Un tappeto rosso in mezzo alle zanzare
C'è una Croisette del Sahel che prova a lanciare il cinema africano
Il premio speciale della giuria di Venezia non è bastato. A “Teza”, lungometraggio dell'Etiope Haile Gerima, il riconoscimento lagunare dello scorso settembre ha portato flash e complimenti. Ma niente botteghino. C'è voluta un'altra croisette, quattromila chilometri più a sud, a far parlare dei della pellicola che venerdì 27 esce in Italia. Ouagadougou ogni due anni ospita il Fespaco (Festival Panafricain du Cinéma et de la Télévision).
Il premio speciale della giuria di Venezia non è bastato. A “Teza”, lungometraggio dell'Etiope Haile Gerima, il riconoscimento lagunare dello scorso settembre ha portato flash e complimenti. Ma niente botteghino. C'è voluta un'altra croisette, quattromila chilometri più a sud, a far parlare dei della pellicola che venerdì 27 esce in Italia. Ouagadougou – groviglio di vocali e capitale del Burkina Faso – ogni due anni ospita il Fespaco (Festival Panafricain du Cinéma et de la Télévision). Niente canali, bigoli o motoscafi. L'ex Alto Volta è uno dei paesi più assetati del Sahel ma il tapis rouge, un po' insabbiato, non è mai mancato.
Continua ad essere il fulcro intorno cui orbita la galassia – quaranta gradi alle dieci di mattina – di accrediti, proiezioni e comunicati stampa. Alla cerimonia di chiusura del festival del cinema più importante d'Africa il 7 marzo scorso c'erano tutti, le autorità in testa: Blaise Compaorè – il controverso presidente in carica da oltre vent'anni – e Moro Naba, imperatore dei Mossi (in tunica bianca, copricapo rosso e scettro intagliato). Stampa, registi e attori. Tutti allo stadio ad aspettare la proclamazione del vincitore. Alla fine l'etalon d'or è andato a Gerima, sessantenne originario di Gondar. L'edizione del quarantennale del Fespaco è la prima senza il suo creatore, da poco scomparso. Sembène Ousmane ha ideato il festival nel 1969. In quell'anno Gheddafi prende il potere sostituendo la Repubblica Islamica Socialista della monarchia di Idris. L'Apollo 12 sbarca sulla luna, Bethel viene invasa dai cinquecentomila di Woodstock, a Medellìn si tiene terza Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano.
Oggi il Fespaco è un fossile in movimento, una contraddizione e proprio per questo un manifesto della cinematografia africana. Eterna promessa tra slanci, aiuti e storture croniche. E' un caos calmo tra zanzare, brochette di montone dentro e fuori dai cinema anni Venti. Per otto giorni si svegliano dal torpore, mettono da parte i kung-fu movie di serie b e le ultime produzioni di Nollywood. Si dà spazio a decine di film (da pochi minuti a tre ore) e documentari, molte le produzioni del continente, interessanti quelle della “diaspora” (registi africani che vivono e lavorano all'estero). Se si sovrappone la programmazione alla cartina, da Gibilterra al capo di Buona Speranza, sono tante le aree vuote. Il Nordafrica (soprattutto Tunisia, Marocco ed Egitto) e il Sudafrica sono conferme ormai mature. E il resto? Produce poco, tagliano corto critici e osservatori all'unisono. E' un'industria particolare quella africana: tante sovvenzioni, poco mercato. Ogni tanto blockbuster improvvisi e geniali eccezioni, difficile fare il punto.
Ci provano le istituzioni internazionali, Unione Europea in testa, a scardinare i cliché assistenzialisti e le contraddizioni. In dibattiti più animati delle proiezioni. E ci prova, nel suo piccolo, l'Italia: col Segretariato Sociale della Rai la Città di Torino, una regista in giuria, due opere nostrane fuori concorso. Lontana dai battibecchi italici e dal clamore non clamoroso, siamo una presenza solida a Ouagadougou. Una mosca bianca in un milieu dominato dall'egemonia francofona. Ma cosa si vede sugli schermi burkinabè nei giorni del festival? Retorica sociale e disincanto fiabesco. Sono queste le anime del Fespaco, lungo la linea incerta tra ingenuità e durezza. Nel programma – facile metafora dell'Africa – autentici capolavori fanno capolino a fatica in una melassa, bulimica e confusa, di produzioni da dimenticare. Ai professionisti la fatica di fare ordine per i cahiers, qui un campionario parziale (ma non casuale) di alcuni film in concorso.
Nel drammatico “Fantan Fanga”, poliziesco di denuncia, un albino va alla ricerca della testa di un suo amico – albino anche lui – decapitato da una banda criminale. Seppellire un cadavere senza testa sarebbe una sciagura per l'intero Mali. “Triomf” è girato in afrikaans, la lingua dei boeri del Sudafrica. Racconta deliri e dolori di una sconquassata famiglia bianca a cinque giorni dalle elezioni che Mandala vinse nel 1994. E le commedie? Hanno un sarcasmo senza fronzoli e un sentimentalismo d'altri tempi. In sala lo spettacolo è la platea: ride e partecipa quando il critico bianco si appisola, lascia la sala o mormora se la trama si fa troppo scontata (o troppo poco). Ultima nota per “Gospel Hill”. Porta la firma di Giancarlo Esposito, famiglia danese-partenopea ma newyorchese doc, scuderia Spike Lee. Era un agente FBI ne “I Soliti Sospetti”. A Ouagadougou ritrova, confuso e perplesso, le sue radici nere. Fuori dal cinema Oubri, invece, un taxi per rientrare in albergo ancora non l'ha trovato.


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