I giornali tra oralità e scrittura

Benedetto Ippolito

Pensare un mondo senza giornali è un po' come immaginare un paesaggio di campagna senza alberi o una tavola imbandita senza posate. Si tratta di uno scenario la cui parzialità lascia a desiderare. Almeno questa è la speranza.

    Pensare un mondo senza giornali è un po' come immaginare un paesaggio di campagna senza alberi o una tavola imbandita senza posate. Si tratta di uno scenario la cui parzialità lascia a desiderare. Almeno questa è la speranza. Sì, perché ormai sappiamo che tale sciagura non è soltanto un'ipotesi immaginaria, un orrore fantastico, ma una possibilità molto realistica. Perlomeno plausibile. Il New York Sun ha chiuso, ma figuriamoci quante altre testate hanno serrato i battenti in tutto il mondo senza che ce ne siamo accorti. La spiegazione di questa crisi della carta stampata è molto complessa, anche se il fatto rimane facile da verificare. I giornali, come i piccoli negozi, continuano a fallire, e i giornalisti, come i commessi, a cambiare posto di lavoro.

    La situazione è piuttosto ricorrente, benché la realtà che viviamo non sia per nulla priva d'interesse per la comunicazione. Anzi, in ogni università che nasce non può mai mancare una facoltà specifica dedicata ai media. Siamo, in definitiva, nell'era del multimediale. E, malgrado tutto, non sembra esserci più spazio per i giornali di notizie. Il mondo appare sempre meno lontano, sempre meno diviso dalle distanze, e per il vecchio giornale fatto di carta non esiste più alcuna locazione concreta. Almeno così sembra.

    Certamente, non avviene in questo modo per tutta la scrittura. Anzi, a considerare fino in fondo la condizione contemporanea, non si può evitare di vedere dappertutto i geroglifici letterari. In effetti, mai come in questi ultimi decenni abbiamo potuto costatare una rinascita in così grande stile della scrittura. Sia in Internet, con l'uso delle mail, e sia nella musica moderna, il nostro tempo è quello della lettera incisa. Basta leggere uno sms, o ricevere un normale messaggio di posta elettronica, però, per verificare quanto trascurata sia la forma, quanto svuotato sia il senso e il suo uso. Valorizzato e contraffatto: così si presenta oggi il linguaggio. Probabilmente avevano ragione gli Accademici della Crusca, quando difendevano la purezza della lingua. Laddove manca la ricerca puntigliosa della parola giusta, della sfumatura di senso, la lingua s'ammala e la scrittura muore. Anche se di scrittura sempre si vive e sempre di scrittura si nutrirà il mondo, benché forse non più di giornali.

    Dietro lo scrivere c'è troppa umanità per essere pessimisti sulla sopravvivenza anche dei giornali. Come Ermes, il giornale si trasforma in altro, ma non scompare mai del tutto dalla scena degli uomini. Nel momento in cui vi è l'esplodere di tutte le potenzialità più nascoste del linguaggio, è normale trovarsi davanti ad una mutazione genetica indecifrabile e ad una crisi conseguente della scrittura. Se la lingua è trascurata, quella scritta non riesce ad avere una funzione diversa da quella usa e getta. Si ricorre sempre più di sovente alle “slide”, o ad altre forme di trascrizione esemplificata dei concetti, e si lasciano morire i giornali e i libri, i più antichi e comuni modi espressivi dell'umanità. Da questo punto di vista, si può essere ottimisti anche per i giornali. Non è facile sostituire il tattile piacere del giornale con la fredda scorsa di un Pdf.

