Ferrara, Bellasio, Arnese, Cingolani, Alesina, Felli, Tria e Forte

Festa per gli ultimi liberisti che affrontano i mostri della crisi

Redazione

Ferrara. C'è una cosa più grande di tutti noi: lo scombussolamento del capitalismo internazionale, l'idea che stia per arrivare una grande crisi, non si sa quanto lunga e quanto profonda. Partirei da questo: noi festeggiamo in questo libro, “La crisi. Può la politica salvare il mondo?”, scritto da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il coraggio intellettuale di dire delle cose che oggi nessuno ha voglia di dire.

    Mercoledì 19 novembre il Foglio ha organizzato un Forum per “festeggiare” l'ultimo pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi “La crisi. Può la politica salvare il mondo?” edito dal Saggiatore. Erano presenti Giuliano Ferrara, Daniele Bellasio, Michele Arnese, Stefano Cingolani, con i professori Alberto Alesina, Ernesto Felli, Giovanni Tria e Francesco Forte.

    Ferrara. C'è una cosa più grande di tutti noi: lo scombussolamento del capitalismo internazionale, l'idea che stia per arrivare una grande crisi, non si sa quanto lunga e quanto profonda. Partirei da questo: noi festeggiamo in questo libro, “La crisi. Può la politica salvare il mondo?”, scritto da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il coraggio intellettuale di dire delle cose che oggi nessuno ha voglia di dire. Il festeggiamento è per le idee che oggi nessuno avrebbe il coraggio di esporre, nessuno oggi ha tanta voglia di dire che il capitalismo funziona, ha funzionato, ha prodotto molta ricchezza, che la crisi non è paragonabile a quella del 1929, che la politica non deve riprendere il suo antico primato, perché una delle modernizzazioni importanti che ci sono state in Italia e nel mondo, attraverso questa nuova grande globalizzazione a cavallo dei due secoli, è proprio l'emancipazione dell'economia dalla politica, attraverso il tentativo di ridurre la sfera di intervento della politica, magari senza gli estremismi di un certo liberismo anti-government o libertarismo economico. Insomma, la politica è meno efficiente quando gioca al tavolo dell'economia invece di dettare le regole degli attori economici. La gente però ha paura, ha paura di quello che è successo, ha paura di perdere i suoi risparmi e gli investitori non sanno come orientarsi. Ad esempio, le idee del ministro Giulio Tremonti (autorevole propugnatore della teoria dei grandi rischi che il capitalismo finanziario avrebbe fatto correre a tutto l'economia mondiale per gravi errori di gestione, di corruzione, di filosofia della globalizzazione) in questo libro sono rispettate, ma molto serenamente e pacatamente criticate. Tremonti ha detto a un certo punto: “Silete, economisti”, unito a questo vizio simpatico, da ministro dell'Economia, di dire: “Io però non sono un economista”. E nel libro c'è tutta una parte in cui si dice: “Beh, stiamo attenti, perché quando gli economisti e i politici, entrano in contrasto nella forma dell'incomunicabilità, poi spesso nella storia si sono prodotte lacerazioni che non hanno certo migliorato le cose”. Comunque, festeggiamento per un libro che fa un'operazione felicemente controcorrente. Sono portatore però di due obiezioni. La prima. C'è gente che dice: “Sì, va beh, voi fate un'operazione giusta, noi siamo con voi in difesa del liberalismo in economia o del liberismo, però alla fine, com'è successo anche in America nel momento in cui il governo federale, l'Amministrazione Bush, il ministro del Tesoro hanno varato il piano di salvataggio, tutto l'establishment si è unito sui cosiddetti provvedimenti di emergenza, da Obama ai democratici, erano rimasti fuori solo i deputati conservatori più legati al loro pubblico elettorale”. Voi dite: “Difendiamo, difendiamo”, poi sul punto dei salvataggi, per quanto debbano essere temporanei, per quanto debbano essere pragmaticamente orientati, cedete anche voi. Forse da questa crisi si uscirebbe più in fretta e meglio se la famosa distruzione creativa fosse portata fino in fondo? Perché solo Lehman Brothers? Le banche fallite falliscono e poi si ricomincia. La seconda. Dovreste prendere di petto la questione delle banche e non perdere tempo con le aspirine e i taxi: Alesina e Giavazzi sono due straordinari spadaccini, hanno condotto le loro battaglie nella buona e nella cattiva sorte spesso con coraggio, però oggi si limitano a predicare la concorrenza e le sue virtù, la competitività e le sue virtù per settori marginali. Lì c'è un blocco gigantesco di interessi che è la struttura del sistema bancario italiano e lì bisogna intervenire.

