Millecinquecento lettori

“Ero convinto che il giornalismo fosse solo fatti, m'ero impigliato in un grosso equivoco”

Redazione

"Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie".

di Enzo Forcella

    "Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell'aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse della intera politica italiana: è l'atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall'infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante.

    Il rapporto dei millecinquecento lettori con il giornalista politico è molto stretto, in un certo senso si può dire che giunge fino alla identificazione: ogni mattina essi fanno colazione con lui (se hanno l'abitudine di leggere i giornali mentre prendono il caffè latte), spesso lo invitano a pranzo e gli fanno pervenire attraverso colleghi o amici comuni i sensi della loro considerazione. A Natale, e quando è molto importante anche a Pasqua, il giornalista politico riceve dai suoi estimatori molte cassette di liquori. E' invitato a tutti i ricevimenti. Ha onorificenze. Se deve chiedere qualche cosa alla burocrazia la ottiene assai più facilmente del cittadino qualunque. Le mogli hanno sufficienti motivi per essere soddisfatte. Per inciso – ma è un particolare di qualche importanza – aggiungerò che a poco a poco negli ultimi anni, attraverso i segretari particolari o con mezze parole scherzose scambiate nei corridoi di Montecitorio, i ministri e gli altri donatori di cassette sono stati convinti a cambiare i liquori italiani (particolarmente Buton, Sarti e Landy frères) con whisky scozzese, cognac e champagne francese ed ora anche vodka polacca o russa.

    Nel Natale del 1958 la paziente e difficile opera di convincimento aveva ormai raggiunto le più restie roccaforti. I vinai di quartiere non sono stati più sollecitati a permute complicate ma in definitiva sempre vantaggiose per entrambe le parti; sulle mense dei portieri le bottiglie di spumante nazionale sono apparse in numero estremamente ridotto. […] Questi sono i piaceri del giornalista politico. Se ne deve dedurre che egli è ammesso a godere, di riflesso, i vantaggi del potere? O non è lui stesso un elemento del potere, e proprio in tale certezza trova il suo maggiore e impagabile piacere, il piacere della potenza? E' una questione controversa. Ho conosciuto colleghi convinti, in perfetta buona fede, di aver creato e fatto cadere governi, imposto svolte radicali nella politica delle alleanze, creato o spezzato carriere di Primi ministri. Personalmente sono piuttosto scettico sul potere reale del famoso quarto potere o più esattamente – poiché solo di questo si tratta – di coloro che lo esercitano per conto dei direttori e dei proprietari di giornale. Penso che si limitino a registrare, quando glielo consentono e non senza un certo disgusto, i comunicati di una partita che si svolge sopra le loro teste. Non nego che qualcosa si possa fare, specialmente quando si trova gusto al gioco e se ne conosce a fondo la tecnica, ma i margini sono limitati e i dispositivi di sicurezza con cui gli effettivi detentori del potere difendono i loro domini scattano quasi sempre efficacemente al momento giusto. Su questo punto, tuttavia, mi è molto difficile essere obiettivo. Conosco il pericolo di sbagliare, per eccesso o per difetto […]

    Le millecinquecento persone che danno al giornalista politico i suoi più attraenti e meno venali piaceri sono anche quelle che gli possono infliggere i più cocenti dispiaceri. Un aggettivo di troppo, una notizia che sarebbe stato opportuno dimenticare tra i tasti della macchina per scrivere determinano reazioni a catena, spiacevolissime. Quanti tesori di flaubertiana pazienza alla ricerca della parola adatta si sono spesi e continuano a consumarsi nelle stanze maleodoranti della “sala stampa”; e quale miracoloso senso del tempo e del limite deve presiedere alla scelta di una annotazione se si vuole comunicare l'impressione senza includervi l'elemento negativo che essa comporta […]
    Quando cominciai a fare il giornalista pensavo che il giornalismo fosse prima di ogni altra cosa informazioni, fatti, notizie. (Era appena finita la guerra, mi rendevo confusamente conto che la politica sarebbe stata per molti anni la misura della nostra vita ma capivo anche che non avrei mai potuto identificarmici completamente; l'impiego politico, come del resto ogni tipo di azione, comporta una dose di fanatismo, una capacità di accettare la falsificazione strumentale della realtà, che sono estranei alla mia natura. Seguivo con la stessa appassionata attenzione una processione religiosa o una Festa dell'Unità: non sarei mai stato né un cattolico né un comunista ma ritenevo che il giornalismo fosse anche questo, la comprensione di quel poco o molto di autentico che decide la partecipazione della gente a quei riti). Mi sono accorto lentamente, troppo lentamente, di essermi impigliato in un grosso equivoco. I fatti, per un giornalista politico, non parlano mai da soli. O dicono troppo o dicono troppo poco. Quando dicono troppo bisogna farli parlare più sottovoce, quando dicono troppo poco bisogna integrarli per renderli al loro significato. Ma la chiarezza, in questo lavoro, è una virtù ingombrante. Le note di servizio che raccomandano: “Tenersi ai fatti, senza commenti o interpretazioni” sono un invito ad accettare come autentica la verità propagandistica che i politici hanno interesse a diffondere, e rinunciare a spiegare che cosa si nasconde dietro la genericità, l'ottimismo di maniera, i falsi furori e la interessata confusione dei comunicati ufficiali. Tutti i dispiaceri del giornalista politico, forse, si riducono ad uno fondamentale, che è quello di non riuscire a fare il proprio mestiere. Spero di non avvalorare l'impressione che l'esercizio della libertà di stampa sia pressoché impossibile nel nostro paese. Al contrario: lo si può praticare con relativa facilità purché si usino alcuni accorgimenti e si sia abbastanza pratici nei trucchi del mestiere. Cercherò di elencare alcune regole che potrebbero facilitare il compito di un giovane all'inizio della carriera.