    La scrittura necessita della carta, almeno quanto la logica del linguaggio. Dal punto di vista filosofico, in effetti, la scrittura è una specie di ossatura, di scheletro del pensiero. Una funzione analoga a quella che i giornali hanno per le notizie. Se abbiamo pensatori contemporanei come Martin Heidegger che hanno individuato nella scrittura addirittura il vero archetipo della realtà, il vero vertice di senso, lo hanno fatto sottolineando il primato della lingua verbale, il primato dell'oralità. Ve ne sono stati altri nell'antichità che hanno disconosciuto e disprezzato la portata comunicativa della traccia scritta, alla pari dei moderni. Il più importante di loro è stato di sicuro Platone. In fondo, però, lo scetticismo per la scrittura del più grande narratore in prosa della Grecia classica assomiglia all'atteggiamento snob di chi disprezza le scarpe di qualità dopo averle comprate. D'altra parte, in che altro modo giustificare il successo di Platone se non con il fatto che le sue opere erano scritte per l'oralità?

    Anche in questo caso, l'analogia con i giornali ritorna. Comunque si guardi la cosa, la contaminazione tra scritto e orale è più forte di quanto non si ammetta. Si tratta di una fusione globale che non permette eccezioni, e tanto meno dissociazioni complete né in un senso e né nell'altro. Lo scrivere, ovviamente, non ha avuto sempre il ruolo che gli attribuiamo oggi. O meglio che gli attribuivamo ieri. Quindi, non è detto che abbia un ruolo domani. Quasi tutti gli studiosi convengono nel ritenere che vi sia stato un passaggio epocale dall'oralità alla scrittura nei tempi remoti, analogo a quello attuale dalla scrittura all'immagine. E che questo passaggio sia avvenuto proprio nelle città antiche, più o meno come avviene oggi nelle metropoli moderne. Forse anche perciò possiamo temere il ritorno di un epoca in cui le informazioni passino attraverso l'oralità senza più scrittura, o attraverso le immagini senza più alcuna parola visibile. Magari per mezzo di quella forma virtuale di comunicazione che è il dialogo video a distanza, come la televisione digitale o le videoconferenze.

    La politica concorre, poi, a suo modo per rafforzare il più possibile la recessione del testo dai mezzi di comunicazione, evitando di far passare le idee attraverso la scrittura, almeno fin quando è possibile. Probabilmente i politici fanno bene a trascurare lo scritto, perché chi legge di politica di sovente ne capisce ben poco. Tutti, però, lasciano ai giornali il compito imprescindibile di descrivere gli accadimenti e di fare le interviste. Sempre meno, invece, gli demandano il compito di raccogliere riflessioni profonde fatte per restare o presentare critiche incisive. In caso contrario, i giornali divengono inevitabili e insostituibili.
    Ma che altro è un'intervista se non una rinnovata presentazione del dialogo socratico? Che cos'altro rappresenta una conversazione in un giornale se non un'oralità scritta, una trascrizione fossile della vita, un resoconto virtuale del reale incontro tra due falsi o veri interlocutori?

    Il regno reale della politica in TV vorrebbe sostituire con il suo dogmatismo la potenza critica dello scritto. Si può, infatti, guardare la televisione dormendo, ma non si può essere disattenti leggendo. Non si può, cioè, affrontare un giornale senza pensare a quanto vi è scritto. Chi legge pensa, e chi pensa critica e amplia gli orizzonti. Se esiste una palestra dove rafforzare i muscoli del pensiero, questa è la lettura. Pertanto, leggere l'attualità, per mezzo di un giornale, è già fare critica. E' già essere interpreti. E' prendersi la realtà non così com'è data, ma come noi la vogliamo. Al di là delle diverse forme con cui si respinge l'uso della scrittura, quindi, un articolo di giornale non è mai soltanto un marciapiede dove le parole orali camminano sporcando con il loro passaggio la bianca e candida carta di un foglio.

