Le sovranità

Gaia Carretta

La sovranità dello stato non c'è più, o meglio, la Repubblica non si identifica con lo stato, ma si pluralizza a seconda delle funzioni, divise tra regioni, province e comuni. Ad affermarlo è Franco Bassanini, presidente dell'associazione Astrid, già ministro alla Funzione pubblica e degli Affari regionali.

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    La sovranità dello stato non c'è più, o meglio, la Repubblica non si identifica con lo stato, ma si pluralizza a seconda delle funzioni, divise tra regioni, province e comuni. Ad affermarlo è Franco Bassanini, presidente dell'associazione Astrid, già ministro alla Funzione pubblica e degli Affari regionali. Bassanini racconta al Foglio di essere d'accordo con l'impostazione del sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, un'impostazione che già aveva esposto nel 2006, al 52° Convegno di Studi amministrativi di Varenna. In quell'occasione l'ex ministro raccontava che Carlo Esposito, costituzionalista, già nel 1954 aveva visto nell'unità e indivisibilità della Repubblica “non un principio direttivo positivo” ma “un limite al riconoscimento delle autonomie, che costituiscono invece il principio positivo”.

    Oggi quell'interpretazione della forma dello stato diventa inconfutabile. “E' la Repubblica della sussidiarietà, civitas propter cives e non cives propter civitatem”. Non una novità in assoluto, diceva Bassanini allora, teoria confermata oggi, “ma il recupero e il rilancio di quella ispirazione personalista e comunitaria, da una parte, e di quel policentrismo istituzionale, politico e sociale, dall'altra”. Oggi il dibattito sulla sussidiarietà dello stato riparte da sinistra, dalla proposta del sindaco di Venezia di creare un Partito democratico del nord. Una posizione che potrebbe sembrare anomala, per chi ha vissuto in un partito di cultura e tradizione centralista. “Nella sinistra c'è sempre stata una componente federalista – spiega Bassanini – Renzo Laconi e Emilio Lussu, durante la Costituente, sostenevano l'opzione federale, anche se non era una posizione prevalente del Pci”. Durante l'ultimo congresso del Pci, alla fine degli anni 80, “ci fu un momento difficile  nella commissione politica, perché i più importanti congressi regionali avevano approvato mozioni per una riforma federale. Il segretario di allora, Alessandro Natta, era restio e alla fine riuscirono a non portare a votazione le mozioni. Quello però era un segno”. Un segno che oggi si ripete, con ciò che gli amministrati del Pd del nord chiedono a gran voce: un partito federato, con autonomia finanziaria e decisionale.

    “C'è un dato che non si considera – dice il presidente di Astrid – la tradizione federalista in Italia è radicata, basta pensare a Cattaneo. Io ho sempre pensato che fosse stato un errore, quello del nostro Risorgimento, di rifiutare quel modello. L'Italia, fino alla metà dell'800, era una nazione divisa in tante realtà politiche, con storie e costituzioni molto diverse tra loro e un modello federale avrebbe dato molti vantaggi rispetto allo stato unitario, applicato da una parte dell'Italia, il Piemonte, che non era né la più moderna né la più avanzata”. Al di là della storia, che forse avrebbe suggerito un modello federale, “negli ultimi 50 anni c'è un avanzare del modello decentrato in tutte le liberal-democrazie. La ragione è semplice: la massa di servizi che il sistema delle istituzioni deve dare è nettamente superiore a quella dei secoli precedenti e l'unico modo è la divisione dei compiti e delle risorse, altrimenti si affolla tutto a un unico livello e si arriva al sovraccarico della domanda al centro”.

    Un sistema istituzionale, secondo l'ex ministro, si misura sulla capacità di migliorare i servizi per i cittadini garantendo un equo trattamento. “Alla fine non si può ragionare su modelli astratti – dice – riconosco però che un modello culturale esiste”. “E' vero – spiega – che durante l'Assemblea costituente, nella sinistra, prevaleva una cultura centralista, mentre era più nella Dc che prevaleva un modello che si basava sulla sussidiarietà. Poi le cose sono andate evolvendosi e già negli anni 70 la cultura federalista non era più una cosa di nicchia”. Infine è arrivata la Lega, la cui spinta federalista ha costretto a un'accelerazione. “La Lega ha svolto una rilevante funzione a favore del modello federale, ma nel contempo lo ha anche abbastanza inquinato, perché c'è sempre stata una certa confusione tra modello federale e confederale”.

    La confusione tra questi due modelli portò, semplificando, alla guerra di secessione degli Stati Uniti. “Gianfranco Miglio, mètre à penser della Lega, aveva in mente uno stato con molte regioni indipendenti, in cui ‘le imposte devono rimanere sul territorio', ma quali tasse? Nazionali? Regionali? Provinciali? Comunali? Questa confusione tra i due modelli è da una parte compenetrata anche in altre forze politiche, inquinando il dibattito italiano”. La Lega oggi ha dimostrato di avere “la consapevolezza di non poter forzare verso il modello confederale, anche perché nel centrodestra ci sono posizioni molto diverse: An è sempre stata centralista, ma il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ultimamente, ha ribadito di non voler mettere in discussione il modello federalista, a patto che non si mini l'unità nazionale. E l'unità nazionale, con il federalismo, non è in pericolo”. E nel Partito democratico? “Spero che succeda la stessa cosa”.

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