Tavaroli ci spiega la “bolla mediatica” dell'affaire Telecom

Redazione

Il posto è un ristorante a pochi passi dal Corriere della Sera. Ai più questo potrebbe sembrare un ristorante come tanti. In realtà, come ci tiene a precisare il titolare, “da qui sono passati tanti di quei giornalisti che lei non ne ha l'idea. Arrivano alla spicciolata, dopo l'una di notte. E' da vent'anni che lo conosco. Giuliano è forte”.

    Il posto è un ristorante a pochi passi dal Corriere della Sera. Ai più questo potrebbe sembrare un ristorante come tanti. In realtà, come ci tiene a precisare il titolare, “da qui sono passati tanti di quei giornalisti che lei non ne ha l'idea”. E' in questo anonimo ristorante di Milano che si danno appuntamento i carabinieri del nucleo antiterrorismo dopo le loro giornate di lavoro ed è qui che i giornalisti si danno appuntamento per incontrare fonti. “Arrivano alla spicciolata, dopo l'una di notte. E' da vent'anni che lo conosco. Giuliano è forte”.

    Giuliano Tavaroli, classe 1959, sposato, 5 figli e una grande passione per lo sport (calcio e rugby) si presenta con un quarto d'ora d'anticipo. “Non sono un professore universitario! Per me il quarto d'ora accademico non esiste. Detesto chi arriva in ritardo”. Tavaroli, l'ex carabiniere che è stato il braccio operativo nel nucleo dell'antiterrorismo guidato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu il protagonista dello spettacolare arresto (eseguito assieme al suo amico di sempre Marco Mancini), nei primi anni 80, di Sergio Segio, il fondatore di Prima Linea, rintanato in un piccolo appartamento a pochi metri da Porta Romana. Tavaroli ha quello che si suole definire il physique du rôle da operazioni sul campo. E che cosa fa oggi? “Dopo ‘Spie' (Mondadori), penso al prossimo libro. Sto lavorando con il mio coautore e amico Giorgio Boatti a un nuovo lavoro. Sulla società del controllo”.

    Un romanzo in stile Ken Follet? “Lei guarda troppi film americani! Ma chi pensa di avere davanti? Io scrivo di quello che so, non di spie. Nella mia vita mi sono sempre occupato di sicurezza pubblica e privata. Prima nell'Arma con il generale Dalla Chiesa, poi in Pirelli, quindi in Telecom. Ho, insomma, una certa esperienza. Come ho raccontato in ‘Spie' il vero tema è quello della sicurezza nelle grandi aziende. Vorrei sviluppare il discorso ed estenderlo alla vita quotidiana. Vorrei riuscire a spiegare il conflitto che c'è tra sicurezza e privacy: in Italia non si parla mai abbastanza di ‘identità digitale dei cittadini'. La vita privata delle persone è oggi fortemente a rischio e non c'è garante che tenga. Siamo al ‘total control', le aziende (dai supermercati ai treni passando per la telefonia mobile, alle Asl eccetera) hanno banche dati piene zeppe di informazioni sensibili”.

    A metà luglio la procura di Milano ha chiuso le indagini: dovrà rispondere dei reati di associazione per delinquere, corruzione internazionale, detenzione e divulgazione di materiale riservato. Come sta vivendo questa fase? Sorride. “Finalmente avrò la possibilità di confrontarmi nel processo con i fatti e con tutti i protagonisti della vicenda, e le assicuro che sono tanti. Quando mi hanno chiuso la cella alle spalle la sera del 20 settembre 2006 nel carcere di Voghera, mi sono guardato nello specchietto di plastica del bagno dicendomi: Tutto quello che era prima non ci sarà più!'. Ho fatto 8 mesi e 10 giorni in carcere. Più 5 mesi a casa. La mia è stata una lunga carcerazione preventiva”. (continua. Tutta l'intervista sul Foglio in edicola)

    di David Parenzo