Il derby di Torino
I destini non coincidenti di Elkan e Marchionne
A chiamarlo Jaki, le poche volte che ancora lo sente, è rimasto Cesare Romiti, per lunghi anni presidente della Fiat che lo ha visto crescere. Tutti gli altri hanno smesso di usare quel diminutivo che l'interessato detesta e lo chiamano John (gli intimi) oppure, alternativamente, ingegnere in omaggio al titolo che si è guadagnato al Politecnico di Torino, o presidente.
A chiamarlo Jaki, le poche volte che ancora lo sente, è rimasto Cesare Romiti, per lunghi anni presidente della Fiat che lo ha visto crescere. Tutti gli altri hanno smesso di usare quel diminutivo che l'interessato detesta e lo chiamano John (gli intimi) oppure, alternativamente, ingegnere in omaggio al titolo che si è guadagnato al Politecnico di Torino, o presidente, in omaggio invece al suo ruolo di numero uno della Exor, la finanziaria-cassaforte della famiglia Agnelli. Qualsiasi cosa si pensi dell'accordo Fiat-Chrysler che si deciderà oggi (“Non sappiamo ancora se andrà in porto ma lo speriamo”, ha detto ieri il presidente Barack Obama, mentre Sergio Marchionne ha balenato l'ipotesi di una probabile bancarotta protetta, secondo le parole riferite da sindacati americani) va detto che ha segnato un fatto rilevante: John Elkann, esponente della quinta generazione dei discendenti del fondatore di quello che è tuttora il primo gruppo industriale privato italiano, in questa vicenda si sta ritagliando (o almeno ci prova) il ruolo del leader, del decisore di ultima istanza, o del padrone.
Quindi basta Jaki, per favore, un nomignolo buono per un ragazzino che aveva tutto da imparare: adesso John Elkann, a 33 anni, pensa di aver imparato e di esser in grado di esercitare il ruolo di numero uno della famiglia che fu di suo nonno. Lo confortano in questo suo convincimento un carattere solido sotto un'apparente fragile gentilezza e, quel che più conta, la maggioranza delle azioni dell'accomandita cui fanno capo a cascata tutte le partecipazioni del gruppo, Fiat inclusa.
La conferma di questa sensazione, comunque già da tempo diffusa, si è avuta leggendo sui quotidiani di ieri le cronache dell'assemblea degli azionisti Exor riuniti a Torino, appunto sotto la presidenza di Elkann. Finiti i lavori, è stato avvicinato dai cronisti che, ovviamente, gli hanno posto domande sul grande deal che l'amministratore delegato della Fiat, Marchionne, sta concludendo a Detroit e che dovrebbe portare la casa torinese a controllare fino al 35 per cento della Chrysler, mentre la maggioranza assoluta (55 per cento) sarebbe nelle mani dei sindacati della Uaw (United Auto Workers).
Elkann, che è anche vicepresidente del Lingotto, ha assicurato il suo “massimo sostegno all'operazione di Marchionne”, ma ha aggiunto altre considerazioni interessanti. La prima: gli affari di Exor stanno andando benissimo tanto che la finanziaria ha più di un miliardo di liquidità da investire, ma di questa somma nemmeno un euro andrà al settore auto perché “tutte le operazioni cui Fiat sta lavorando non richiederanno fondi almeno per il momento e non aumenteranno il peso del settore auto nel portafoglio Exor”. La seconda: la partecipazione della finanziaria di famiglia nella casa torinese potrebbe addirittura in futuro ridursi se si dovesse arrivare a un'alleanza con scambi di quote azionarie: “Se dovremo essere più piccoli in un insieme più grande, ci va bene”, sono state le parole usate da Elkann che hanno richiamato alla memoria, come ha notato il Sole 24 Ore, “espressioni già usate in passato” da alcuni membri della famiglia a proposito dei destini degli Agnelli e delle quattro ruote non necessariamente ed eternamente coincidenti.
Ma ancora altre dichiarazioni di Elkann hanno fatto riflettere sul reale pensiero del capo degli Agnelli a proposito dell'avventura americana, dei suoi sviluppi e più in generale sui vertici Fiat. Si sa che Marchionne, grazie agli eccellenti risultati che ha ottenuto nei suoi cinque anni di guida del Lingotto, è corteggiato da molti altri gruppi internazionali che lo vorrebbero avere come manager: primo fra tutti il colosso bancario svizzero Ubs del quale l'amministratore delegato Fiat è vicepresidente non operativo; o magari un ruolo di guida della Chrysler italiana. Anche di questo si è parlato, e il presidente Exor ha risposto alle domande dei cronisti in maniera distaccata. “Ne parliamo spesso con lui – ha detto – ma abbiamo la panchina lunga. Abbiamo persone in Fiat che sono in grado di assumere responsabilità più importanti”. Mettendo tutto insieme, si ha l'impressione che l'ultimo degli Agnelli, a nome della famiglia, abbia voluto dire: vediamo come si evolverà questa avventura americana. Se davvero porterà decisivi vantaggi alla Fiat, come ci assicura Marchionne, senza costarci un soldo e senza farci correre dei rischi, allora saremo tutti contenti. Se invece le cose non andranno così, troveremo altre strade. E se l'attuale numero uno vorrà percorrerle con noi, bene; altrimenti abbiamo la panchina. E gli azionisti hanno già in mente il nome di chi far scendere in campo.


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