Il fattore k (come Kasper)

Redazione

"Veritatem in caritate” (Efesini 4,15) scriveva san Paolo agli Efesini: “La verità nella carità”: questo è il motto che il cardinale Walter Kasper scelse vent'anni fa quando fu ordinato vescovo di Rottenburg-Stoccarda in Germania, la sua patria. Queste sono le parole che continuano ad essergli più care fra quelle che ci ha lasciato Paolo.

    Indetto lo scorso giugno da Papa Benedetto XVI per celebrare il bimillenario della nascita di san Paolo, l'Anno paolino contempla un fitto calendario di eventi liturgici, culturali ed ecumenici, cui si aggiungono convegni e numerose iniziative pastorali e sociali ispirate alla spiritualità paolina. Questa è la terza di una serie di interviste (la prima a padre Raniero Cantalamessa, il 21 marzo, la seconda a Adriano Pessina, il 14 aprile) dedicate all'apostolo delle genti e alle sue celebri lettere.

    "Veritatem in caritate” (Efesini 4,15) scriveva san Paolo agli Efesini: “La verità nella carità”: questo è il motto che il cardinale Walter Kasper (nella foto, il cardinale, primo da sinistra, durante un incontro ecumenico nel 2003) scelse vent'anni fa quando fu ordinato vescovo di Rottenburg-Stoccarda in Germania, la sua patria. Queste sono le parole che continuano ad essergli più care fra quelle che ci ha lasciato Paolo. Nominato nel 2001 presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani, il cardinale Kasper spiega così la predilezione per queste parole: “L'espressione veritatem in caritate è una sorta di ponte fra i due incarichi che hanno segnato la mia vita ecclesiale: sono stato per 25 anni docente di Teologia dogmatica e in questo ruolo il mio principale compito era insegnare e spiegare la verità. In qualità di vescovo venivo chiamato a viverla, farla e a darla nella carità, per edificare la chiesa che mi veniva affidata”.

    Il cardinale Ratzinger, nell'omelia della messa “Pro eligendo romano pontefice” del 18 aprile 2005, diceva commentando questo passo: “Adulta non è una fede che segue le onde della moda e l'ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell'amicizia con Cristo. E' quest'amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell'esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come ‘un cimbalo che tintinna' (1 Corinzi 13,1)”.

    Da queste parole del Papa si comprende che tanto più ci avviciniamo a Cristo, tanto più riusciamo a fare la verità nella carità: come si costruisce e si rafforza l'amicizia, la comunione con lui? Come fare – cito Paolo – per avere in noi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo?
    “Anzitutto vorrei dire che sono pienamente d'accordo con le chiare e profonde parole del Santo Padre. Un dialogo che meriti questo nome non è un qualsiasi ‘small talk' ma presuppone partner che abbiano una ferma posizione e convinzione: solo così possono avviare uno scambio sincero. D'altra parte un tale scambio esige, oltre all'esercizio intellettuale, una personale apertura e una comunicazione che, in ultima analisi, è una autocomunicazione. Così, in ogni dialogo, verità e carità sono inseparabili e ciò vale soprattutto nel dialogo ecumenico, che Papa Giovanni Paolo II ha definito uno scambio non solo di idee, ma di doni. Inoltre, la verità della fede cristiana non è un sistema astratto, ma una persona; l'amicizia con Cristo è il fulcro e il fine della vita cristiana: essa è dono di Dio e il dono si accoglie aprendo il cuore. Concretamente ciò significa, ad esempio, mettersi in ascolto della sua parola e lasciarsi da essa interpellare e plasmare, significa accostarsi ai sacramenti che sono sempre un incontro personale con lui. In questo modo ogni persona può avvicinarsi a Gesù Cristo, comunicare con lui, essere in lui. E' così che l'amicizia nasce e può crescere, in un cammino che non avrà mai fine. Aggiungo un'ulteriore riflessione: Gesù ai suoi discepoli, a tutti noi, ha detto: ‘Imparate da me che sono mite e umile di cuore'. Mitezza e umiltà identificano lo stile di Gesù. E' infatti con mitezza e umiltà che lui vuole esprimere la verità, e la verità è lui stesso, e lui è l'autocomunicazione di Dio, è carità, è amore: questa è la verità fondamentale della nostra esistenza. Tanto più noi ci avviciniamo a Cristo, tanto più si fa intima e profonda l'amicizia con lui, tanto più verità e carità si fonderanno anche in noi. A questo proposito e in vista di questo fine, la chiesa cattolica ha sviluppato nel corso dei secoli la nozione di epicheia, che la chiesa ortodossa chiama principio di economia: si tratta di prendere sul serio la verità ma saperla applicare alla situazione concreta della persona che abbiamo di fronte, saperla applicare con rispetto, comprensione, compassione e misericordia, come ha fatto Gesù. L'epicheia è decisiva per la pastorale: mai dimenticare la verità, ma applicarla con misericordia alle singole persone, affinché queste la possano accettare”.

