. Ne scrissero assai bene Ennio Flaiano sul Mondo (“prezioso articolo”), L'espresso, la Voce Repubblicana, L'Avanti, Critica sociale, Mondo nuovo, il settimanale Tempo. Non piacque, invece, ai comunisti. Paolo Spriano, ad esempio, sull'Unità commentandolo mandò a dire a Forcella che “oggi, come ieri, il giornalista che scrive su un giornale operaio, per la classe operaia, è più libero, qualitativamente più libero di un giornalista borghese. Nella nostra società anzi il nostro è l'unico modo di essere liberi” (si beccò una rispostaccia sulla “cattiva coscienza affiorata e subito sepolta” dopo i fatti del '56). Su Vie Nuove, altra testata del Pci, una nota siglata “lp” (presumibilmente Luigi Pintor) presentò il testo – significativamente censurato dalle critiche al Partito comunista – irridendo gli intellettuali borghesi dallo “scetticismo assaporato e compiaciuto” che fanno “la grande rinuncia nell'atmosfera rarefatta di scompartimento ferroviario”.
    Conclusione: “Si può essere ‘inseriti' anche dedicandosi a coltivare rose in un giardino, pur se questa attività è certo più piacevole che coltivare l'ipocrisia in un giornale”.

    Come detto mancarono le grandi testate – “un'altra occasione mancata” la definisce Paolo Murialdi nella sua storia del giornalismo italiano – ma non le testimonianze private di singoli cronisti di nome. Tra le moltissime lettere di sostegno arrivate a Forcella ci sono quelle di Goffredo Parise, Piero Ottone, Ugo Zatterin, Lucio Manisco, Michelangelo Antonioni (“che splendido e terribile articolo. E che film, se si potesse fare”) e le due di Carlo Casalegno, all'epoca caposervizio della Stampa, ucciso dalle Br nel 1977: “Continuo a fare il giornalista senza illusioni e senza entusiasmi, non per un senso di missione, ma perché sto sempre più piegandomi sul mio ‘particulare'. Non credo più che si possa fare molto, si può fare sempre meno (almeno in queste sedi); ma, tentando altre vie, come mi troverei materialmente? Che sarebbe la mia vita?”. Erano gli anni Cinquanta, le vite di tutti si giocavano nello spazio ristrettissimo tra est e ovest e la carta stampata contava (o aveva l'illusione) di contare ancora qualcosa.
    Oggi non più, ma la “recita in famiglia” di Forcella fa diverse repliche al giorno alla tv, dove persino gli ostinatamente antagonisti hanno una loro parte in commedia. Da noi, poi, esistono ancora i blocchi, solo commisurati ai tempi che non sono più d'acciaio, e resiste pure una certa arietta da conflitto continuo a bassa intensità (“Da guerre intestine, giornali di merda”, insegna una vignetta di Massimo Bucchi). Nessuno scandalo, comunque, è il normale – e da noi appena un po' più patologico rispetto al resto dell'occidente – fluire degli interessi e delle opinioni di cui il giornalismo è la schiuma sulla risacca.

    “Il giornale è il bollettino di un gruppo di potere che fa un discorso ad un altro gruppo di potere”, ha scritto Umberto Eco in un saggio di quasi quarant'anni fa. Un aforisma, si sa, è una mezza verità o una verità e mezzo e questa frase, depurata del moralismo d'accatto, non fa eccezione. Quanto ai “piaceri” e ai “dispiaceri” del singolo giornalista – i secondi per Forcella avevano di gran lunga sopravanzato i primi – sono ancora lì a farsi pesare da ognuno, come d'altronde la linea sottile che distingue l'adulta consapevolezza della realtà dalla sua glorificazione. “Tra l'avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria e il muovercisi dentro perfettamente a proprio agio – cantava Giorgio Gaber – esiste la stessa differenza che passa tra l'avere il senso del comico e essere ridicoli”.

    di Marco Palombi