Il caso Zaleski
Qui si spiega chi è, e che cosa fa, il finanziere franco-polacco che mette in ambasce i banchieri
Per parlare di Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco da anni tessera chiave nel mosaico della finanza italiana e che ora è stato, per così dire, messo un po' nell'angolo, bisogna partire dai numeri.
Per parlare di Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco da anni tessera chiave nel mosaico della finanza italiana e che ora è stato, per così dire, messo un po' nell'angolo (anche se “non commissariato” come spiega un suo comunicato stampa di ieri), bisogna partire dai numeri. E' una lettura un po' noiosa, ma indispensabile. Eccoli.
Con la sua holding Tassara è indebitato per 6,1 miliardi di euro. Di questi, 4,4 miliardi gli sono arrivati da banche italiane, e 1,6 da due straniere, Bnp Paribas (900 milioni) e Royal Bank of Scotland (700). Tutti questi soldi non gli sono serviti per creare imprese, posti di lavoro, ricchezza insomma. No: li ha usati per comperare in Borsa pacchetti delle più importanti società quotate a Milano. Tutti questi soldi non li ha avuti, come viene richiesto a qualsiasi imprenditore che si affacci in banca, a fronte di un business plan corroborato da solide garanzie reali tipo case, terreni, opere d'arte o anche solo tappeti, visto che lui ha una collezione di quelli preziosissimi che pare voglia regalare alla città di Milano perché li metta in un museo. No: a garanzia di quei 6,1 miliardi finiti in azioni di società del salotto buono ha dato le azioni stesse. Ma è successo un fatto inatteso: lo tsunami che ha investito i mercati ha fatto crollare il valore delle suddette azioni. Dunque anche di quelle che Tassara-Zaleski avevano dato alle banche. Giorni fa Royal Bank e Paribas gli hanno chiesto di reintegrare il pegno e di restituire i prestiti. Zaleski non ha potuto (o voluto) farlo. In suo soccorso sono arrivati gli istituti italiani che hanno formato una sorta di pool per rimborsare a francesi e scozzesi 1,6 miliardi e riprendersi le preziose garanzie. Le stesse banche hanno anche individuato in un manager di lungo corso, Pierfrancesco Saviotti, la persona che dovrà gestire la Tassara e trovare una soluzione.
Orazio Carabini, sul Sole 24 Ore, ha scritto che i miliardi prestati al solo Zaleski sono lo 0,7 per cento dell'intero credito erogato dal sistema bancario al sistema produttivo italiano.
E allora, dopo i numeri d'obbligo, la domanda d'obbligo: perché tutti questi soldi a lui, proprio a lui?
Per rispondere si può incominciare dal passato di Romain Zaleski. Nato a Parigi 75 anni fa, di origini polacche, cattolicissimo, laureato in Ingegneria mineraria al Politecnico, ha iniziato la sua carriera nella pubblica amministrazione, facendo rapidamente carriera. Un commis d'état. Personaggio schivo che per anni non ha mai fatto parlare di sé, è uomo accorto, capace di muoversi con diplomazia e perizia nelle stanze del potere. E in questo, forse, un qualche aiuto lo ha ricevuto dalla seconda moglie, Hélène, per anni assistente di Valéry Giscard d'Estaing quando era presidente della Repubblica francese. L'amore (o più prosaicamente l'interesse) per l'Italia risale al 1984 quando a 51 anni si è trasferito in Val Camonica, nel bresciano, come consulente della Carlo Tassara, una società mineraria afflitta da vari problemi. Zaleski li ha risolti, ha trasformato la Tassara in una holding di partecipazioni e ne ha fatto la sua base operativa.
A metà degli anni Novanta si è consolidato il rapporto decisivo per la vita e la carriera dell'ingegnere franco-polacco. Quello con Giovanni Bazoli, capo carismatico della cosiddetta finanza cattolica del nord Italia, presidente della bresciana Mittel crocevia di molteplici interessi, e ora anche presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, sostenitrice nel corso degli anni (è esposta per 1,7 miliardi di euro) della Tassara. Ha scritto Giovanni Pons su Repubblica del 27 ottobre: “La vicinanza culturale ma anche di affari con un banchiere dalla reputazione immacolata come Giovanni Bazoli, lo hanno consacrato alle cronache nella veste di gran puntellatore dei punti fragili della galassia del nord. Zaleski è un imprenditore finanziere estraneo ai salotti ma non ostile ai salotti, che ha sempre saputo raccogliere il proprio tornaconto dagli scontri che si svolgevano attorno a lui”.
Ed è stato proprio uno scontro all'interno del salotto a consentire al padrone di Tassara di realizzare un colpo borsistico da fuochi artificiali nel 2000-2001: con la guerra in più fasi scoppiata attorno a Falck e poi Compart-Montedison, Zaleski ha incassato plusvalenze stratosferiche. L'immagine che si è creato con questa sequela di operazioni azzeccatissime è stata quella di uomo abile, dal grande fiuto, che individua con freddezza e lucidità le buone occasioni e sa come farle rendere al massimo. In più è un signore silenzioso, che non parla, non si fa vedere, ha abitudini sobrie, possiede una casa lussuosa a Parigi ma quando sta a Milano vive in un appartamento poco più che modesto a San Felice.