    1) Il “sistema” non è monolitico. Si può, senza farsi troppe illusioni, giocare sulle sue contraddizioni. C'è quasi sempre un angolo dal quale si può fare un po' di anticonformismo riscuotendo l'approvazione di altri conformisti. Da questo punto di vista è una fortuna che ci sia toccato in sorte un partito di maggioranza come il democristiano. Con tutti i “vespisti”, “notabili”, “concentrazionisti”, “iniziativisti”, “doroteiani” che movimentano le sue cronache, la copertura delle spalle è diventata un gioco da bambini. L'insinuazione contro Andreotti farà felice Fanfani, che forse troverà anche il modo di farvi pervenire le sue congratulazioni; e viceversa. (Non alternare troppo le insinuazioni per non essere accusati di ipercriticismo pregiudiziale distruttore.
    2) Conformismo e paura scoraggiano i timidi ma offrono un salvacondotto ai guastatori. Si è in famiglia, l'ho già detto, e non si rischia quasi niente. Si può rimanere per alcuni anni in un posto chiave sforzandosi di stillare quotidianamente la propria goccia di veleno (non più di una goccia, altrimenti ci si mette fuori del sistema) ed ottenere elogi, aumenti di stipendio. La gente odia lo scandalo e viviamo in un paese dove, da un certo grado in su, non viene più licenziato nessuno.
    3) Gli attacchi della stampa di estrema sinistra. Rallegrarsene quando arrivano. Provocarli se è possibile. Sono un lasciapassare indispensabile per assicurarsi una certa libertà di critica tra i detentori del potere […]

    E' mia ferma convinzione, come forse è già risultato chiaro dalla lettura di queste note, che nell'attività di un giornalista politico il conto dei dispiaceri supera quello dei piaceri. Perché allora tante esitazioni? Sono pieno di simpatia per i miei colleghi. Anche se potessi (sono troppo carico di rispetti umani) non vorrei parlare male di tutti, solo di una parte. Cercherò di rispondere all'interrogativo badando soltanto alla mia esperienza e contenendo perciò le eventuali conclusioni nei limiti di un “caso personale”. Non è mai facile tirare la mano fuori dall'ingranaggio. Il bilancio tra piaceri e dispiaceri non si presenta mai allo stato puro e la rigorosa semplicità del processo dialettico è tale soltanto nei ragionamenti a posteriori dei filosofi. Si esita, un giorno prevale la nausea ed un altro giorno la soddisfazione per avercela ancora fatta. La stessa nausea può trovare un compenso psicologico nella contemplazione di se stessa. Per esempio, scrivere un saggio o un diario, dove la nota sofferta emergerà dalla onesta brutalità della analisi, sul tema: “Siamo gli intellettuali alienati della nostra società borghese dalla quale peraltro non possiamo divorziare perché ne condividiamo gli originari valori fondamentali”.

    E poi: quale è la tentazione alla quale bisogna resistere, quella della rottura o quella di insistere nell'inserimento? Il mondo è da sempre. diviso tra inseriti e protestatari, ma ai nostri tempi sono primi che conducono la partita. Tutte le ideologie dell'epoca sono contrarie alla rottura. Marxisti, cattolici, psicanalisti diramano in continuazione messaggi di invito a resistere, ad accettare (sia pure con una riserva mentale), a lavorare dall'interno. E' anche vero che, contemporaneamente, propongono di ammirare, nel cinematografo e nella vita, i personaggi che si ribellano al loro stato: è l'ultimo rifugio del libero arbitrio, la società provvede a tutto ma ci lascia la scelta essenziale. Personalmente sono sempre stato portato a comprendere tanto le ragioni degli inseriti che quelle dei protestatari ed ho cercato nella mia attività professionale di riecheggiare entrambe, volta per volta, a seconda delle circostanze. Lavoravo in un giornale cui non dispiaceva una vena di spregiudicatezza, sempre che non diventasse troppo compromettente. Il direttore sapeva come stavano le cose ma riusciva a nasconderlo anche a se stesso. A settant'anni, se ci è rimasta abbastanza intelligenza per distinguere, è triste dover ammettere che siamo soltanto dei modesti esecutori d'ordini e non, come abbiamo sempre sognato, dei geni della navigazione di notte. Lo assecondavo tirando la corda sempre sino al punto giusto, mai un centimetro oltre. Me ne era silenziosamente grato, andavamo molto d'accordo. Perché, nonostante tutto, un certo giorno la corda si spezza? […]

    So soltanto che piano piano, sempre più forte, si comincia a sentire il bisogno di scrollarsi un po' di tutta la falsa rispettabilità che ci si è accumulata addosso nel corso degli anni. Si moltiplicano i segni dell'insofferenza. Ne ho abbastanza di questa politica e, forse, del giornalismo. Arriva tutto, ma sempre così in ritardo. L'unico grosso motivo di sconforto è in questa sensazione di essere in ritardo su me stesso almeno di dieci anni. Certe ribellioni, alla mia età, sono onorevoli e un poco ridicole. Mi sembra di soffrire per cose che altri, arrivati qualche anno dopo, hanno sempre saputo.

    di Enzo Forcella