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Perché anche la Svizzera non si sente tanto bene

Felice Meoli

L'atlante della crisi non conosce confini. Ma il caso forse più eclatante, perché ha colpito una nazione che aveva fatto dell'equilibrio, della prudenza e del pragmatismo gli elementi portanti e insostituibili della sua fortuna e solidità, è qui a due passi da noi: la Svizzera.

    Anche la Serbia sta fronteggiando una dura crisi economica. La scorsa settimana il governo è venuto allo scoperto, svelando i contatti con il Fondo Monetario Internazionale per un pacchetto anticrisi, poi di fatto concesso. "Non siamo certo nel gruppo dei casi d'emergenza, come l'Ungheria – aveva detto un alto funzionario rimasto anonimo - ma abbiamo bisogno di misure per la stabilità nel lungo periodo". Belgrado dunque non sarebbe tra i "casi d'emergenza" come l'Ungheria, benché solo pochi giorni fa il governatore della Banca centrale ungherese Andràs Simor garantisse di non essere un caso d'emergenza come l'Islanda.

    A sua volta, mentre guarda il resto del mondo dall'alto in basso nell'Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite, Reykjavik potrebbe non sentirsi un caso d'emergenza come l'Ucraina, per esempio. Kiev infatti, a differenza ad esempio della Lettonia, ha altro a cui badare, come la violenta crisi di governo. Ma per la Lettonia, secondo il primo ministro Ivars Godmanis, non si dovrebbe parlare di alcun "caso", di sicuro nessuno paragonabile a quello della Serbia. In questa giostra, che ricorda il vecchio calcinculo di qualche luna park di periferia, quel che è certo è che gli uomini del Fondo monetario internazionale non sono mai stati così indaffarati.

    L'atlante della crisi, infatti, non conosce confini. Ma il caso forse più eclatante, perché ha colpito una nazione che aveva fatto dell'equilibrio, della prudenza e del pragmatismo gli elementi portanti e insostituibili della sua fortuna e solidità, è qui a due passi da noi: la Svizzera. Parla da solo il salvataggio messo in scena da Banca centrale e governo: la prima ha consegnato a Ubs 54 miliardi di dollari in cambio dei suoi asset tossici che finiranno in veicolo alle Cayman, il secondo è entrato nell'azionariato con 3,9 miliardi di euro (9,3% del capitale senza diritto di voto). Concertata anche la ricapitalizzazione di Credit Suisse, di 6,7 miliardi di euro (12% della banca), consentendo così agli investitori arabi e israeliani, già presenti nel capitale e grandi azionisti di Barclays, di aumentare ancora il proprio peso all'interno della seconda banca svizzera. Nel Paese elvetico sono detenuti depositi bancari per un numero quasi sette volte maggiore al Prodotto Interno Lordo, a cui il settore finanziario contribuisce con un buon 15 per cento. Le sette volte della Svizzera non sono le nove volte dell'Islanda, ma neanche le due del Regno Unito.

    Visto l'abnorme afflusso di capitali, non è un caso, dunque, che il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbruck abbia chiesto che Berna venga inserita ufficialmente nella blacklist dei paradisi fiscali stilata dall'Ocse, accanto alle Seichelles. Steinbruck ha affermato che la normativa svizzera rischia di minare la stessa "sovranità della Germania": un punto interessante, che fa vacillare la tradizionale neutralità rossocrociata sui colpi della finanza. La previsione di un incremento delle tasse e dell'aggressività delle ispezioni fiscali ha recentemente spinto a migrare verso i Cantoni un hedge fund londinese da 810 miliardi di dollari. Pronto ad essere emulato dagli operatori più grandi del mercato. Nonostante la risposta stizzita del Ministro degli Esteri elvetico Micheline Calmy-Rey ("É comodo dire che è colpa di qualcun altro"), sembra arrivare dagli stessi cittadini la richiesta di un nuovo "compromesso storico".

    In tempi di austerità, anche per gli svizzeri, ad esempio, bonus e retribuzioni a sette zeri per i manager cominciano a essere un po' troppo. A guidare la classifica dei paperoni elvetici con 20 milioni di euro l'anno è Daniel Vasella, numero uno di Novartis. Ma se lo stesso Vasella abbozza una giustificazione all'opinione pubblica, adducendo "l'impossibilità di cambiare di continuo i sistemi di retribuzione. Altrimenti in azienda si crea il caos" anziché rivendicare la crescita dei profitti (19%) della sua azienda dall'inizio dell'anno, vuol dire che l'imbarazzo è proprio tanto.

    E infatti il presidente di Ubs fino allo scorso aprile, Marcel Ospel, ha rinunciato per quest'anno ai bonus, facendo crollare i compensi per i suoi servizi da 17 a 1,7 milioni di euro. Intanto, in attesa di sviluppi, i risparmiatori restano preoccupati. E come nella più classica tradizione italiana stanno correndo alle Poste, che hanno visto incrementare l'apertura dei conti del 30% rispetto allo scorso anno. Banche cantonali, le banche di Coop e Migros (catene di supermercati) stanno registrando buoni risultati, e Raiffesen, la banca più grande delle piccole, segnala mediamente 600 nuovi clienti al giorno, un incremento del 100 per cento. "Sarà la Svizzera la nuova Islanda?", si chiedeva qualche giorno fa il quotidiano britannico The Independent. Probabilmente no, vista anche la sostanziale tenuta del Pil. Occhio invece a un'altra Svizzera, quella asiatica, com'è soprannominato Singapore, per l'espansione del sistema bancario e del risparmio gestito. Con due trimestri consecutivi di crescita negativa, il paese è già tecnicamente in recessione.