L'epopea policroma del pallone

Maurizio Stefanini

Herbert Kilpin, giocatore-fondatore-dirigente venuto a far nascere il Milan dopo aver giocato nella sua città natale col Nottingham Forest, era partito dal rosso dello stesso Nottingham Forest, a sua volta ispirato alle camicie garibaldine: “Le maglie devono essere rosse perché noi siamo dei diavoli. Mettiamoci un poco di nero per fare paura a tutti”. L'Inter, nata nel 1908 da una scissione dal Milan, lasciò il nero, ma mettendo contro il rosso “diabolico” un azzurro “angelico”.

    Barack Obama, primo presidente “di colore” alla Casa Bianca: lui stesso ha vantato la coesione della sua famiglia equiparandola a uno spot della United Colors of Benetton, e Oliviero Toscani ha accettato la propria primogenitura alla “rivoluzione cromatica” della politica Usa. Certo, in sé è equivoco definire “colorate” le persone di origine africana, quando in realtà dal punto di vista spettroscopico il nero è piuttosto assenza di colori. Lo dimostrò il celebre esperimento di Isaac Newton nel 1704, col far passare un raggio luminoso attraverso un prisma d'Islanda che lo scompose in viola, indaco, azzurro, verde, giallo, arancione e rosso, dimostrando così che è il bianco la miscela tra tutti i colori. Al contrario, il nero si ha appunto quando questi raggi invece di essere riflessi sono tutti assorbiti dall'oggetto da loro investito.

    Ma i colori, in realtà, sono molto più opinabili di quanto non si possa pensare. Nietzsche, ad esempio, scrisse che “gli occhi dei greci erano ciechi per l'azzurro e il verde”, fino a quando i persiani non insegnarono loro a distinguerli. E anche l'estremo oriente percepiva il verde come sfumatura dell'azzurro, vedeva il rosso puro come un cinabro e metteva al posto del giallo un quasi arancione zafferano, prima che arrivasse l'influenza del colonialismo cromatico occidentale. E se neanche i colori sono immutabili, figuriamoci allora il loro significato. E' un'altra curiosità cromatica americana che gli europei riscoprono con una certa sorpresa a ogni turno presidenziale, il modo in cui gli stati vinti da democratici e repubblicani vengono colorati sulle proiezioni tv in modo opposto alla nostra tradizione. Cioè, la destra repubblicana in rosso, che invece in gran parte del mondo è associato alla sinistra; e la sinistra democratica in blu, in gran parte del mondo associato alla destra. Certo, è un uso che risale a poco dopo quella Guerra civile in cui erano stati i repubblicani la sinistra antischiavista e i democratici la destra filosudista. Dunque, forse l'eccezione è più apparente che reale.

    Probabilmente l'uscita in concomitanza all'elezione di Obama è casuale, e in effetti nella pur ricca e stimolante casistica trattata, i colori della politica americana non sono però inclusi. Però è interessante e anche spassoso ricostruire un po' di questa storia veramente “colorita” attraverso il libro appena pubblicato di Sergio Salvi e Alessandro Savorelli “Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione” (Le Lettere, 19 Euro, pp.225): un'indagine veramente a larghissimo spettro, sui legami tra l'araldica medievale, le uniformi belliche, la simbologia politica e le casacche del calcio. Già a partire dagli anni Ottanta era stato lo storico francese Michel Pastoureau a applicare il metodo della scuola delle Annales alla simbologia del colore nella storia. In particolare, occupandosi del blu, perché è quello che nei sondaggi appare il colore preferito nella civiltà occidentale: oltre il 50 per cento, contro il 21 per cento del verde, il 10 del bianco, il 9 del rosso. Non è un dato scontato: in Giappone ad esempio il colore più votato è il bianco, mentre l'antichità si basava sulla terna bianco-nero-rosso. Cioè. Non tinto e pulito; non tinto e sporco; tinto, con quello che fu il primo e per molti secoli unico colorante, e cioè quella porpora che i fenici ricavavano dalla bollitura di molluschi del genere murex. Poiché ci volevano ben 12 mila conchiglie per estrarre appena due grammi di colore, le vesti tinte erano carissime, e riservate a personaggi di grande prestigio: la porpora imperiale; le toghe dei senatori, ereditate dai cardinali, “senatori” della chiesa, e detti perciò “porporati”.

    Lo spagnolo mantiene le vestigia linguistiche di questi schemi mentali quando definisce “tinto” il vino rosso e “colorados” i partiti politici rappresentati dal rosso in Uruguay e Paraguay. Ma, appunto, era un rosso di cui la sommarietà delle tecniche di tintura non distingueva troppo dal viola, per lo meno fino a quando nel Medioevo i murici non iniziarono a essere sostituiti dalla robbia, che oltretutto era pure più economica. Sennonché nel XIII secolo l'adozione dell'isatide al posto del più costoso indaco permise anche un boom del blu, che conquistò definitivamente l'occidente come attributo di nobiltà. Il famoso “sangue blu”… Ciò, malgrado il disperato tentativo di resistenza di alcuni mercanti di robbia renani, che per evitare la rovina pagarono invano qualche affrescatore di chiese per fargli dipingere in blu il diavolo. Dal XVI secolo ci fu un ritorno di importanza del bianco e nero: un po' per l'invenzione della stampa; un po' per un'offensiva contro le vesti colorate, che inizia con le leggi suntuarie adottate da alcune città italiane sulla base delle prediche di san Bernardo, continua nell'anatema pro-grigio che paradossalmente accomuna la pubblicistica calvinista a quella della Controriforma, e culmina al tempo della Rivoluzione industriale con le nuove regole sulla moda maschile dettate da Lord Brummel. Ma il gusto del blu rimane, da qui il grande successo dei jeans: azzurri e scuri allo stesso tempo.