Intuito, tenacia e tanta discrezione. Qualità apprezzatissime nel capitalismo italiano. Ma Zaleski ha una caratteristica in più: in tutte le operazioni che realizza non mette soldi suoi, o perché non li ha, o semplicemente perché non vuole rischiarli. Preferisce chiederli in prestito e per cifre imponenti. E questa è musica per le orecchie dei banchieri, e non solo perché i prestiti generano interessi d'oro per i bilanci.
Già, il salotto. A inventarlo fu Enrico Cuccia, fondatore e per 40 anni capo assoluto di Mediobanca. Lui aveva costruito un meccanismo che funzionava più o meno così: aveva amici imprenditori molto fidati e bisognosi di denaro fresco per le loro aziende; lui trovava il modo di soddisfare queste esigenze finanziarie facendo arrivare alle loro casse, diciamo 100 miliardi di lire. Di questi, 70 erano usati per lo scopo per il quale erano stati chiesti, gli altri 30 servivano invece a comperare partecipazioni in società quotate il cui controllo stava molto a cuore all'amministratore delegato di Mediobanca. E così Cuccia aveva voce in capitolo, e spesso decisiva, in tutte le principali partite che si sono giocate in decenni nella finanza italiana. E' stato lui a teorizzare che “le azioni non si contano, ma si pesano”.
Il suo metodo è stato clonato da tanti altri banchieri in casi noti e meno noti, gloriosi e no. Ma a noi interessa Zaleski. In un sistema che si fonda su intrecci, dove la società A possiede un 5 per cento della società B la quale ha un 2 per cento della A e un 2,8 della C titolare a sua volta di un qualche 0 virgola nella A e nella B, e avanti così aggrovigliando, uno come l'ingegnere franco-polacco diventa un elemento prezioso. Da utilizzare. Ha ambizioni finanziarie, il che lo rende audace; ma è alla ricerca di capitali per realizzarle, il che lo rende sensibile al richiamo della briglia. Nel giro di sette-otto anni Zaleski ha messo assieme un portafoglio straordinario: 18 per cento di Mittel, 10 di Edison, 5 di Intesa Sanpaolo, 2,5 di A2A, 2 di Ubi, 2 di Generali, 2 di Mediobanca, 2 di Mps, 2 di Bp, 1 di Fondiaria Sai, 1 di Telecom. Quanto c'è di meglio sul listino nazionale, è finito nella Tassara. A debito, come si è detto.
La finanza italiana, in fondo, è una piccola-grande casta. Piccola perché è un club ristretto; grande per il potere effettivo che esercita. E Zaleski, con i soldi delle banche, è entrato a farne parte. Adesso il giocattolo si è rotto. Ha scritto Massimo Giannini su Repubblica di ieri: “Uno così non può neanche liquidare il tesoretto sul libero mercato, perché questo equivarrebbe ad esporre i soliti noti a un rimescolamento di carte destabilizzante”. Così si è arrivati alla situazione attuale, “che forse costringerà le banche italiane ad erogargli altri soldi per rientrare dai debiti reclamati dagli istituti stranieri liberi (per loro fortuna) da questi problemi di ‘stabilità' proprietaria”. In qualche modo bisognerà trovare una quadra, ma la piccola-grande casta ci sta già lavorando.
Gli amici di Zaleski, e sono molti perché il personaggio – impegnato nel sociale – è di spessore, pongono una domanda: “Perché tutti se la prendono con lui adesso e invece non dicevano nulla quando era sulla cresta dell'onda?” Si risponde facilmente. Ora che è scoppiata la crisi, si pensava che l'ingegnere ci avrebbe messo qualcosa di suo tanto per dimostrare, come dire, buona volontà. E' tuttora un uomo immensamente ricco: ha partecipazioni in società quotate e non quotate in Italia e all'estero. Potrebbe dedicare qualche spicciolo per rimpinguare, con un aumento di capitale, la sua Tassara e partecipare all'operazione di salvataggio. Un esempio aiuta: quando nel 2002-2003 la Fiat è entrata nella più grave crisi della sua storia, ha ricevuto l'aiuto decisivo delle banche, ma anche gli azionisti hanno fatto la loro parte: la catena che inizia con l'accomandita di famiglia e continua con Ifi e Ifil ha fatto arrivare alla casa automobilistica 1,6 miliardi di euro. Da Zaleski invece nemmeno un cenno alla possibilità di mettere mano al portafoglio. Le due banche estere hanno chiesto il rientro? Nessun problema, le italiane ci penseranno.
Ma la risposta alla legittima domanda degli amici di Zaleski ha una seconda parte: tanta attenzione dei media è dovuta al fatto che oggi non si parla più di una semplice transazione fra banchieri privati e un imprenditore privato; oggi il caso Tassara è diventato una questione di rilievo nazionale, che coinvolge tutti. Il governo sta varando delle misure eccezionali per rafforzare il patrimonio delle banche in modo che possano continuare ad erogare credito all'economia reale già in recessione, che non tolgano ossigeno alle imprese in difficoltà mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro. Bisognerà spiegare perché parte di queste risorse pubbliche debbano essere usate per andare in soccorso a Zaleski che, come ha scritto il direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli, con quei miliardi ricevuti dal sistema bancario “ha forse creato un solo posto di lavoro, quello della sua segretaria”.
di Gianni Gambarotta


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