    Le nostre parole, i nostri concetti, anche quando diventano lettera scritta, non diventano mai lettera morta. Non c'è bisogno di essere dei filosofi strutturalisti per avere questa consapevolezza. Paul Ricoeur ha parlato, in tal senso, di una vera e propria “funzione interpretativa della distanza” che si realizza attraverso il passaggio della parola orale al mondo del testo. Mentre l'oralità presuppone gli interlocutori, e la loro presenza viva, la parola scritta prescinde da tutto e sopravvive al tutto. Una parola incisa nella carta si allontana da chi scrive e s'incammina verso chi legge. Si distanzia dal contesto di origine e permane in una specie di limbo, di luogo indipendente. Michael Dummett ha parlato di una “estromissione dei pensieri dalla mente”. Ma forse è la mente che in parte si estromette dalla scrittura. Per rientrarvi presto, naturalmente. Riempita di senso, però. Rileggere non è mai leggere allo stesso modo di prima. Non è mai una replica pedissequa. Un articolo di giornale, come un libro, può essere ritagliato, archiviato, studiato, ripreso e soprattutto utilizzato per comprendere una realtà che non c'è più o una realtà che non c'è ancora. Il più delle volte un articolo descrive e significa un contesto sconosciuto a chi scrive e poco conosciuto a chi legge. Il tutto camuffato e inchiodato nel presente, nel futile, nel transeunte. E', tutto sommato, una prerogativa anche fisica del giornale di carta morire presto, possedere importanza più prima di essere fatto che dopo. Quando un quotidiano è in edicola, la redazione ne prepara un altro. E quest'ultimo è certamente meno importante di quello che uscirà dopodomani.

    Mentre l'oralità, però, muore con il terminare del dialogo, con il dileguarsi dei conversatori, con l'estemporaneità del momento, un giornale resta comunque da qualche parte. Un salotto come si deve non n'è mai privo. Anche per questo la sua vita non è possibile soltanto sul web. Rispetto ad un libro, un quotidiano possiede una specificità tutta sua, straordinariamente affascinante. Come una bella farfalla sembra morire nel breve arco temporale di un giorno. Ma, al contrario di essa, il giornale rimane indelebile ed indistruttibile a testimoniare l'attimo fuggente dentro una bacheca, sopra uno scaffale polveroso, dentro un cestino di paglia, e ricompare quando meno te lo aspetti. Il tempo andato non scompare mai, o perlomeno finge di non farlo, ingabbiato dentro un articolo di giornale. Da Proust abbiamo imparato che quanto è perduto del presente può essere ritrovato poi, può essere ricercato dopo, può essere recuperato in seguito. Nei giornali un po' del passato rimane presente e indistruttibile. Nel quotidiano appare già qualche remoto segno del futuro. Chissà. Non si può mai dire. Anche se è difficile leggere il giornale di ieri, di fatto lo facciamo sempre leggendo quello di oggi. La poesia dei giornali è l'insaziabile contingenza dell'attualità conservata nell'archivio di un'emeroteca domestica.

    D'altronde, che storia potrebbe esserci senza i giornali? Vi pensate affidare la ricostruzione delle vicende del presente soltanto a delle immagini video? Sarebbe un compito improbo e immane come quello di capire chi è il vero colpevole di un omicidio dalle sole prove, senza neanche considerare un indizio di circostanza. Una sicura mistificazione. Un ineluttabile fallimento. Che misera situazione, in effetti, quella di un mondo senza giornali. Perché senza la lettera morta, la realtà agonizza. Languisce e poi muore. E tutto ciò ci fa tornare di nuovo alla scrittura, al suo valore, al suo significato. E' lei colpevole, in effetti, del miracolo dei giornali, ma anche di questo nostro strano mondo pieno di relatività e anche un po' d'insignificanza.

    Il segno giornalistico ci pone realmente più vicini alla dimensione mistica del linguaggio, propria della Sacra Scrittura, che a qualsiasi altra cosa contingente. Almeno in parte la Bibbia assomiglia, in effetti, al grande giornale di bordo di Dio nella storia. Il Testo Sacro è una specie di bollettino informativo narrante la cronaca dei rapporti tra Dio e l'uomo, di Jahvé prima e di Gesù Cristo e degli Apostoli poi. Leggendo le riflessioni teologiche medievali, ci rendiamo conto, ad esempio, che dal passato ci giunge una notizia importante, un grido di speranza, a proposito della scrittura. Probabilmente, è qualcosa di valido anche per intendere i giornali. Secondo la teologia scolastica, cogliere il carattere trascendente del soprannaturale significa riflettere un momento sull'indipendenza di senso della Sacra Scrittura da tutto. Nella Bibbia si può trovare non soltanto l'autorevolezza di chi dona, ma anche la diligenza di chi riceve. In ogni caso, il primato unico della Parola. Come anche nei giornali il valore di chi scrive è legato intrinsecamente alla fedeltà di chi legge. E in tutti vi è il predominio assoluto della parola. I fruitori di un giornale, come quelli della Bibbia, sono protagonisti di un'avventura comunicativa almeno tanto grande quanto il linguaggio stesso, un viaggio tutto racchiuso dentro il perimetro delle parole conservate dallo sguardo di un lettore che scorre veloce i paragrafi che legge.