    In Italia oggi molti rimproverano la chiesa di dire troppi no e di essere troppo dura. “Bisogna tener presente che i no della chiesa sono in funzione di un sì più grande. Ciò che la chiesa offre e porta è una buona notizia, l'amore infinito e incondizionato di Dio per ogni uomo, di un Dio che salva e dona vera felicità ed eternità. Dobbiamo impegnarci a comunicare che Dio non toglie niente all'uomo, ma dà tutto. D'altra parte ogni sì, se è serio e sincero, implica anche un no a posizioni e scelte contrarie. Nelle promesse battesimali, che rinnoviamo a ogni vigilia pasquale, prima di dire sì a Dio e a Gesù Cristo diciamo un no al male e al peccato. Così la chiesa deve parlare con chiarezza, senza ambiguità ed è per questa ragione che è stata sempre osteggiata nel corso dei secoli: Cristo è segno di contraddizione e lo resterà sempre! Naturalmente dobbiamo anche essere prudenti e attenti per non dare un'impressione sbagliata, quella di essere senza misericordia. Gesù odia il peccato ma ama il peccatore: questa distinzione rimane per tutti fondamentale. Il perdono è il grande dono del Vangelo, ciò che caratterizza la religione cristiana e la distingue dalle altre. Noi abbiamo sempre bisogno di essere perdonati, da Dio e dagli uomini. Perdonare significa: è possibile ricominciare; questa è la gioiosa novella che la chiesa annuncia.
    Paolo non esitò a rimproverare l'apostolo Pietro, ma decise di non mangiare le carni sacrificate agli idoli per non dare scandalo ai fratelli più deboli nella fede. Oggi chi sono i fratelli deboli nella fede che non bisogna scandalizzare?

    “Vi sono molti e diversi fedeli che possono essere definiti piccoli. Penso, per esempio, ai fedeli semplici, che pregano e vivono al meglio la loro vita cristiana quotidiana, ma che non hanno approfondite conoscenze di teologia e non possono e neanche devono sapere e comprendere tutte le fini distinzioni, le alte speculazioni, le controversie e talvolta le pure ipotesi che i teologi fanno. Penso che non sia né responsabile né rispettoso coinvolgerli in tali discussioni che li confondono e li allontanano dalla loro fede. Anzi, penso che loro siano la vera base della chiesa. Il mio pensiero va anche ai giovani, che si trovano a crescere in un mondo disorientato. Moltissimi ragazzi sono smarriti, confusi, si sentono soli, abbandonati, incompresi e frastornati da miriadi di proposte. Crescere è molto difficile per loro, lo è più di quanto lo sia stato per me: quando ero giovane la società non era segnata dal pluralismo come oggi, tutto era più chiaro, l'orientamento da dare alla vita era facilmente riconoscibile. Oggi non è così. Sono convinto che con i giovani occorra anzitutto molta pazienza. E' necessario aiutarli a crescere nella verità usando carità, e quindi stando loro vicini, senza essere impazienti quando mostrano esitazioni o commettono errori. Soprattutto ritengo importante farli sentire accolti e amati, perché è di questo che hanno soprattutto bisogno. In questo senso hanno anche bisogno di essere compresi e guidati non soltanto con i rimproveri ma anche con la testimonianza vera. I giovani hanno sete di infinito e di assoluto, sono in cerca di adulti credibili, sono desiderosi di scoprire qual è il senso della vita e cosa significhi essere pienamente uomini; a questo siamo chiamati noi adulti: a far scoprire loro, con amore e pazienza, Gesù, e a essere credibili mostrando la bellezza dell'amicizia con lui. Aiutare i giovani a innamorarsi di Cristo: questo è nostro compito”.