    Proprio qui inizia l'indagine di Salvi e Savorelli: nel momento in cui, alla fine dell'Ottocento, la moda di Lord Brummel si estende anche ai militari. “Da che mondo era mondo, l'uomo è andato in combattimento agghindato come a una festa, ora dipinto in faccia e sul corpo, ora sfoggiando piume multicolori, pennacchi, turbanti, cimieri, colbacchi, cappe, fusciacche sgargianti”. Fin quando la guerra non si trasformò, d'un tratto, “da scontro a viso aperto, in una sequenza di subdoli agguati: in una lotta per la sopravvivenza (era l'epoca di Darwin), nella quale un ruolo importante è giocato dall'astuzia, dall'adattamento al terreno, dal mimetismo che ha cancellato le divise colorate relegandole alle parate solenni e alle rievocazioni storiche. Da sfrontato pavone-guerriero il soldato si è mutato in un camaleonte che mima il colore del suolo e della vegetazione per catturare la preda. Le giubbe blu e i pantaloni rossi delle uniformi francesi, le giubbe rosse e i pantaloni bianchi di quelle inglesi, le giubbe bianche e i pantaloni azzurri di quelle austriache dell'Ottocento, che tutti abbiamo visto qualche volta al cinema, hanno ceduto alle tute color terra, sasso, sottobosco e addirittura grigio cemento per la guerriglia urbana; i chepì luccicanti alle facce impiastrate di nerofumo e agli elmetti irti di frasche. Forse l'assurdità della guerra è venuta in piena luce, perdendo anche la sua ingannevole maschera: il fascino delle divise s'è logorato fino a divenire una frase fatta”.

    Ma la virtù dei cavalieri antiqui, secondo Salvi e Savorelli, non è morta. Sopravvive nelle maglie dei calciatori: guerrieri simbolici, nelle cui tenzoni sono ormai assorbite una gran parte delle funzioni identitarie e rappresentative un tempo inscenate dalle contese belliche e cavalleresche. Naturalmente, c'è anche un filone di continuità con lo sport dell'epoca greco-romana: certo casualmente, ma quando nel 1994 Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord organizzano le prime Nazionali di calcio per disputare il più antico campionato internazionale tutt'ora esistente, l'Home International Championship, quali sono i colori che scelgono per le rispettive magliette? Bianco, blu, rosso e verde. Cioè, gli stessi delle fazioni della corsa delle bighe, nei circhi di Roma e Bisanzio. Ma il legame di continuità più solido è proprio quello con la tradizione araldico-cavalleresca. Sette erano in particolare i colori dell'araldica: i due “metalli” argento e oro, e cioè bianco e giallo; e i cinque colori veri e propri rosso, nero, azzurro, verde, viola. La “legge dei colori” imponeva di accostare sempre un metallo e un colore: mai due metalli o due colori tra di loro. E tuttora infatti i commessi dei negozi ricordano: “Bianco va bene con tutto”.

    Come si è ricordato, anche i colori della scienza ricostruiti da Newton sono sette: gli stessi che la Lega spagnola di calcio ha riprodotto nel suo simbolo. Ma in realtà nove: col bianco e il nero rispettivamente come fusione e rifiuto di tutti. Dalla combinazione tra araldica e scienza Salvi e Savorelli ricavano gli undici colori del calcio. Cioè, appunto, innanzitutto bianco e nero. Poi rosso, verde, giallo, viola e azzurro, comuni a scienza e araldica. Il blu, azzurro scuro che nel sistema di Newton corrisponde all'indaco. L'arancione, altro colore newtoniano. Infine il celeste, un azzurro chiaro; e il granata e amaranto, che la teoria tradizione e il tifo livornese e torinista distinguerebbero; ma che nella pratica del calcio moderno tendono a coincidere. Anzi, osservano Salvi e Savorelli, pure i giallo-rossi della Roma sono da decenni in realtà arancione-granata: per lo meno da quando il fascismo impose di epurare un rosso troppo vivo che sapeva di bolscevico. Quattro le eccezioni: rosa, lilla, grigio, cremisi. Il cremisi del Tolentino, spiegano, deriva da un fondatore ex bersagliere. Il grigio dell'Alessandria, da una società tirchia che voleva risparmiare sulle spese di pulitura, mentre quello che sta assieme al rosso nella maglia della Cremonese è un errore di “trascrizione” dall'argento dello stemma araldico cittadino. E il lilla del Legnano è una variante del viola.

