S'è rotto l'asse Roma-Berlino
Il sospiro mesto e rassegnato di Angela Merkel accompagna il funerale dell'ortodossia economica tedesca, nemica del debito quanto dell'inflazione. La Kanzlerin si arrende al “crasso keynesismo” contro il quale si era scagliato il ministro delle Finanze Peer Steinbrück e ammette si accumuleranno “montagne di debito”.
Il sospiro mesto e rassegnato di Angela Merkel accompagna il funerale dell'ortodossia economica tedesca, nemica del debito quanto dell'inflazione. La Kanzlerin si arrende al “crasso keynesismo” contro il quale si era scagliato il ministro delle Finanze Peer Steinbrück e ammette si accumuleranno “montagne di debito”. Si spezza così l'asse dei virtuosi e Berlino non offre più sponda né copertura alla prudenza di Roma. Certo, quella italiana è una scelta obbligata dal peso del debito pubblico. La Germania ha ampi margini di manovra, visto che è entrata nella crisi mondiale con un bilancio in pareggio. Ma la realtà dei fatti ha dissolto anche le migliori intenzioni. “Keine Metaphisik mehr”, come gridavano i positivisti. I disoccupati sono tornati oltre la barriera psicologica dei tre milioni. L'export, il diesel che ha portato la Germania a superare la Cina come “fabbrica mondiale”, s'è inceppato: a novembre è sceso addirittura del 10,6 per cento. La domanda interna langue e i saggi che sorvegliano la congiuntura rischiano di dar ragione ai profeti di sventura alla Norbert Walter, guru di Deutsche Bank, il quale prevede un crollo del 4 per cento per il pil tedesco nel corso dell'anno. In più, il piano di salvataggio delle banche, con un fondo di 480 miliardi di euro, non funziona. Eppure, era stato ben organizzato. Cultori delle istituzioni, i tedeschi avevano creato un'agenzia chiamata Soffin, con sede negli uffici della Bundesbank, affidati alla severa Claudia Hillenherms, grande esperta di conti e bilanci. La macchina, però, s'è consumata in dispute burocratiche con l'Unione europea e finora ha erogato soltanto prestiti per 90 miliardi. La nazionalizzazione di Commerzbank (con il 25 per cento il governo diventa l'azionista di riferimento) segna il fallimento della strategia originaria.
Ma la svolta maggiore riguarda l'industria. La cancelleria sta esaminando un piano di sostegno alle imprese manifatturiere che stanzia fino a cento miliardi (cinquanta subito) per prestiti agevolati. Il progetto è ancora in discussione, tuttavia la Grosse Koalition ormai agli sgoccioli starebbe raggiungendo un compromesso tra le sue tre anime: quella socialdemocratica, la democristiana e la cristiano sociale bavarese. Non si sa ancora se il fondo sarà finanziato dalla Kfw (equivalente della nostra Cassa depositi e prestiti) o se sarà creata un'altra agenzia (l'esperienza della Soffin indebolisce questa seconda opzione). E' necessario capire soprattutto il criterio per gli aiuti e a chi saranno erogati. Se, come sembra, l'obiettivo è sostenere il tessuto della media industria tedesca, pilastro delle esportazioni, c'è il rischio di avviare un meccanismo simile nei suoi effetti a una svalutazione competitiva.
Verrebbe spiazzata immediatamente la media impresa del nord-est italiano, che in questi anni si è ristrutturata, ha raggiunto risultati record (l'export è salito del 4 per cento nel 2008) e ha tenuto in piedi l'intera economia. La Confindustria ha già suonato un campanello d'allarme. Ieri Il Sole 24 ore ha segnalato in prima pagina “il dietrofront della Merkel”. E Federica Guidi, giovedì sera a Porta a Porta, ha battuto su questo tasto mentre tutti gli altri interlocutori del salotto politico, insistevano sugli ammortizzatori sociali, fulcro della manovra di sostegno, come ha spiegato il ministro Sacconi. Finora, non sono stati stanziati aiuti all'industria, né sotto forma di rottamazione, né come incentivi all'export o riduzioni del costo del lavoro. I margini nel bilancio sono risicatissimi, la recessione riduce automaticamente le entrate e aumenta le spese (si pensi al boom di cassintegrati). Ma la terapia choc scelta dai tedeschi è un nuovo inatteso grattacapo per il ministro dell'Economia.
Però Obama taglia le tasse. La diatriba tra sviluppisti e rigoristi, sostenitori della domanda interna o paladini di quella estera come motore della ripresa, non risparmia nemmeno la Germania. Di fronte allo stimolo annunciato da Barack Obama (775 miliardi), quello della Merkel sembra ancora modesto. Non soltanto. Il neopresidente americano ha in cantiere riforme del welfare, a cominciare dalla sanità (in prospettiva anche le pensioni) e soprattutto una riduzione delle imposte. La Bundeskanzlerin, invece, non si incammina su questa strada troppo scivolosa per la grande coalizione in dirittura d'arrivo (si volta il 27 settembre). Il fattore politico che aiuta Washington a progettare il futuro agisce in senso opposto a Berlino. E rende più incerto il ruolo della Germania come locomotiva europea e come pivot tra l'interventismo anglo-francese, la debolezza del Club Med (ribattezzato Pigs, acronimo di Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), il collasso dell'est sul cui dinamismo in molti avevano puntato, a cominciare proprio dai tedeschi. In mancanza di un governo (e quindi di un bilancio e di una politica fiscale), con una banca centrale fissata per scelta istituzionale sulla stabilità monetaria, manca all'Unione europea un volano collettivo per rilanciare la crescita.


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