    Forte. In questo libro si sostiene una tesi, e cioè che l'euro ha fatto bene all'economia italiana, però si sostiene anche una tesi un po' contraddittoria, cioè che l'economia italiana è un'economia in particolare difficoltà. La mia teoria invece è che l'euro ha fatto bene all'economia italiana, la quale ha avuto le difficoltà legate a un periodo di ristrutturazione, periodo che è ancora in corso e che ha cominciato a dare buoni frutti da 4/5 anni e questo in particolare lo si vede nel nostro commercio estero che ha avuto una crescita molto cospicua dal 2003 in poi. Questo fatto non solo è stato di beneficio a quel settore nelle aree semi nuove dell'Italia del nord e del centro, ma anche nel Mezzogiorno, in quanto il tasso di crescita delle esportazioni del Mezzogiorno, che pure sono una piccola quota, è superiore al tasso di crescita nazionale e questo vuol dire che l'euro ha fatto bene non solo alla parte sviluppata dell'Italia, ma anche alla parte meno sviluppata. La questione è interessante: di solito di fronte a una compressione monetaria, come è successo due secoli fa, il Mezzogiorno tende a regredire di fronte a una unificazione monetaria e fiscale nazionale. Invece, in questo caso, sembra di capire che nella parte dell'economia esposta al commercio estero, cioè nella parte dell'economia esposta alla globalizzazione e all'euro, la parte meno sviluppata del nostro paese ne ha giovato e lo dimostra la crescita dell'esportazione, che è superiore a quella media. Quindi, la mia osservazione è che l'euro ha fatto bene, ma non si deve scambiare un periodo di ristrutturazione con un periodo di declino.

    Ferrara. E' vero però che negli ultimi 20/25 anni l'America, che oggi è sul banco degli imputati per la crisi di Wall Street e per la sua ricaduta sui mercati mondiali, ha prodotto molta ricchezza, molta crescita e l'Europa…

    Forte. Quando un cavallo corre in questo modo, un periodo di riposo ogni tanto ci vuole, dopo che la crescita è stata così impetuosa, grazie alle liberalizzazioni del sistema economico, alla globalizzazione e al modo in cui è stata indirizzata la spesa pubblica, allo sviluppo tecnologico, all'istruzione superiore. Ora, nonostante questa crisi e nonostante la scarsa tendenza al risparmio degli americani, gli Stati Uniti hanno una forza enorme e quindi la crescita americana così spettacolare si può permettere anche la situazione non facile di questo periodo.

    Felli. In questo libro sono espressi argomenti che condivido. Essendo questo un pamphlet e un pamphlet di difesa, forse, né Alesina né Giavazzi hanno pensato che potesse essere raccolta un'altra sfida che invece è stata lanciata, non solo nell'invito esilarante di Tremonti a stare zitti: gli economisti sono in questo momento un po' sotto accusa, non tanto in Italia, ma soprattutto in America. Si notano degli assordanti silenzi negli esponenti della scuola neoclassica che forse qualche responsabilità di tipo teorico e interpretativo ce l'hanno. Quello che è successo nei mercati finanziari fortifica la teoria dei mercati efficienti. Nel libro è interessante com'è descritta l'utilità della finanza nella diversificazione dei rischi. Quello che domandarei ad Alesina è quale debba essere oggi la difesa degli economisti, se gli economisti si devono difendere. Questo non è importante solo dal punto di vista scolastico, ma è importante perché in questa fase dovremmo avere una teoria sulla quale fondarci e quello che è successo in America ha disorientato un po' tutti.

    Alesina. Sono d'accordo che gli economisti si devono difendere, ma non è vero che di punto in bianco è successo questo patatrac e nessuno se n'era accorto prima: se ne parlava. Che poi siano stati commessi errori, sicuramente.