    Il primato della scrittura è inscindibile dal valore dei segni. Non è un caso che la prima forma vera di rivoluzione della logica la dobbiamo ad Ockham che ha affermato il primato della lingua mentale su tutto. Prima di lui la parola pensata è inseparabile dalla parola proferita, dalla parola narrata e scritta. Forse in Dio il linguaggio è essenzialmente pensiero, ma negli uomini ciò non è possibile. Gli esseri umani apprendono i significati dalla lingua, e la lingua dalla scrittura, un po' come i teologi imparano a pregare leggendo la Parola, e noi a leggere il presente dai giornali.
    Il paragone biblico, torna sempre, sembra blasfemo, ma lo è solo in apparenza. In realtà non lo è per niente. Perché si tratta di una sola esperienza di scrittura che ha a che fare con un unico linguaggio e con un'unica forma misteriosa di comunicazione. Non a caso, il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer ha sottolineato la costante presenza del linguaggio nella conoscenza. Quello che comprendiamo è linguaggio, e quello che sappiamo lo ereditiamo da quanto altri pensarono e scrissero prima di noi.

    Ciò riguarda essenzialmente le tre dimensioni della cultura: la scrittura, la lettura e la conoscenza. Ma è soprattutto la prima ad avere un ruolo principale, trascrivendo sull'eternità cartacea il fuggevole tempo presente. Chi parla non si vede, non esiste più. Chi comunica, come Pitagora, rimane velato, nascosto dietro la verità che trasmette. La comunicazione scritta avviene in una particolarissima modalità intima entro cui il singolo messaggio è ricevuto e fatto proprio da qualcuno. Come Jacques Derrida ha notato in un piccolo capolavoro filosofico contemporaneo, Limited inc., l'unica presenza fisica che c'è dello scrittore in un testo cartaceo è la sua firma. Essa segnala un'esistenza tanto chiara quanto oscura e velata, poco invadente ma sempre personalmente tangibile nello stile argomentativo di un brano. Dopodiché, il vero ruolo centrale è esclusivamente di chi legge. Egli seleziona, fa una cernita. Ma, più ancora, trascura, omette, censura, interpreta e cestina. Chi legge un giornale per intero non lo fa veramente, perché gli articoli non sono scritti perché siano fruiti nel loro insieme, ma uno per volta, soltanto in parte, quasi distrattamente e a ritroso. Meditati, appunto, un po' come se fossero delle piccole preghiere quotidiane.

    Il punto di riferimento di un giornale non è il mondo di chi scrive, ma quello di chi legge. Della composizione nessuno sa niente. E nessuno chiede niente. Chi legge il giornale non è mai un estraneo, mentre chi scrive sì. Anzi, è proprio lui ad estraniarsi. E forse per questo scrive proprio lì, in un giornale, perché deve farlo. Dare un volto sensibile all'idee nella parola scritta di ogni giorno è un privilegio discreto cui non è lecito rinunciarvi quando si può, come non si può fare a meno di tante cose inutili e belle che riempiono di gioia le nostre giornate e di cultura le nostre vite.
    I giornali, in definitiva, sono oggetti d'arte moderna da tutelare costi quel che costi. Come lo spartito musicale di una sinfonia, una serie sensata di segni possiedono qualcosa di più della mera esecuzione di una melodia. Danno la possibilità di poter suonare e ripetere di continuo la musica, reiterando le tracce incise sulla carta bianca un altro giorno ancora, e ancora per un nuovo lettore inesplorato.