Oltre Soros. Ecco quelli che stanno avendo una buona crisi

Redazione

Arnault, il signore dello champagne, e il bel tenebroso Bollorè veleggiano bene. Investor, l'ammiraglia dei Wallenberg, sopravvive alla gelo nordico. Gli Agnelli incassano. Caltagirone resta liquido. Braggiotti non corre rischi. Arpe ha una banca. Poi ci sono ovviamente l'Ing. e il Cav.

    Ora che i giorni dell'ira sono arrivati, anche George Soros finirà nelle grinfie dei nuovi sanculotti? Da inguaribile provocatore, si è vantato di aver guadagnato oltre un miliardo con il suo fondo Quantum, scommettendo sul collasso delle Borse. Non è l'unico. La recessione crea ricchezze non solo povertà. Windfall profits, dicono gli inglesi, fortune inaspettate, frutti portati dal vento. Su François Pinault, principe del lusso, collezionista d'arte, editore, finanziere dai canini acuminati, patron di Gucci, Christie's, Fnac e quant'altro, la crisi è scivolata finora come l'acqua sulle piume dell'oca. Lo stesso può dirsi dell'arcirivale Bernard Arnault, signore dello champagne, dell'haute couture e dei profumi. Dal nord Europa all'Italia (che non è poi così sfigata come ama rappresentarsi), il catalogo è lungo. Soros che fa la ruota con il quotidiano Australian (“è stato il periodo migliore della mia carriera”), parla per tutti. Lui pretende di aver intuito in anticipo dove si andava a parare; come già nel 1992.

    La storia è piena di paradossi. Allora, il collasso dell'Urss rovinò sulla Finlandia facendo crollare la sua economia e la sua moneta, il markka. Scattò un vero e proprio domino: caddero le corone scandinave, poi la sterlina, infine la lira. Soros fece una barca di quattrini. Ne perse gran parte con le tigri asiatiche nel 1997. Quella volta, non capì nulla, o meglio sottovalutò la reazione americana: Bob Rubin firmò un assegno e salvò la Thailandia. Adesso, è tornato a farci la lezione, beffarda e un po' maramaldesca. Ha sconfitto l'avversario di sempre Warren Buffett, perché persino l'oracolo di Omaha, il più conservatore e prudente degli investitori, ha preso un bagno. Tutta colpa del fallimento di Lehman brothers che in sei mesi ha portato l'indice Dow Jones indietro di dieci anni. Ma non tutti sono affogati nel diluvio: grandi e piccoli Noè hanno costruito in tempo la loro arca.

    A far concorrenza a Quantum nel grande nord europeo c'è Investor, l'ammiraglia dei Wallenberg. Il più ricco e potente clan svedese, ha lo zampino più o meno in tutta la Scandinavia (dalle banche a Ericsson) e anche in Italia attraverso i frigoriferi Electrolux, e le grandi fornaci Abb. Ha dovuto scontare delle perdite, ma mentre la Borsa di Stoccolma è calata del 58 per cento in un anno, la holding di famiglia ha portato a casa un guadagno dell'8 per cento. La crisi finanziaria non ha toccato Ingvar Kamprad, padre padrone di Ikea, che non ha mai voluto andare in Borsa e non è toccato nemmeno dalla recessione. La sua azienda assume anche in Italia mentre tutti licenziano. Kamprad si è rifugiato da tempo in Svizzera per non pagare le supertasse socialdemocratiche, vive con poco, e ammassa ricchezze. Altro che Soros, se la batte con Bill Gates.

    Anche Vincent Bolloré, bel tenebroso della finanza, sa utilizzare la crisi come un'occasione. Erede di un colonialismo preindustriale con le sue piantagioni in Africa, maestro nell'arte di combinare economia immateriale e materiale, media, pubblicità, banche. Siccome possiede una società che produce sofisticate batterie al litio, ha convinto il suo amico Sarkozy che il futuro si misura non più in euro, ma in chilowatt e, insieme al vecchio carrozziere Pininfarina, che ha salvato dalla chiusura, s'è messo a fare vetture elettriche. Qui in Italia può anche contare sui bei profitti di Mediobanca (è capofila di quella cordata francese che possiede il 10 per cento) sfuggita alla sorte delle grandi banche d'affari anglo-americane anche perché è rimasta ancorata al sistema Italia.
    Guadagnare con la crisi è molto rischioso, ma la fertile fantasia dell'iperfinanza ha inventato una panoplia di strumenti come gli Etf, acronimo per Exchange Traded Funds, fondi indicizzati quotati. Le loro quote sono negoziate in Borsa come semplici azioni e chi investe può guadagnare in una sorta di gioco del rovescio: si prende un paniere di titoli azionari e, anziché puntare sul loro rialzo, si punta sulla loro caduta. Sono operazioni non necessariamente a breve termine, anzi fruttano di più quanto più si ha il fegato per resistere.