    Felli. Ci sono cause strutturali in questa crisi, alcune sono indicate nel libro: lo sbilanciamento dei conti americani, il fatto che gli americani spendono poco e che le aspettative dei rendimenti sui prezzi delle case sono crollate: lo shift strutturale sta alla base dello scoppio della bolla. Non sembra che la teoria economica sia in grado di tenere conto di questi fatti a sufficienza.

    Cingolani. Quello che mi convince meno è questa dicotomia economia-politica. Io vedo la seconda globalizzazione come un'enorme rivoluzione sociale ed economica. Sono entrati nel circolo della ricchezza, intesa anche in senso culturale, non solo economica, popoli e classi sociali che mai si sarebbe immaginato. Ci sono state scelte politiche importanti che hanno avviato il processo: negli anni Ottanta il big bang, le liberalizzazioni, prima la sconfitta dell'inflazione e la svolta monetarista, una catena di scelte politiche, alcune coerenti altre meno, che si muovevano in questo senso, fino a Clinton, che ha accelerato il processo di globalizzazione. Il punto è questo: non ci sono soltanto le forze produttive che nel loro dispiegarsi hanno spezzato i vecchi equilibri, ci sono scelte politiche che sono andate in un certo senso. La crisi io la vedo un po' come l'esaurirsi di questo ciclo, a cominciare dallo squilibrio fondamentale tra i risparmi asiatici e l'indebitamento americano; vedo l'esaurirsi di questa fase un po' come l'esaurirsi sia della spinta propulsiva economica sia di quella ideologica e politica. La risposta a quello che secondo me è un termidoro, e poi forse una restaurazione, dev'essere anche politica e non può essere il protezionismo.

    Alesina. Tutti abbiamo parlato molto dell'accumularsi del risparmio in Cina e del risparmio negativo negli Stati Uniti come di una cosa negativa che ha causato il patatrac. Di per sé il fatto che il risparmio si accumuli in una parte del mondo non è nulla di male, è successo già in passato. Oggi l'inceppamento va cercato in qualcos'altro, non necessariamente nel fatto che risparmio e investimento siano separati. Li dobbiamo tenere insieme, perché sono l'altra faccia della medaglia, per questo dire che dobbiamo chiudere le economie non è sicuramente la strada giusta. Il direttore sollevava due punti come sempre molto puntuali. Sono molto sensibile alla prima domanda e mi sono chiesto anch'io perché non lasciare andare tutto. Ci sono due soluzioni facili a questa crisi: una è “non facciamo niente, lasciamo andare tutto”; l'altra è “lo stato deve reimposessarsi di tutto”. Io sono convinto che, anche guardando l'esperienza del '29, e di questo ne è convinto anche Ben Bernanke (presidente della Federal Reserve, ndr), che ci fosse il rischio che lasciando andare tutto si sarebbe creata una situazione di blocco reale del credito, per cui prima o poi l'economia si sarebbe aggiustata, però con dei costi molto forti. E' possibile quello che lei sostiene implicitamente, cioè che alla fine, dopo aver pagato tutti questi costi, la distruzione creativa sarebbe stata ancora più estrema e più creativa, però forse i costi di questo sarebbero stati più forti. Lei ha citato Lehman Brothers, qui è un discorso un po' diverso: all'inizio della crisi nessuno sapeva bene che pesci pigliare. Questo forse è dovuto al fatto che non era ancora stata data una risposta sistemica.

    Ferrara. Sono troppo malpensante se dico che Rubin (consigliere di Barack Obama, dopo aver lavorato con l'Amministrazione Clinton, ndr) e Paulson (segretario al Tesoro, ndr) erano di Goldman Sachs?