    Secondo lei, alla base del rapporto non di rado conflittuale tra credenti e non credenti non vi è anche il fatto che per noi cristiani la verità è una persona, Gesù Cristo morto e risorto, con il quale abbiamo una relazione affettiva, mentre i non credenti identificano il concetto di verità con un corpus di dottrine e principi? “Ritengo di sì. Ma purtroppo anche moltissimi che sono chiamati fedeli non conoscono più Gesù Cristo. E ciò è molto grave. Oggi è necessaria una nuova evangelizzazione; questo è compito centrale della chiesa nell'epoca attuale. Questo è il programma di Papa Benedetto XVI. Dobbiamo annunciare che il fondamento del cristianesimo è la persona di Gesù Cristo morto e risorto, che desidera l'amicizia e la comunione con ogni uomo. Tutte le verità del cristianesimo rimangono importanti e non vanno dimenticate o negate, ma sono successive a questo affettuoso rapporto d'amicizia e diventano comprensibili, accettabili e possibili da vivere se questo rapporto c'è. Per quanto riguarda noi pastori, nelle nostre prediche, nelle nostre catechesi, dobbiamo aiutare le persone a incontrare Gesù e a stabilire l'amicizia con lui: questo è il primo, indispensabile gradino, che moltissimi fedeli hanno dimenticato. Le verità cristiane possono essere comprese solo se si amano Dio e Gesù Cristo; chi li ama, d'altra parte, vuole anche comprenderli più profondamente, cioè entrare in tutte le ricchezze della fede, vuole, per quanto possibile, penetrarle con la ragione. La fede cristiana non è un atto cieco o solo emotivo. Secondo l'assioma di sant'Agostino fides quaerens intellectum. In questo senso il Concilio Vaticano II afferma che dobbiamo comprendere tutto nel contesto della gerarchia delle verità. Ebbene, nella gerarchia delle verità Gesù Cristo è al primo posto. Noi cristiani non proclamiamo teorie, noi annunciamo una persona, Gesù di Nazareth, figlio di Dio, morto e risorto, che ama e dona salvezza, che è – allo stesso tempo – luce del mondo. Nella nostra attività pastorale dobbiamo far comprendere e spiegare le molteplici verità del cristianesimo sempre a partire da lui, che ne è il fondamento. La vita cristiana potrebbe essere descritta come un cammino nel quale siamo introdotti sempre più profondamente nella verità, cioè in Gesù Cristo, e tanto più l'amicizia con lui si fa profonda, tanto più le verità del cristianesimo, anche quelle in apparenza incomprensibili o troppo difficili da vivere, diventano chiare. Penso che molti abbiano fatto questa esperienza: in una fase della loro vita una determinata verità cristiana appariva ai loro occhi inaccettabile, ma poi, continuando a camminare con Gesù, essa si è fatta piena di senso e di valore. Bisogna ricominciare, con slancio, a portare Gesù, questa persona che ogni cuore umano attende e di cui ha nostalgia”.

