Intervista con dedica a Jonathan Safran Foer

Scrivendo si fanno un mucchio di cose, io faccio emergere il silenzio

“Molto forte, incredibilmente vicino” abbandona, ma non del tutto, lo schema della storia ebraica e delocalizza lo smarrimento sulla scena dell'11 settembre, “il giorno più brutto”, visto attraverso gli occhi di un bambino alla ricerca di ciò che rimane – ciò che davvero rimane, oltre le pieghe della storia – del padre scomparso.

    Quei tentativi seriali e anonimi che sono le fotografie rendono di rado giustizia della realtà. In foto, Jonathan Safran Foer, scrittore americano che ha passato da poco la trentina, rischia sempre di dare quell'aria da ragazzo troppo bravo, uno di quelli con cui i compagni di college non si siedono per il pranzo. Le cose stanno diversamente. Giacca beige distrattamente stropicciata, occhiali tondi che sembrano un'estensione del viso: sarebbe più difficile per gli altri portarne di simili, se lui non li portasse. Incontra il Foglio in un albergo del centro di Mantova, dove ieri è stato ospite del Festivaletteratura, in un incontro con Gad Lerner. Sul suo operato di scrittore sono stati bruciati, a ragione, quintali d'incenso. Il romanzo d'esordio, “Ogni cosa è illuminata” è uno dei casi letterari più notevoli degli ultimi dieci anni, una fotografia – questa volta dinamica – della sua storia, un viaggio che dall'America lo porta in Ucraina alla ricerca di ciò che resta della sua famiglia, falcidiata dall'Olocausto. La rarità è che il secondo tempo non delude. “Molto forte, incredibilmente vicino” abbandona, ma non del tutto, lo schema della storia ebraica e delocalizza lo smarrimento sulla scena dell'11 settembre, “il giorno più brutto”, visto attraverso gli occhi di un bambino alla ricerca di ciò che rimane – ciò che davvero rimane, oltre le pieghe della storia – del padre scomparso.

    Dramma, ironia, speranza: il mondo di Safran Foer è una dilatazione acrobatica del dettaglio, un inno universale che replica all'infinito nel lettore la domanda sul perché di questo particolare, sul motivo nascosto fra le svolte improvvise del racconto. Il magistrale Anthony Hopkins nei panni di C.S. Lewis nel film “Viaggio in Inghilterra” dice che “leggiamo per sapere che non siamo soli”. Forse si scrive anche per questo. “Io non amo la scrittura – dice Safran Foer – amo quello che si può fare con la scrittura. Si possono fare un mucchio di cose, ad esempio cercare di fare emergere il silenzio. Io sono cresciuto in una famiglia molto rumorosa, era quasi impossibile che ci fosse silenzio, quindi nel mio approccio alla scrittura si è generato una specie di paradosso: ho iniziato a comunicare per esplicitare il silenzio, il non detto, il sottaciuto, ciò che non si può dire trova la sua via espressiva nella scrittura”. Una famiglia tipicamente ebrea, anche se Jonathan non è religioso e si sente fondamentalmente americano: “Mia nonna era il riferimento della famiglia, una specie di matriarca, lei mi ha trasmesso in modo particolare la coscienza del retroterra ebraico. Ma sono più che altro i miei romanzi a essere ebraici, è come se l'ebraismo fosse un'occasione per esprimermi. Scrivo da ebreo, così come negli italiani, credo, si ravviva il senso di appartenenza nazionale quando l'Italia vince i Mondiali, mentre magari nella vita quotidiana questo aspetto non emerge, o rimane fra le righe”.

    L'endorsement per Obama. Le ultime pagine del romanzo “Molto forte, incredibilmente vicino” sono una sequenza fotografica apparentemente montata male. E' la drammatica immagine dell'uomo che cade dalle Torri gemelle, quel grido disperato che si perde fra i cieli in fiamme; sfogliando si scopre che l'uomo non precipita verso il basso ma, sovvertendo ogni legge, ascende fino a scomparire. Sembra una resurrezione dopo l'agonia, dopo il patimento delle cose, un afflato religioso: “Io sono ateo – dice Safran Foer – ma ci sono cose che mi affascinano esteticamente, anche se non riesco a crederci razionalmente. Il romanzo è per me il rifugio per le cose in cui non riesco a credere. E' come la musica: non tutto ciò che suona è musica, ma quando senti una musica, una vera musica, rimani attonito, a bocca aperta, e tuttavia non sapresti dire il perché. Credo che accada perché quella musica riflette qualcosa che è al di fuori della vita normale. Per questo non sono d'accordo con chi intende l'arte come il riflesso della realtà e anzi, credo che la potenza dell'arte consista nel rappresentare qualcosa al di fuori della vita”. Dunque la realtà risponde ad altre leggi.

    Da americano, Safran Foer non può non essere coinvolto nelle prossime elezioni americane. Non ha mai fatto mistero di essere liberal e convinto sostenitore di Obama, e la sua figura ben rappresenta la nuova ondata di intellettuali che escono dall'università con il New York Times sotto braccio. “Obama – spiega Safran Foer – è una figura interessante in queste elezioni, che credo saranno molto importanti nella storia americana. Credo che possa in qualche modo arginare la cattiva fama che l'America si sta facendo prima che la nostra reputazione sia macchiata in modo indelebile”. E se fosse un fuoco d'artificio, un'abbacinante fregatura? “Obama è in una situazione molto delicata: il suo mito, la sua figura carismatica, deve essere confermata dai fatti. Penso abbia buone idee da mettere in pratica, non che sia perfetto”. Con un'iperbole si potrebbe dire che Obama cerchi di essere la sintesi di vero e bello, i due poli di tensione che combattono nell'ultimo romanzo di Safran Foer, dapprima respingendosi come cariche dello stesso segno, per poi schiudersi quasi misteriosamente, lasciando la flebile speranza che la vita riservi la convergenza dei punti, o faccia sapere almeno che non sono incompatibili.

    Una grande tradizione vede nella perfetta coincidenza di verità e bellezza l'approssimazione del paradiso: “La vicenda di quel libro – dice Foer – è fondamentalmente triste, drammatica, ma la sfida è vedere come questo spunto prosegue nella vita del lettore quando chiude il libro e se ne va in giro per la vita normale”. Su questo il Foglio si congeda, non senza aver chiesto una dedica sul libro. Passa più di un quarto d'ora prima che sulla prima pagina compaia, con grafia fanciullesca, la scritta: “Grazie. Nella speranza che verità e bellezza coincidano perfettamente”.