    Alesina. Un'altra malpensata che ho sentito è che molti degli asset di Lehman non erano americani. Il fatto che siano stati attuati tutti quei “bailout” credo sia una cosa molto triste. La seconda domanda era sulle banche italiane: sicuramente un tempo hanno goduto di protezione, poi sono state più prudenti, ma anche perché erano meno innovative delle banche americane e per questo oggi hanno sofferto meno: avevano partecipato meno allo sviluppo del mercato finanziario che poi ha in parte creato questi problemi. L'altro punto sollevato nel dibattito riguardava i mercati finanziari: se io fossi un economista di Chicago e volessi per forza difendere i mercati finanziari direi: “Stiamo attenti, perché non è che i mercati finanziari hanno creato tutti questi problemi perché sono loro che non funzionano, ma hanno creato tutti questi problemi perché si è messa di mezzo la politica. Hanno cominciato a spingere le banche a fare prestiti subprime, perché c'era l'obiettivo politico di far comprare una casa a tutti. Hanno introdotto sussidi pubblici in modo che la gente potesse comprare una casa con poca disponibilità propria”. Poi l'industria finanziaria ha fatto lobby molto di successo con alcuni senatori, che si sono opposti a regole che avrebbero limitato la leva finanziaria. Un economista di Chicago direbbe che questa è politica, non economia. Nessuno pensa che non ci debbano essere regole che pongano limiti, ad esempio sui livelli di capitalizzazione; non credo che il capitalismo debba funzionare senza regole, però i regolatori sono spesso comprati, in senso figurato, dai regolati. Purtroppo quando lo fa la finanza ha effetti sistemici straordinari, per cui se fallisce un'azienda automobilistica arriverà la General Motors, se fallisce una grande banca ha effetti che ben sappiamo. Infine sulla politica e l'economia: questa idea secondo cui la teoria economica deve stare zitta e tutto dev'essere deciso dalla politica e gli economisti devono solo ascoltare e seguire quello che decidono i politici mi sembra una posizione un po' strana, nel senso che gli economisti hanno fatto una serie di errori, però volevamo sollevare un campanello di allarme per cui quando economisti e politici non si parlano…

    Ferrara. Però non c'è stata una vera autocritica degli economisti in quanto tali rispetto per ciò che hanno fatto nell'interpretare i prodromi della crisi finanziaria. Non c'è, non dico che sia negativo questo fatto, però non c'è stata.

    Alesina. Dipende che cosa intendiamo per economisti: c'è una critica forte dei regolatori che non si sono accorti di quello che stava succedendo, nel momento in cui questi regolatori sono anch'essi economisti.

    Ferrara. A me è successo, quest'estate, di scrivere un articolo su quella che era una fissazione strategica del Foglio, cioè che i fondamentali dell'economia americana sono buoni, l'economia americana regge, la crescita non è l'unico standard, ma è un criterio robusto e importante, e il resto è grande turbolenza, crisi, la necessità di riposo per il cavallo. Il lunedì esce questo mio pezzetto e la domenica Giavazzi aveva scritto praticamente la stessa cosa, naturalmente con ben altre competenze, in un bel fondo del Corriere, ma aveva detto: “Ragazzi, qui la cosa curiosa è che in America si chiacchiera tanto di una crisi dei mercati, però la base dei mercati regolamentati e liberalizzati va meglio dell'Europa, cioè l'Europa soffre, l'America no. Siamo stati in un certo senso, io non credo fino in fondo, entrambi smentiti dal fatto che poi a settembre ottobre è sembrato venir giù il soffitto americano, il cielo americano.

    Alesina. Non sono convinto che sia stato smentito, nel senso che non mi è chiaro che gli Stati Uniti stiano andando peggio dell'Europa, nonostante la crisi si sia orginata lì e nonostante sia lì la patria del Wild West Capitalism delle banche. Per un po' l'economia americana continuava ad andare avanti, ora sicuramente ci sarà una recessione. Che gli economisti come gruppo culturale abbiano sottovalutato rischi che si annidavano in questa struttura dei mercati finanziari è probabilmente vero, ma la cosa più importante non è che l'abbiano sottovalutata gli economisti, gli accademici, ma i regolatori, i politici, le banche centrali.