    Lei ritiene che per questa nuova evangelizzazione siano necessari nuovi strumenti o un atteggiamento e uno spirito diversi con i quali proporre Cristo e l'amicizia con lui? “In prima istanza, non occorrono nuove strutture o nuovi strumenti. Ciò che anzitutto è necessario è un nuovo atteggiamento, un nuovo spirito missionario con i quali riproporre quale fondamento dell'esistenza cristiana Gesù e il rapporto con lui. Da ciò deriveranno in seguito, ad esempio, nuove tipologie di catechesi non solo per i bambini e i giovani ma anche per gli adulti. Questo compito non riguarda soltanto il clero, ma anche i credenti laici perché si tratta di essere veri testimoni: si tratta di mostrare agli altri che siamo amici di Gesù e ciò lo possiamo fare ovunque: in famiglia, a scuola, sul posto di lavoro. Dobbiamo essere più coraggiosi, non avere paura di raccontare agli altri il senso, la luce, la gioia che Gesù ha portato nella nostra vita. Di questo c'è bisogno oggi: di comunicare con la propria vita quanto arricchente sia il legame con lui. Occorre testimoniare la bellezza della fede con coraggio e convinzione”.

    In che termini il dialogo ecumenico può aiutare questa nuova opera di evangelizzazione? “Il dialogo ecumenico e la missione sono come due gemelli. I due vogliono dare testimonianza della loro fede, oltrepassando i limiti attuali della chiesa, sia ai non credenti sia agli altri cristiani. Il dialogo ecumenico, come ripeteva Giovanni Paolo II, non è solo scambio di idee ma scambio di doni fra comunità che hanno in comune Cristo. In questo senso anche le altre chiese cristiane hanno doni da offrirci, così come noi li abbiamo per loro. Dopo il Concilio Vaticano II, ad esempio, noi cattolici abbiamo imparato molto dai protestanti in materia di esegesi biblica, così come dagli ortodossi, noi appartenenti al mondo occidentale – spesso troppo razionalista – possiamo imparare molto circa il mistero della fede. Questo scambio di doni consente ai cristiani di crescere insieme, affinché ciascuno possa avvicinarsi e unirsi sempre più a Cristo, come afferma Benedetto XVI. Tramite una tale unità, che man mano va crescendo, il messaggio cristiano missionario diventa più credibile per il mondo. Gesù ha pregato: perché siano tutti una cosa sola, affinché il mondo creda”.

    Nel corso di questi anni, svolgendo l'incarico di presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani, si è mai chiesto: “Ma io in questo caso specifico ho davvero fatto la verità nella carità”? “Sì, più di una volta. Occorre essere e rimanere sempre autocritici. Fare la verità nella carità nelle singole situazioni concrete non è sempre facile: è possibile sbagliare nei due sensi: si può esagerare nel proclamare la verità, irrigidendosi a discapito della carità, cosicché la verità diventa troppo dura da accettare, e si può fraintendere la carità ed essere troppo tolleranti e indulgenti verso gli altri, a discapito della verità. Il rischio di commettere questi due errori lo corriamo tutti. In alcuni casi, vivendo l'esperienza del dialogo ecumenico, mi è capitato di domandarmi: sono stato troppo duro? Ho davvero fatto la fatica di spiegare con chiarezza e con pazienza la mia posizione? In altre occasioni mi sono chiesto: sono stato eccessivamente tollerante, mettendo in ombra la verità? Io mi interrogo e penso sia giusto farlo perché non è facile trovare il giusto e necessario equilibrio. Anche per questo non svolgo la mia attività da solo: ho alcuni collaboratori che mi aiutano in questo lavoro, difficile e delicato. Mi aiutano e talvolta mi correggono, perché facciamo parte della comunità cristiana e nella comunità cristiana c'è complementarietà: i doni degli uni sono a vantaggio e al servizio degli altri, come afferma anche Paolo, e così camminiamo aiutandoci vicendevolmente. Nessuno di noi è già perfetto, siamo e rimaniamo peccatori e dobbiamo sempre crescere nella capacità di coniugare verità e carità. E per poter crescere bisogna alimentare il rapporto con Gesù e quindi pregare, mettersi in ascolto della Parola di Dio, accostarsi ai sacramenti, a cominciare da quello della riconciliazione. Questo è ciò che cerco di fare”.

