La fede a rischio nelle conversazioni notturne di Carlo Maria Martini

Benedetto Ippolito

Non è molto usuale per un cardinale in pensione togliersi i sassi dalle scarpe. Comunque, non è consuetudine che egli lo faccia urbi et orbi. Ma si sa che nella storia accade sempre di tutto, purtroppo anche quando si tratta del divenire di un'istituzione così attenta alle procedure e alle convenzioni come è la Chiesa Cattolica.

    Non è molto usuale per un cardinale in pensione togliersi i sassi dalle scarpe. Comunque, non è consuetudine che egli lo faccia urbi et orbi. Ma si sa che nella storia accade sempre di tutto, purtroppo anche quando si tratta del divenire di un'istituzione così attenta alle procedure e alle convenzioni come è la Chiesa Cattolica. E di sicuro le ultime affermazioni rilasciate dal cardinale Carlo Maria Martini sui diversi quotidiani nazionali sono proprio di questo tipo. A generare sconcerto non sono le esternazioni come tali, ma la mancanza di un vero obiettivo e di una persuasiva opportunità nel farle. Stupisce, cioè, più la circostanza che il contenuto. Solitamente ad un alto prelato costa caro criticare la Chiesa, e quando lo fa è sempre perché c'è un intento pastorale o di governo che ne giustifica l'ardire. Sentire, invece, Martini che si industria a mettere in discussione per iscritto molti aspetti centrali della sua Chiesa, di quella cui egli è stato fino a ieri rappresentante pubblico e pastore, è qualcosa d'incomprensibile e forse addirittura di scandaloso.

    Stiamo parlando di temi non di poco conto, anzi di perenne validità dottrinale, incessantemente al centro del patrimonio ideale e morale della cristianità, come l'inizio e la fine vita o il ruolo prescrittivo dell'autorità e del celibato sacerdotale. Tutto sommato, anche solo rimanendo alla lettera delle pagine del suo ultimo libro intervista (Conversazioni notturne a Gerusalemme), emergono molti indizi che spiegano i motivi reali che hanno mosso Martini ad assumere il ruolo di un revisionista, forse addirittura di un modernista. In parte sono pensieri che discendono dalla sua parabola esistenziale e in parte sono convinzioni che nel tempo si sono evidentemente sedimentate nella sua coscienza, e che egli adesso si è deciso a condividere apertamente con tutti noi. Non si tratta, in realtà, di una messa in questione di scelte giudicate non opportune, ma di opinioni personali sul modo con cui da sempre la Chiesa interpreta il Cristianesimo, che egli adesso si sente di contestare perché finalmente libero – almeno in apparenza – dagli incarichi che un tempo doveva ricoprire con la prudenza e la discrezione necessaria.

    La prima osservazione da fare a Martini è esattamente questa: si è di fronte ad una confessione un po' lirica di un modo solo personale di intendere la fede cristiana, oppure veramente egli ritiene che il Cristianesimo dovrebbe evolvere verso il secolarismo puro? Sì, perché al di là di tutto, alcune sue conclusioni lasciano davvero sbigottiti. Sto pensando alle critiche rivolte, ad esempio, alla visione della sessualità, del matrimonio e del celibato presenti nell'Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. Martini dice esplicitamente che sono derivate da quel documento ufficiale molte conseguenze negative, impreviste e involontarie a danno della Chiesa.

    Egli naturalmente conferma la sua stima completa per Papa Montini, ammettendo, tuttavia, che si è trattato di un errore grave scrivere quell'Enciclica, cui la Chiesa dovrà presto porre rimedio. Il suo ragionamento è supportato dalla constatazione che, in fondo, del documento è stato accolto dall'opinione pubblica solo il messaggio proibizionista, e non l'idea positiva di amore e di vita cristiana che ne starebbe alla base. Ciò equivale a dire che è necessario guardare gli effetti, quando si difende un principio evangelico, piuttosto che sostenerlo perché è vero. D'altra parte, il tema dell'aggiornamento torna di continuo nel suo ultimo libro. Oggi la Chiesa, secondo Martini, dovrebbe attuare il proposito del Vaticano II di trasformarsi in una “comunità aperta”, disponibile e adatta ai tempi che corrono, e meno distante dalla mentalità corrente.

    Ora, malgrado tutti i buoni sentimenti, questo discorso rimane assolutamente poco convincente e, in ultima istanza, improponibile. A mancare del tutto nelle sue considerazioni è la distinzione fondamentale tra la Chiesa come istituzione e la Chiesa come organizzazione. Se, infatti, si fa riferimento al suo carattere istituzionale, si deve ravvisare che la Chiesa è immutabile, perché deriva il proprio essere direttamente da Dio. Si tratta di ciò che gli esperti chiamano comunemente il depositum fidei, che abbraccia i tre pilastri inossidabili e non riformabili neanche da un Papa, ossia Rivelazione, Tradizione e Sacramenti. Se, invece, si intende parlare della sua organizzazione, allora la Chiesa da sempre si è adattata ai tempi, e lo farà certamente anche in futuro. L'importante è distinguere quello che permane come vero da quello che può cambiare nel tempo, evitando di confondere tutto quanto.

    Per quanto concerne, poi, i temi etici dell'Humanae Vitae, il loro significato è interpretato con una evidente parzialità da Martini. In quel caso, infatti, il Magistero per bocca di Paolo VI ha ribadito soltanto ciò che da sempre costituisce il blocco monolitico permanente del diritto naturale che riposa nell'amore e nella fedeltà coniugale, nella sessualità aperta alla vita, e così via. Il problema oggi non è di sicuro scuotere la validità di quei principi, che rimane costante, ma capire il modo in cui meglio poter comunicare la loro istanza etica imperativa nel nostro contesto culturale secolarizzato. Vale la pena ricordarsi sempre, in definitiva, che per convincere non è necessario cambiare la verità, ma crederci veramente.