Chiedere che l'indisponibilità della vita sia argomentata non significa cedere all'eutanasia

Vittorio Possenti

Di quale pertinenza e utilità sono i paradigmi in bioetica? E quanto appropriati ai suoi reali problemi? Queste le domande che sorgono dopo aver letto il lungo articolo di G. Fornero “I funamboli della bioetica” (Il Foglio del 17 gennaio). In essi si ribadisce l'imprescindibilità dei paradigmi, in specie di quello dell'indisponibilità/disponibilità della vita, collegabile all'abusata dicotomia di sacralità-qualità della vita e all'opposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica.

    Di quale pertinenza e utilità sono i paradigmi in bioetica? E quanto appropriati ai suoi reali problemi? Queste le domande che sorgono dopo aver letto il lungo articolo di G. Fornero “I funamboli della bioetica” (Il Foglio del 17 gennaio). In essi si ribadisce l'imprescindibilità dei paradigmi, in specie di quello dell'indisponibilità/disponibilità della vita, collegabile all'abusata dicotomia di sacralità-qualità della vita e all'opposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica. Continuo a pensare che il ricorso in bioetica all'idea stessa di paradigma, importata dall'epistemologia, sia di limitata utilità, e che possa condurre fuori strada, calcando la mano sulla vita e non sulla persona. E' il quadro antropologico personalistico che deve reggere il tema e le soluzioni, non un riferimento indifferenziato al valore ‘vita' che di per sé non dice molto: la vita non è un attributo che si aggiunge alla persona. Sembra una sfumatura, e non lo è: anzi rappresenta un chiarimento decisivo, purtroppo assente nello scritto di Fornero. Per evitare errori almeno metodologici, dovremmo assegnare minor rilievo agli schemi e operare col concetto di persona, quale realtà originaria e basale.

    Il mio primo intervento (14 dicembre) chiariva quale fosse l'orizzonte dell'intero discorso, ossia il personalismo ontologico. Possibilità e limiti del criterio di autodeterminazione vanno letti entro, non fuori tale impianto. Il criterio dell'assoluta indisponibilità della propria vita deve essere illustrato e argomentato, non può essere posto come un asserto sottratto ad ogni esame, come da taluni si tende a fare attualmente forse per il timore che ogni schiarimento comporti di per sé il cedimento all'eutanasia. Ma questo esito non è per nulla automatico e può benissimo essere evitato, e il rifiuto dell'eutanasia riconfermato. Se nelle questioni bioetiche il punto chiave è antropologico prima che morale, l'antropologia di riferimento è essenziale. Quella in cui mi radico è l'antropologia intravista da Aristotele, ben più ampiamente dischiusa e approfondita dalla Rivelazione cristiana, e infine speculativamente elaborata da Tommaso d'Aquino. Si tratta di un'antropologia polare, non dualistica come quelle di derivazione platonica, e che dunque assegna valore al nesso anima-corpo. Il teologo Ratzinger, in genere non espressamente tomista, in un'opera di trent'anni fa non così conosciuta come meriterebbe il suo valore (“Escatologia. Morte e vita eterna”), considera l'antropologia cristiana dell'Aquinate come un vertice.

    La costruzione di paradigmi, non del tutto inutile, è secondaria perché lascia da parte nella sua schematica astrattezza la questione della verità del paradigma e la riduce ad un mero problema di coerenza logico-deduttiva. La pedissequa obbedienza al quadro dei paradigmi conduce fatalmente a cercare conciliazioni tra paradigmi diversi e supposte “terze vie” verso soluzioni spurie. In campo bioetico-personalistico l'idea di terza via è fasulla, e  Fornero si inganna se pensa di attribuirla a Berti e a me. Non solo non c'è alcuna terza via, ma neppure una seconda nel senso che l'unica antropologia fondata e capace di reggere l'urto della realtà è l'antropologia del personalismo ontologico. In altri termini esiste de jure solo una prima via e i problemi bioetici vanno impostati entro la sua verità. 
    L'ultimo quarto dell'intervento di Fornero scade nell'ideologia. Riferendosi alla bioetica, ricorre ai termini di riformatore, conservatore, progressista, vecchio, nuovo, allineato (questo ultimo può valere nello stalinismo, non nella chiesa).

    Solo in maniera molto impropria possiamo usare questi termini che non si prestano allo scopo: hanno senso forse nell'agone politico, non in filosofia e bioetica. Egli ritiene che la mia posizione sia “potenzialmente  rivoluzionaria sul piano teorico” e “di fatto sostanzialmente conservatrice sul piano concreto delle conseguenze etico-bioetiche”. Niente di più falso: il mio interlocutore non si è minimamente peritato di cogliere la coerenza tra i principi antropologici e le soluzioni suggerite (lo rinvio a “Il principio-persona”), per cui queste scaturiscono da quello, e non sono un ircocervo venuto fuori a caso. Insistendo nel misurare il grado di conservazione o di progressismo della mia posizione, conclude: “Da ciò la struttura ambigua e bifronte della sua posizione, oscillante tra la ricerca del nuovo e la conservazione del vecchio”. Si tratta non solo di un giudizio ideologico per l'infelice ricorso a termini estranei alla “cosa”, ma del tutto arbitrario per il fatto che Fornero cerca di mescolare in vario modo i paradigmi, e non imposta il problema a partire dalla realtà della persona. In tal modo le conclusioni che trae risultano ipotecate dal passo falso iniziale.

    Spiace infine che Fornero si rintani nei paradigmi, evitando accuratamente di partecipare al dibattito concreto. Egli si guarda bene dall'informare doverosamente il lettore su che cosa in quanto cittadino pensi sulle gravi questioni bioetiche presenti: eugenetica, rifiuto delle cure, aborto, congelamento degli embrioni, rapporto tra invasività della tecnologia e indicazioni anticipate di trattamento. Kierkegaard aveva creato una figura per simili situazioni e certo non bella. Non è così elevato il bisogno di studiosi di paradigmi bioetici, mentre acuto è quello di cittadini responsabili che sulle questioni bioetiche prendano posizione motivata. Ci troviamo di fronte ad una situazione singolare in cui, mentre si fa la lezione a questo o quello, ci si sottrae al dovere pubblico proprio dell'intellettuale di dire che cosa veramente si pensa sulle scelte che urgono.