    Lo scorso anno, in occasione del centenario della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, lei disse: “Principio e motore dell'ecumenismo è la meditazione, la contemplazione. Il suo obiettivo è la comunione, ma una comunione che non è il puro risultato di sforzi umani, un'opera o un'istituzione creata semplicemente da noi. Senza comunione spirituale, tutte le strutture di comunione non sarebbero altro che un apparato senz'anima. La comunione è, prima di tutto, un dono. Decidere quando, dove e come l'unità sarà realizzata, non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Ed in lui dobbiamo avere fiducia”. Può illustrare il valore e l'importanza dell'ecumenismo spirituale? A suo giudizio, nel popolo cattolico vi è consapevolezza di quanto sia scandalosa e dolorosa la divisione dei cristiani?

    “Penso che molti cattolici non provino dolore per la divisione dei cristiani né abbiano compreso quanto essa sia scandalosa perché contraria alla volontà di Dio. Poiché la divisione perdura da secoli, molti la considerano un dato di fatto, qualcosa di immutabile con cui si può pacificamente convivere. Invece occorre rendersi conto che la divisione fra le chiese cristiane è profondamente contraria alla volontà divina, è un peccato. E di questo peccato non sono responsabili solo gli altri cristiani, ma spesso anche noi cattolici, perché la nostra vita cristiana ed ecclesiale non si dimostra abbastanza invitante e convincente per gli altri. Per giungere alla riconciliazione, all'unità che – lo ribadisco – è dono di Dio, occorrono preghiera, penitenza e conversione del cuore, da parte di tutti, perché la chiesa non è soltanto un'istituzione umana, la cui riconciliazione può essere paragonata alla fusione di due grandi imprese nel contesto della globalizzazione: la chiesa è il tempio dello Spirito e il corpo di Cristo e segue dunque leggi spirituali. La sua unità non si può semplicemente fare o organizzare.

    Purtroppo, invece, oggi è convinzione diffusa che il dialogo ecumenico non riguardi i singoli fedeli ma sia affare delle gerarchie e implichi dispute accademiche che devono essere affrontate e risolte dai vertici delle chiese. Se da un lato è vero che vi sono questioni teologiche da discutere ed è necessario affidarle a chi ne ha le competenze, dall'altro lato però è anche vero che il cuore dell'ecumenismo è la preghiera per l'unità, ed essa coinvolge ogni singolo fedele. Ecumenismo significa pregare con Gesù e in Gesù, fare propria la preghiera che lui rivolse al Padre alla vigilia della morte: ‘Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te'. Il vero cuore dell'ecumenismo è spirituale: il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull'ecumenismo, dichiarò: ‘Questa conversione del cuore e questa santità di vita insieme con le preghiere private e pubbliche per l'unità dei cristiani devono essere considerate come l'anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale'. Io stesso, prima di recarmi a un incontro ecumenico, specie se particolarmente delicato, chiedo ad altri, ad esempio a una comunità monastica, di pregare; e questa preghiera io la sento, ne avverto l'efficacia”.

    di  Cristina Uguccioni

    Biografia
    Walter Kasper (Heidenheim an der Brenz, 1933), studi di filosofia e teologia a Tubinga e Monaco, ordinato prete nel '57, nel '61 diventa dottore in Teologia a Tubinga e per tre anni è assistente di Leo Scheffczyk e Hans Küng. Poi insegna Dogmatica a Münster e, dal '70 all'89, a Tubinga. Intanto inizia a occuparsi di ecumenismo. Nell'89 è ordinato vescovo di Rottenburg-Stoccarda. Creato cardinale da Giovanni Paolo II nel concistoro del 21 febbraio 2001, pochi giorni dopo viene nominato presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani.