Dal Foglio del 6 agosto 2004

Un testo per catastrofisti del presente, troppo prescrittivo per le donne

Roberta Tatafiore

Ogni testo che si rispetti ha un sottotesto che evoca un contesto. La Lettera ai vescovi firmata da Joseph Ratzinger ha come sottotesto la conoscenza approfondita della mai risolta diatriba femminista tra “uguaglianza e differenza”, cui è seguita una scelta netta a favore dell'antropologia, della filosofia, della politica (chiamiamola come ci pare) della differenza sessuale in chiave conciliativa del rapporto tra i sessi.

    Ripubblichiamo un articolo di Roberta Tatafiore dal Foglio del 6 agosto 2004 sulla lettera di Papa Ratzinger ai vescovi sul ruolo della donna.

    Ogni testo che si rispetti ha un sottotesto che evoca un contesto. La Lettera ai vescovi firmata da Joseph Ratzinger ha come sottotesto la conoscenza approfondita della mai risolta diatriba femminista tra “uguaglianza e differenza”, cui è seguita una scelta netta a favore dell'antropologia, della filosofia, della politica (chiamiamola come ci pare) della differenza sessuale in chiave conciliativa del rapporto tra i sessi. Il contesto evocato è quello segnato dalla perdita di autorità del pater familias, dall'avvento della tecnologizzazione della nascita, dall'atomizzazione reciproca di uomini e donne, che sembrano incamminarsi atomizzati lungo il viale del tramonto della civiltà occidentale. “Da qui – ha scritto Vittorio Messori sul Corriere della Sera – l'intervento di una Chiesa che si propone un ruolo non moralistico, ma profetico.

    La posta in gioco è, nientemeno, che la distinzione dell'umanità tra maschile e femminile: distinzione ontologica e non manipolabile, se non provocando rovine”. Che la Lettera sia profetica non c'è dubbio, profetica di sventure, nel senso del mito da Cassandra in poi. E però – nel senso della religione cristiana da Gesù in poi – la profezia non viene lasciata a se stessa ma rovesciata in possibilità di salvezza terrena. Il testo soddisfa una platea di varia umanità ambosex. Gli orfani delle grandi narrazioni progressiste del Novecento che hanno assistito al fallimento delle ideologie che per rimettersi in piedi hanno bisogno di una qualche stampella di fede; i catastrofisti del presente, che colgono in ogni segno dell'attualità in rottura con il recente passato il marchio della disumanizzazione. I critici della pervasività dello Stato in tutti i gangli del privato attraverso la superfetazione dei diritti all'uguaglianza, i più o meno consapevoli restauratori di un moderatismo da Ancién régime, che patiscono l'indebolimento del legame tra uomini e la scomparsa del gineceo domestico, binomio su cui hanno investito per sopravvivere, per espandere la creatività, per mantenere la presa sul mondo e per sentirsi vicino a un dio, nel senso della potenza e dell'arbitrio sul bene e sul male.

    In tutto questo si inserisce un interesse femminista quasi giubilante nei confronti della Lettera. Capisco che, soprattutto per quelle femministe memori di aver operato una rivoluzione simbolica di grande portata in occidente, senza armi e senza potere ma con la forza dei legami tra donne e della parola sulla differenza, il riconoscimento incassato appaia un sorta di imprimatur. Sia perché bypassa la necessità di fare i conti con gli esiti di quella rivoluzione, sia perché proviene da una fonte che di rivoluzione simbolica se ne intende da duemila anni. Fu Gesù il primo rivoluzionario di questa genìa, e non a caso contava più sulle donne che lo appoggiavano che sugli stessi discepoli. La Chiesa, con la Lettera, tenta di ripetere un'analoga impresa, offrendo alle ex rivoluzionarie, alle ancora rivoluzionarie, alle revisioniste attive della “differenza”, prescelte nella pletora dei femminismi e dei neo femminismi tardivi, una collaborazione di tipo nuovo, funzionale alla missione salvifica che si prefigge.

    Detta, però, la Chiesa, i canoni femminili da incoraggiare e quelli da censurare. No alle donne competitive con gli uomini, sì a quelle che lavorano senza sacrificare la pace della coppia. No alle zitelle senza aggettivi, sì a quelle che uniscono (simbolicamente, per carità!) zitellaggio e verginità. Sì, quindi, alla maternità come compimento di destino procreativo ad alta sublimazione, sì anche alla non maternità, a patto che venga sublimata in un altrove ad alta intensità pedagogica. In pratica: se una sceglie di non essere madre sottraendosi e basta, non va. Ma se lo fa per rappresentare coscientemente la figura della neoemancipata con compito di cura nei confronti del prossimo, va benissimo. E' un ventaglio di chances prescrittivo e riduttivo rispetto a ciò che offre la realtà e che connota le scelte femminili reali. E non sono convinta che l'esaltazione del “di più femminile” serva a ripristinare la collaborazione tra i sessi.

    La ingloba semmai in una nuova modellistica, oserei dire antimaschile, pretenziosa nell'affermazione della magnificazione di un “principio femminile” migliore di quello maschile. Ma è proprio questa supposizione idealizzata e non provata, che manda gli uomini ai matti quando si trovano ad amare o a odiare, a sopportare o a guerreggiare con le donne concrete. Dopo che avrà “sistemato” le donne nel suo progetto, la Chiesa dovrebbe di conseguenza rivolgersi agli uomini, l'altro corno della diade ontologica con tanta assolutezza affermata. Dovrebbe modellare un idealtipo anche per loro, collaborativo evidentemente, ma non si sa su che piano. Forse lo farà, forse no, forse ci sta già pensando. Aspettiamo l'evento, o il non-evento, che dovrebbe accadere. Con interesse.