    Esempio concreto: chi avesse scommesso sul Nasdaq quando era al massimo, adesso avrebbe guadagnato il 50 per cento. In ogni caso, persino nella Borsetta di Milano questo mercato parallelo (ma nient'affatto nero) va alla grande, ogni giorno contabilizza scambi fino a 200 milioni di euro.
    I nostri Soros, del resto, non sono da meno. Fanno scandalo i guadagni di top manager. Gianni Dragoni sul Sole 24 ore segnala gli 8,3 milioni di Roberto Tunioli che rappresentano quasi la metà degli utili della piccola azienda da lui diretta (Datalogic). O i 7,9 milioni incassati da Luca Majocchi di Seat Pagine Gialle. Quando usciranno i conti trimestrali delle società ne vedremo delle belle. I grandi capitalisti chi si sono tenuti liquidi, hanno superato bene il 2008. A questa categoria appartiene Francesco Gaetano Caltagirone. Alcuni dei suoi investimenti hanno perduto (comprese le Generali), ma a spanne si stima che abbia un paio di miliardi da spendere. Anche gli Agnelli, nel bel mezzo della più grave crisi dell'auto in mezzo secolo, mettono fieno in cascina. Prima hanno consolidato la presa su Fiat, mobilitando con operazioni al limite (sono finiti anche in tribunale) la loro cassaforte francese Exor. Poi hanno fuso le principali scatole cinesi attraverso le quali controllano l'impero. Alla fine, è uscito fuori un miliarduccio pronto cassa, come ha confermato Jaki Elkann, al quale l'Avvocato ha lasciato in mano le chiavi della cassaforte.

    Tra Milano e Parigi fa la spola Gerardo Braggiotti, un finanziere che si è collegato strettamente agli Agnelli. E' entrato in una banca d'affari, la Leonardo, insieme alla filiale lussemburghese di Ifil (ha il 10 per cento) e soprattutto Eurazeo, filiazione della Lazard parigina, dove Braggiotti ha lavorato diventando uno dei partner principali. Prima che arrivassero gli americani, quella scatola finanziaria custodiva il pacchetto chiave delle Generali, per conto di Cuccia e degli Agnelli. Il gruppo Leonardo ha chiuso il 2008 con 187 milioni di ricavi provenienti soprattutto da commissioni e “non è esposto ad alcun rischio collegato alla crisi creditizia e di liquidità”.

    Sulla stessa strada si è avviato Matteo Arpe che ha condiviso con Braggiotti la palma di giovane leone della finanza, quando entrambi erano i più vispi galletti della covata di Enrico Cuccia. Uscito da Capitalia, ha fondato un equity fund, dal nome esoterico: Sator, proprio come il quadrato magico. E ha continuato a crescere fino al punto di comprarsi, un paio di mesi fa, mentre tutt'attorno scorazzavano i cavalieri dell'Apocalisse, una banca chiamata Profilo, base di partenza per nuove avventure finanziarie. Arpe ha staccato un assegno di 70 milioni. Si vanta di non aver mai creduto nei derivati: “Non li ho mai capiti”, dichiara. Preferisce le boutique. Del resto,  l'era dei supermarket finanziari è finita.Non sono pochi i capitalisti che usano la propria liquidità come galleggiante in questo procelloso mare di moneta errabonda, sono numerosi. I Benetton, ad esempio. I maglioncini che hanno fatto la loro fortuna non vanno bene, la catena di vendita perde colpi nei confronti degli aggressivi spagnoli di Zara e fatica anche a tener dietro ai tradizionalisti americani di Gap. Ma le autostrade vanno alla grande. Le tariffe sono garantite. E' vero, la recessione ha fatto calare un po' il traffico, però con la primavera ci sono chiari segnali di risveglio. I signori delle bollette, del resto, gli elettrici, i petrolieri, i distributori di gas e acqua, se la cavano più che bene.

    E Carlo De Benedetti? La finanza è la sua vera vocazione e conosce come pochi la tecnica delle scatole cinesi. Nell'estate 2005 in cui guadagnò 3,5 milioni di euro, come scrisse il Wsj, vendendo alla velocità del fulmine titoli del Cdb web, cresciuti di un terzo dopo l'annuncio del fondo salva imprese insieme a Berlusconi (che ppoi non andò in porto). Altri tempi, E tuttavia Cofide, la holding capofila non se la passa male. Ha chiuso l'anno con un utile di 52 milioni e una patrimonio di 644, circa metà del quale fa capo alla società in accomandita della famiglia. Il 2009 sarà più duro. Soprattutto per i media. E lo sarà anche per Silvio Berlusconi. “Il Cavaliere di denari” lo chiama Milano Finanza che ha fatto i conti in tasca a Fininvest. La ricchezza accumulata ammontava a 5,7 miliardi nel 2007 (i conti del 2008 non sono ancora disponibili). Di questi, i dividendi distribuiti rappresentano 1,3 miliardi, mentre 4,4 miliardi è la valorizzazione borsistica dal 1994. Dall'anno scorso, l'andamento dei titoli delle società del Biscione è in discesa. Ma Fininvest resta un cassaforte ben fornita.

    Tanti fumi statistici hanno avvolto questa crisi; e la difficoltà di diradare la fitta coltre aumenta la paura. Per esempio, bisognerà capire meglio, leggendo i bilanci dei prossimi mesi, come mai tutte queste banche che erano sull'orlo del crack e si fanno salvare con i soldi dei contribuenti, annunciano poi profitti a palate. I conti riguardano l'anno scorso che non è andato così male, si dice. Ma attenti, questo vale per Unicredit, Banca Intesa, Montepaschi, insomma le banche italiane. Il dato di Citigroup che ha fatto sobbalzare Wall Street e ha dato il là a un rally durato due settimane riguarda gennaio e febbraio scorsi. La crisi non è una scusa, sia chiaro, né una sorta di alibi globale, per fare pulizia e ingoiare pillole amare quasi fossero zuccherini. O salvare, magari, finanzieri come Romain Zaleski. Non era troppo grande per fallire, ma tutte le banche più importanti si sono mobilitate in suo aiuto, in omaggio al mercato, alle regole e alla logica sistemica. Per carità, nessuna finzione, ma duplicità sì. La recessione ha il suo doppio. Dalle banche d'affari che cambiano mestiere alle case automobilistiche che saranno costrette a produrre vetture meno inutili, inquinanti e costose, nulla sarà più come prima. O no?