Brevi saggi più o meno concupiscenti/25

Le ragioni della carne

Redazione

La carne ha ragioni che il cuore non conosce. La carne urla e reclama qualcosa che al cuore non interessa. La carne è costantemente concupiscente e in questo non è né debole né forte. Semplicemente è quel che è. Di tutte le primevoltità, quella della passione è la più violenta. Il desiderio si impossessa dei cinque sensi.

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di Stefania Vitulli

    La carne ha ragioni che il cuore non conosce. Ho frequentato per sedici anni una scuola cattolica. Ho proseguito con quattro anni di Università Cattolica. Almeno una cosa mi pare di averla capita: se avere un corpo, fatto di carne e sangue, e non averlo fosse la stessa cosa, non ci sarebbe stato alcun bisogno dell'incarnazione, della venuta di Dio in terra. Ora, mettiamo pure che sia tutta una storia inventata ad uso e consumo di chi ci vuol credere. Sarebbe comunque inventata a partire da un fatto: la carne urla e reclama qualcosa che al cuore non interessa. La carne è costantemente concupiscente e in questo non è né debole né forte. Semplicemente è quel che è.

    Ho avuto suore illuminate e padri spirituali illuminati. Nell'età in cui la carne si affaccia a reclamare, l'età in cui cuore e cervello percepiscono una voce potente che impone l'ascolto con armi all'apparenza invincibili come odori, suoni e sapori stupefacenti, mai sentiti prima, l'età in cui la carne si agita, viva, rossa, traboccante di umori e si trascina sul tavolo da macello per offrirsi al mondo, in quell'età, che coincide, più o meno, con il principio dell'adolescenza, quelle suore e quei padri ci hanno parlato di concupiscenza. Hanno nominato il desiderio. Hanno collocato il desiderio nel nostro quotidiano di ex bambine ed ex bambini. Hanno smascherato la carne, che prima se ne stava separata da noi, in lotta con il nostro cuore, in fuga dal nostro cervello, e ce l'hanno riconsegnata. Tutti viviamo per la prima volta. E nessuno di noi sa, prima di provarla la prima volta, che cosa sia la passione erotica. Per il nostro corpo, per il corpo di un altro, per il corpo di molti altri. Di tutte le primevoltità, quella della passione è la più violenta. Il desiderio si impossessa dei cinque sensi e questo sequestro azzera ragione e sentimento.
    Ce ne stavamo in classe a guardare da finestre alte il mondo che si apriva su di noi, che voleva i nostri corpi. Sentivamo, chi più chi meno, che avremmo dovuto render conto per la prima volta di qualcosa. Fino a quel momento potevamo dire di non aver posseduto nulla davvero. Ora invece, ci toccava. Eravamo chiamati a dare spettacolo di noi. E a guardare il nostro stesso spettacolo e a partecipare degli spettacoli altrui. Come nel “Mine-Haha” di Wedekind, dove stormi di fanciulle misteriosamente isolate e duramente addestrate alla danza attendono di darsi al pubblico, anche la nostra danza dei corpi stava per avere inizio. Cuore e cervello avrebbero dovuto dare retta alla carne. E decidere. Assecondarla. O non assecondarla. Non essere. O essere. Così, un giorno di questi, illuminato da quelle finestre alte, suona la campanella. Ci sediamo tutti. Entra il padre per l'ora di religione. E incomincia a parlare di corpi.

    Ci mettemmo un po', poiché eravamo fragili e cocciute larve che escono dalla foschia infantile e salgono sulla implacabile giostra degli ormoni, a capire che parlava dei nostri corpi. Ci mettemmo un po' a vedere dissolversi le finestre alte e apparire le nostre carni, a sentirle prendere forma. Ci volle quell'ora di religione e quella di qualche altro giorno per capirci qualcosa. Partì, quel padre, dai Libri Poetici e Sapienziali. Dettagliò il “Cantico dei Cantici” a una classe di adolescenti storditi dalla carne, una specie insieme innocente e pervertita, in continua, inafferrabile mutazione ciclotimica. Lo lesse e lo rilesse e poi lo lesse ancora e ce ne spiegò ogni sostantivo e dunque ogni brandello di corpo e di pelle. Diede a quelle righe una consistenza carnale tridimensionale di eccellente qualità, per cui in poche lezioni divenimmo ipermetropi del desiderio, capaci di declinare sui nostri corpi proprio ciascuna di quelle righe concupiscenti.