    Tria. Dopo che Paulson tirò fuori il grande piano di salvataggio noi scrivemmo che era perché aveva ricevuto l'altolà dai cinesi. La cosa che mi interessava, che non c'è nel libro e di cui si parla poco, è che da qualche tempo si profetizza di una rinata Bretton Woods per descrivere il meccanismo che ha operato tra Stati Uniti e Cina, cioè il meccanismo che c'è dietro a questo prestito da parte della Cina, questo passaggio di risparmio da parte della Cina agli Stati Uniti, che ha operato come la prima Bretton Woods: un sistema di cambi fissi su cui gli americani hanno protestato blandamente perché andava bene per il controllo della mobilità dei capitali. Questo ha consentito e ha dato spazio alla politica anche monetaria di Alan Greenspan (allora presidente della Fed, ndr) su cui poi si è innestata la spirale di certi eccessi del mercato finanziario. Ora, la prima Bretton Woods è finita per l'inconvertibilità del dollaro. Mi chiedo se dietro a questa crisi finanziaria ci sia il fatto che siamo arrivati al limite anche di questo meccanismo per cui abbiamo nel mondo due sistemi di tassi di cambio: gli Stati Uniti coprono i tassi di cambio fissi con un'area dollaro-asiatica principalmente, tassi flessibili con l'Europa, un mercato liberalizzato con Doha e il commercio internazionale, controllo dei capitali, perché il flusso dei capitali dalla Cina agli Stati Uniti è controllato. Questo sistema, in fondo, è stato anche virtuoso: ha consentito alla Cina di costruire la sua economia ed era necessario anche per il mondo. Sono d'accordo che il futuro della globalizzazione è nei grandi mercati cinesi. Si parla tanto di una nuova Bretton Woods (ma chi ne parla non sa nemmeno bene di cosa si tratta), è il convitato di pietra in qualche modo criticato in questo libro. In realtà, parlare di una nuova Bretton Woods significa mettere a tema il sistema monetario internazionale. Ecco, è all'ordine del giorno una discussione su questo: dietro alla crisi c'è un problema di vedere se si va, ovviamente tenendo agli interessi cinesi, cioè con un accordo politico, verso un regime di flessibilità dei cambi generalizzato o verso un sistema concertato tra due, tre aree valutarie, quindi la non flessibilità, però uguale per tutti, diciamo un maggiore controllo. Su questo punto gli economisti hanno detto poco. E dopo il G20 è strano che le Borse non siano crollate.

    Bellasio. Tenterò di avanzare una tesi arditissima. Penso sia facile essere liberisti quando c'è una crescita, è più difficile esserlo quando c'è una crisi, però quello che è mancato è la descrizione di quello che è successo. Il problema non è tanto accettare gli aiuti di stato, il pragmatismo sì o no. Non c'è stato nessun economista che abbia detto: “Guardate che già Greenspan parlava del cavallo che deve riposarsi, dell'atterraggio morbido, non è improvviso quello che è successo”. Però sui mercati finanziari si è trasferita questa crisi in maniera improvvisa, perché? Io quando leggo il sottotitolo “può la politica salvare il mondo?”, ci vedo già un cedimento, perché c'è stata già una decisione politica nella correzione traumatica e brusca dei mercati, cioè, fino a qualche giorno prima il governatore della Banca d'Italia, il cancelliere tedesco, il segretario del Tesoro Paulson parlavano di un tipo di mondo, dopo 15 giorni parlavano dell'opposto, come se ci fosse stata una decisione politica: “Siccome non siamo più in grado di controllare l'atterraggio morbido dell'economia americana, provochiamo una brusca correzione controllata e in qualche modo speriamo di governarla. Se gli economisti avessero accennato anche a questo aspetto, oggi si sentirebbero meno sulla difensiva, perché direbbero: “La politica prima ha creato la bolla finanziaria per dare l'illusione che tutti potessero avere la casa a basso dispendio di energie, poi quando la finanza ha corso troppo ha deciso che non poteva più a ricondurla nel recinto in maniera soft e quindi ha deciso una correzione violentissima”. La più grande perdita dei mercati finanziari si è avuta nei 15 giorni successivi alla presentazione del piano Paulson, è strano, perché doveva essere un piano per infondere fiducia e invece proprio quel piano ha aggravato la crisi di fiducia dei mercati.

    Tria. E' vero che Greenspan parlava di atterraggio morbido, ma in realtà il suo problema era mantenere un alto valore della ricchezza degli americani per tenere alti i consumi. Lo sgonfiamento della new economy ha dato un colpo alla ricchezza finanziaria e credo che la cosa politica era di creare la bolla immobiliare per ripristinare ricchezza e mantenere i consumi, adesso respingiamo tutto ciò, ma dieci anni intanto li ha guadagnati in qualche modo e adesso, se la recessione normale vale due punti di pil, aveva ragione lui per tutti i punti che ha guadagnato prima.