    Particolare è invece la storia del rosa, che assieme a un curioso cravattino nero fu la prima insegna della Juventus: risultato di una partita di percalle rosa destinato in origine a lavori di cucito per signorine e vecchie signore della buona società, e comprata a prezzo di svendita dal parente di uno dei fondatori. Poi la Juventus è diventata davvero “la Vecchia Signora” del calcio italiano, ma prima ancora di vincere il primo scudetto quelle maglie rosa, consumatesi in capo a tre anni, erano state sostituite dalle attuali “palate” in bianco e nero. Tra parentesi, un altro contributo molto interessante di Salvi e Savorelli è nell'applicazione alle casacche calcistiche dell'antica terminologia degli scudi araldici: “palate” le maglie di Juventus, Inter, Milan e Bologna; “piene” quelle di Napoli, Fiorentina, Torino e Nazionale italiana; “partite” di Genoa e Cagliari; “bordate” di Roma e Verona; “con fascia” della Sampdoria; “fasciata” della Pro Patria; “con scaglione rovesciato” del Brescia; “crociata” del Parma; eccetera… Tornando alla Juventus, il “palato” bianconero è invece identico a quello della squadra inglese del Notts County, e fu in effetti fornito da un tifoso di origine inglese che era appunto nativo di Nottingham. Dato il prestigio che le squadre della “madre del calcio” Inghilterra avevano all'epoca, questo tipo di imitazione non è in realtà tanto raro. Lo stesso “partito” rossoblu del Genoa è quello del Collegio di Eton, sostituito nel 1902 a un “palato” biancoblu preso dallo Sheffield Wednesday, che a sua volta nel 1900 aveva sostituito l'originaria “piena” in bianco economico, fatto proprio anche da un'altra grande squadra dell'epoca: la Pro Vercelli.

    Il Casale, scudetto del 1914, scelse invece il nero proprio per contrapposizione campanilista alle “bianche casacche” vercellesi. E di tenore simile è anche l'origine delle maglie interiste. Herbert Kilpin, giocatore-fondatore-dirigente venuto a far nascere il Milan dopo aver giocato nella sua città natale col Nottingham Forest, era partito appunto dal rosso dello stesso Nottingham Forest, a sua volta ispirato alle camicie garibaldine: “Le maglie devono essere rosse perché noi siamo dei diavoli. Mettiamoci un poco di nero per fare paura a tutti”. L'Inter, nata nel 1908 da una scissione dal Milan, lasciò il nero, ma mettendo contro il rosso “diabolico” un azzurro “angelico”. Curiosa è la vicenda dell'Hellas Verona, che nel colore giallo e blu riprende i colori municipali, secondo la scelta anche della Roma; ma nel nome inneggia alla Grecia delle antiche Olimpiadi, come nell'omaggio alla bandiera ellenica bianca e celeste che fai nei colori la Lazio. E tornando al rarissimo rosa calcistico, anche il primo Palermo aveva adottato il rosso e blu di Eton.

    La leggenda dice che divenne rosanero dopo aver stinto in lavanderia: fenomeno che Salvi e Savorelli definiscono scientificamente “impossibile”. In realtà, sembra che si sia messa di mezzo la sponsorizzazione dell'industriale Florio, promotore anche della nota “Targa” automobilistica: oltre alla Marsala produceva infatti un dolcissimo rosolio, consigliato ai tifosi per festeggiare le vittorie; e un amarissimo digestivo di color nero, per meglio trangugiare le sconfitte. Alla radio degli anni Settanta, sarebbe stata la stessa filosofia della famosa pubblicità di “Tutto il calcio minuto per minuto”: “La vostra squadra ha vinto? Festeggiate con Stock! La vostra squadra ha perso? Consolatevi con Royalstock! E se ha pareggiato, Julia: la grappa di carattere!”.
    Infiniti altri gli aneddoti “coloriti”, ma lo spazio è ormai agli sgoccioli, e non resta che consigliare di leggere tutto il libro. Solo, un'ultima notazione. Lo sport, osservano Salvi e Savorelli, ha “salvato il colore dal naufragio”. Ma “per una curiosa vendetta della storia, come se la pulsione cromatica fosse irresistibile, nella società moderna si assiste a un ritorno del colore nell'abbigliamento civile, e in particolare in quello casual, ormai straripante, provocato dalla consuetudine sportiva”. “La divisa sportiva ha conquistato i favori del prêt-à-porter anche maschile, visto che si è disposti a indossare come capi comodi non solo le magliette delle squadre di calcio più famose vendute su tutte le bancarelle del pianeta, ma anche felpe con nomi di squadre inesistenti sul pianeta stesso”. Insomma, Obama sta avendo certo il suo ruolo. Ma è soprattutto il calcio che sta ricostruendo un mondo a colori. (nelle foto: Giuseppe Montanari, “Calciatori”, 1930 - Carlo Carrà, “Partita di calcio”, 1934. Giulio D'Anna, “Football”, 1933)