    L'attenzione era alta come sempre è e rimane alta per tutta la vita, quando si parla di sesso, di desiderio, di corpo. Perché parlare di concupiscenza, per chi ha la mente sgombra da pregiudizi, significa prima di tutto parlare di “corpo” tra “persone” e soltanto dopo introdurne la morale. Sentivamo il “miele sotto la lingua”, ci guardavamo la “pelle abbronzata”, coglievamo, da neolettori di fumetti, raccontatori di barzellette, spie di biblioteche e camere da letto dei genitori, ogni doppio senso erotico, ogni indulgenza descrittiva devota ai sensi, sebbene quei sapori elogiati dal Cantico, vino, mirra, focacce d'uva passa e melagrane, non ci appartenessero, né nel tempo, né nello spazio. Eravamo di quella disponibilità che concede soltanto, appunto, la primavoltità e che accade sempre meno mano a mano che si procede con gli anni, fino al giorno in cui manca solo la primavoltità della fine.

    Il desiderio dei due sposi del Cantico si arrotolava anche intorno alle nostre lingue. Comprendemmo per l'assoluta prima volta, e dunque per sempre, quanto la concupiscenza carnale erotica sia parente stretta, sorella inseparabile per fattezze e manifestazioni, straniamento temporale, languori e modi di saziarsi, alla concupiscenza carnale del cibo e del vino, somiglianza che oggi non potremmo più percepire in modo così radicale, non soltanto perché siamo diversi noi, svezzati, ma perché svezzata è la grande mela globale, che di cibo e vino da concupire ci ha tolto sia bellezza che lentezza che colpa, e dunque qualsiasi possibilità di apprezzarne il desiderio soddisfatto con amore.

    Il Cantico sublime è stato in quelle ore di religione solo un racconto, certo. Due sposi che si inseguono, che desiderano amarsi, entrare l'uno dentro l'altra, possedersi e poi rincorrersi di nuovo. Due corpi bellissimi concupiti dalla natura, mediterranea epperciò divorante e sensuale. Lo sposo, il maschio, che in un attimo appunto sublime comprende che avere lei, proprio lei, è più sensuale che averne cento, che la fedeltà a un corpo di persona dà piacere quanto e più dell'harem. Un racconto, tuttavia, che ci tolse per sempre dalle labbra quel certo sorriso da cui si riconosce la morbosità. Quel certo sorriso che, bambini, è un sorriso davvero: “cacca”, “culo”, “tette”, le parole “proibite” legate agli organi sessuali o alle funzioni fisiologiche fanno ridere i piccoli. Da bambini ci imbarazziamo perché proviamo piccole vergogne nel dirle e ascoltarle e sentire così un piccolo brivido di piacere attraversare il nostro corpo tutto nuovo. Non capiamo. E ridiamo. Ma se a quel sorriso non si dà la conoscenza della nostra stessa carne, se a quel sorriso non si danno parole per esprimere il desiderio, si trasforma in un ghigno morboso. La piccola vergogna diventa grande. E appena ci gonfia troppo il fegato, ne riversiamo la bile sui corpi altrui. La morale diventa moralismo, la Maddalena rimane solo una puttana, i corpi non hanno più nome, la carne non ha più identità. Il mondo si riempie di cazzi e di buchi.

    Dati i vent'anni in tutto di istruzione cattolica – dall'asilo all'università, mi perito sempre di specificare, in modo che non possa sfuggire che ciascun recesso della mia mente pronta all'imprinting sia stato “contaminato” dalla visione trascendente – non ho potuto né voluto evitare di combattere escandescenti battaglie, finora regolarmente perse per incapacità alla pacatezza, con amici e fidanzati non soltanto atei, che davvero sarebbe il minore dei mali (la verificabilità dell'ateismo è pari solo a quella dei risultati degli exit poll, la sua strumentalizzazione a fini dibattimentali è pari solo a quella dei risultati delle elezioni), ma più che tutto ignoranti qualsiasi rudimento dottrinale che andasse oltre l'aver servito messa qualche volta. Si piccavano di additare a me stessa la luogocomunistica corruzione di costumi intrinseca al mio essere femmina cresciuta a suore e preti, la mia incurabile cecità ai piaceri della concupiscenza, insuperabili solo se alleggeriti da quella valigia piena di mattoni che è il senso di colpa che mi ostinavo a trascinare e, last but not least, la mia inqualificabile ostinazione a voler affermare che la vera libertà nel desiderio è l'appartenenza e che di conseguenza il miglior racconto mai scritto sulla meccanica del desiderio erotico è “Il piccolo principe”.