    Forte. Mi sembra che qui sia assente il detonatore di questa crisi: il rialzo enorme del prezzo del petrolio e delle altre materie prime in relazione all'espansione generata. A un certo punto il petrolio mancava, mancavano le raffinerie, mancavano i mezzi di trasporto, i porti, non tanto l'offerta all'origine, e questo ha determinato un prezzo enorme. La grande crescita aveva determinato i prezzi del petrolio e dell'agricoltura, questo tema non è emerso, ma è fondamentale. Non è solo colpa dei mercati finanziari: è intervenuta questa variabile che si potrebbe dire esogena, ma che esogena non è perché dipende dallo stesso sviluppo che è stato creato.

    Arnese. Aiuti temporanei che significa? E poi, non è in contraddizione dire: la politica stia lontana dall'economia, quando voi stessi avete promosso e firmato un manifesto appello a livello europeo per un mega fondo pubblico che intervenga sulle banche. Al momento che giudizio date della politica economica del governo rispetto a quanto è avvenuto negli altri paesi europei?

    Alesina. Sono d'accordo con voi che il cavallo stava rallentando prima della crisi finanziaria anche a causa dell'aumento delle materie prime. E' vero che la crisi ha trasformato un atterraggio morbido in un atterraggio non morbido ed è vero che i mercati sono crollati con il piano Paulson o perché non gli piaceva o perché si sono resi conto che il piano era un segnale che stava succedendo qualcosa. Ora, non sono così sicuro che la cosa sia stata fatta apposta, credo che avrebbero preferito un atterraggio morbido. Però è sicuramente vero che Greenspan prima era l'eroe perché aveva tenuto i tassi bassissimi, adesso è un villano perché i tassi erano troppo bassi, quanto villano bisognerà vedere. Per il momento sembra che abbia fatto una serie di errori, però io sono relativamente ottimista.

    Felli. Ci sono 20 punti di pil in più nella fase di Greenspan.

    Alesina. Anche se perdessimo quattro o conque punti potremmo sempre arrivarci. Per me, come liberista, è stata una scelta molto dolorosa dover dire “dobbiamo fare qualcosa per salvare queste banche”, il fatto di esserci arrivati significa che qualcosa di molto profondo non ha funzionato prima, qualcosa che ha avuto a che fare non solo con i mercati che non hanno funzionato, ma un tilt tra mercati e politica. Sulla politica economica italiana credo che la risposta sia legata a quello che succederà con il piano fiscale di stimoli all'economia. Usiamo la crisi per fare quelle riforme che non sono mai state fatte; per esempio: non abbiamo dei sussidi per la disoccupazione fatti bene, abbiamo la cassa integrazione usata a doc. Se si facessero queste cose, come la riduzione del cuneo fiscale, potrebbe essere un'altra occasione non solo per usare la domanda aggregata ma anche per usare la crisi. La politica del governo la giudicherei fra un po'. Quello che è un po' triste che è abbiano perso centinaia di ore sull'Alitalia invece di passare le ore a occuparci dei sussidi di disoccupazione. Sul sistema monetario internazionale: qualche anno fa si parlava di tre aree – dollaro, euro, yen – Robert Mundell (Nobel per l'economia nel 1999, ndr) diceva che ci vuole una moneta unica per tutto il mondo, quindi questi problemi di organizzazione del sistema monetario internazionale gli economisti se li sono posti eccome. Quando ci sarà questa Bretton Woods, sarà un tema fondamentale sul tappeto e bisogna pensarci bene. L'idea di tre aree con tre/quattro monete con un tasso flessibile tra loro a cui le altre monete sono collegate non mi dispiace.

    Bellasio. Fino a qualche anno fa, quando c'era una crisi, la prima cosa che si spiegava era il rapporto tra le monete, voi denunciate il fatto che oggi, di fronte a questa crisi sia un argomento poco trattato.

    Felli. Non trovo che sia sbagliato che in questo momento manchi l'idea di mettere mano a grandi sistemi di tipo palingenetico che riformano la realtà e la migliorano attraverso regole molto vincolanti per rifondare l'ordine mondiale. Credo che ci sia un problema politico, perché questa crisi, anche in America, è stata vissuta un po' come la fine dell'era americana, cioè sembrerebbe che l'America e l'ordine del mondo che fino ad ora si è retto su questa superpotenza siano giunti a una fine. Qui sorgerà il problema, perché non c'è un sostituto dell'America e soprattutto perché l'America è divisa su come risolvere i suoi problemi interni. Non c'è accordo su come risolvere il problema sulla sicurezza sociale, non c'è accordo su come affrontare il problema del debito. Quindi tornerei sulla domanda di prima: quale teoria? Qual è la politica economica che possiamo usare? Sono scettico sull'usare la politica della domanda e sulla sua efficacia e il problema dell'Italia non è la recessione, che non si allontana molto dal nostro usuale tasso anemico di crescita.

    Cingolani. Stiamo vedendo quali sono i limiti della politica monetaria? Quali sono questi limiti? Fino a che punto possono scendere i tassi? C'è un rischio di trappola della liquidità e c'è un rischio di deflazione o no? L'altra cosa da considerare è che adesso si parla di stimolo fiscale e politica monetaria e di come combinare le due faccende.

    Tria. Quando si parla della distribuzione del reddito, si dice che in italia la disuguaglianza è rimasta. Alla fine degli anni Novanta, la tesi era che quando c'è un grande dvario, cresce molto la ricchezza e non i redditi, il capitalismo perde di dinamismo, la gente campa sulla ricchezza tra bolle e non bolle.
    Arnese. Andate ancora d'accordo lei e Giavazzi? Sulle spese per le infrastrutture ho visto differenti visioni. Nello stesso giorno lei diceva che occorre farle e Giavazzi che le spese per le infrastrutture non servono e se servono sono per più in là. Sulle banche potete dare un giudizio? Rispetto a quanto avvenuto negli altri stati europei il governo italiano fa bene?

    Alesina. Credo che l'80 per cento degli economisti siano d'accordo sul fatto che i mercati funzionano e che nel 90 per cento dei casi è meglio che i governi ne stiano fuori (negli Usa, almeno). La teoria economica che funziona è questa teoria eclettica per cui i mercati funzionano e i governi devono fare molto poco, una politica monetaria che riduce i tassi, una politica fiscale che lascia lo spazio ai destabilizzatori fiscali. Per il mondo nel suo complesso c'è qualcosa che va al di là della semplice recessione? Forse sì e se sì forse, e qui entra l'eclettismo, uno stimolo fiscale potrebbe servire, magari è già troppo tardi. Però per quanto riguarda l'Italia forse certe riforme andrebbero fatte in ogni caso, indipendentemente dalla crisi. Sulle infrastrutture, io non sono mai stato un fan delle infrastrutture, c'è troppa enfasi, come se fossero il toccasana, anche se qualche intervento mirato è necessario, ma non le metterei in testa. Sulle banche io ero molto preoccupato che l'intervento fosse un metodo di ingerenza politica, per il momento sembra di no, quindi questo mi ha incoraggiato, sospendiamo il giudizio e staremo a vedere. Si parlava poi del debito americano e staremo a vedere cosa faranno con General Motors. Se l'America come leadership mondiale continuerà. Credo che sia vero che gli Stati Uniti debbano risolvere alcuni nodi interni che riguardano la grande disuguaglianza e che cominciano a incedere sulla politica, per cui è necessario intervenire prima che la domanda esploda, soprattutto sulla domanda di Health Care. Bisogna fare qualcosa per la disuguaglianza, non soltanto perché è giusto moralmente, ma anche perché è giusto strategicamente per un liberista. Sulla politica monetaria: c'è il rischio di una trappola della liquidità e di recessione. Sulla ricchezza: è vero che c'è una sottile lama di rasoio nell'incentivo a creare ricchezza e poi quando l'hai creata a vivere di rendita. Gli Stati Uniti finora sono sempre stati capaci di rinnovarsi e io sono ottimista: continueranno a farlo.
    Bellasio. Con questa crisi si è vista qualche crepa anche nella fiducia profonda dell'America nel capitalismo?

    Alesina. Io penso di sì. Molto meno che in Europa, perché in Europa non si aspetta altro che tornare a diffidare del capitalismo. Negli Stati Uniti meno, però con la combinazione di questa diseguaglianza, questi problemi non risolti di Health Care, più la crisi, io credo che un po' di sfiducia si sia avvertita anche lì. Ma molto, molto meno che in Europa.

    (ha collaborato Gaia Carretta)