    Chi cerca timidamente di suggerire che la felicità è a portata di mano, esattamente come la mela, purché accettiamo d'esser fatti di carne e di poterne comprendere i misteri senza farcene asservire, viene subissato da quelle risatine brufolo-morbose di chi si erge a difensore di un'ortodossia che non frequenta, e pancia in fuori e petto in dentro ti vuole rassegnare: “Tanto vi basta la bottarella d'una confessione per superare lo sporcello!”. Lo confesso, non mi sono mai confessata. Ma farlo pensando che il mondo tanto pecca tutto non farebbe che aggiungere peccato di supponenza a peccati di concupiscenza.

    I graziati in tenera età dalla malinconia passivo-aggressiva dell'animalità a tempo pieno, quella che genera le labbra a canotto, il turismo sessuale, il masturbate-a-thon, la poligamia ma soprattutto la psicoanalisi, rischiano, ogni volta che fanno l'amore, la figura dei primi della classe che non ti fanno mai copiare, perché appaiono come snob del desiderio, umani schizzinosi che non vogliono accettare di essere umani. “Dio, facci essere vivi prima che moriamo”, dice la sessantenne May in “The Mother” di Hanif Kureishi. Sola e vedova in un mondo “oscenamente sessuato”, May prende il turbante di concupiscente coatta pur di non dover dire “noi vecchi”: crede d'innamorarsi del giovane amante della figlia e confonde il potere mesmerizzante dello scandalo anagrafico con la carica sovversiva dei sentimenti. Come già in “Teorema”, come poi in “Sei gradi di separazione”, la letteratura, il cinema, il teatro offrono una serie di personaggi-enigma che incarnano la rivoluzione dei cuori pigri, che spandono cinismo infilandosi nelle mutande altrui. Eppure casse di libri e casse di musica e casse di cultura non possono soffocare un messaggio cristallino: la carne è qui, è parte di noi e se non ci occupiamo di lei, se non le diamo conforto, se non le forniamo parole per esprimersi e sentimenti per esultare, prenderà sempre il sopravvento su cuore e cervello, perché è, appunto, carne, e per soddisfarsi le basta esistere.

    Dany Laferrière, haitiano protagonista del suo autobiografico “Come far l'amore con un negro senza far fatica”, uno dei libri più stranianti degli ultimi anni sulla concupiscenza in bianco e nero, legge Hemingway, Miller, Cendrars, Bukowski, Freud, Proust, Cervantes, Borges, Cortàzar, Dos Passos, Mishima, Apollinaire, Ducharme, Cohen, Villon, Lévy Neaulieu, Fannario, Himes, Baldwin, Wright, Pavese, Aquino, Quevedo, Ousmane, J.-S- Alexis, Roumain, G. Roy, De Quincey, Màrquez, Jong, Alejo Carpentier, Atwood, Asturias, Amado, Fuentes, Kerouac, Corso, Handke, Limonov, Yourcenar. Ciascuno di loro è un esperto in concupiscenza, che lo dichiari con le opere o che lo dimostri con la vita: l'allora ventitreenne Dany ne leggeva tutto il giorno. E la notte incontrava giovanissime fanciulle candide come la neve, che, a pagamento, si “mettevano alla prova” sul banco della concupiscenza facendo l'amore con un esponente della razza oppressa: “Questa ragazza giudaico-cristiana è la mia Africa. Una ragazza nata per il potere. Voglio scopare il suo inconscio. E' un lavoro delicato che richiede maestria”, si affanna Laferrière. E coglie, con la maestria, sì, che danno solo o il tormento o l'estasi, il punto: quel che cerca di fare è impossibile.

    Perché per entrare davvero in quella ragazza del Westmount, come in tutte le altre, dovrebbe darle un nome. Per possedere davvero quel corpo, “raggiungere la sua anima Wasp”, sapere che cosa pensa mentre fa l'amore con lui (“Non esiste sessualità senza fantasmi”, scrive Laferrière e prima di lui Pauline Réage, l'autrice d'“Histoire d'O”) quel corpo dovrebbe avere un nome e quel nome dovrebbe avere significato soltanto per lui, su tutta la terra. “Il giovane haitiano da un milione di libri” si ritira allora da quei corpi inerti e mentre si allontana sente un grido: “Che cos'è? E' la vagina stessa che grida. Grido teso, in do di petto, costante, inumano, ora allegro, ora andante, ora pianissimo, grido interminabile, inconsolabile, elettronico, asessuato, che mi ricorda inflessione dopo inflessione il grido primitivo venuto dalla camera di Belzebù, là in alto”. Inconsolabile, asessuata, inumana: la carne, abbandonata a se stessa, reclama felicità. Abbiamo un'intera vita per nutrirla con le ragioni di cuore e cervello. Tutto il resto è noia. Maledetta noia. (Nella foto, un particolare della locandina del film “Storie di ordinaria follia”, di Marco Ferreri, 1981)

    di Stefania Vitulli

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